Addio a Lucilla Morlacchi, Mater Dolorosa dei “Turcs” di PPP

Si è spenta il 13 novembre a Milano (vi era nata nel 1936) Lucilla Mor­lac­chi, una delle grandi signore della scena teatrale ita­liana. Un volto caro agli appassionati di cinema e di teatro, che la ricordano da ragazza, diretta da Luchino Visconti, nel ruolo della giovane e tormentata Con­cetta nel Gat­to­pardo. Ma, pre­senza sempre magnetica in scena e sullo schermo, l’attrice, con la sua acuminata sensibilità, ha impresso un segno forte nel tea­tro ita­liano dell’ultimo quarto del Novecento, distinguendosi per la scelta di  ruoli intensi, impegnativi, pensosi, che le richiedevano un grande coinvolgimento fisico ed emotivo.
Diplomata ai Filodrammatici, dopo l’esordio al fianco di Ernesto Calindri e Lina Volonghi, fu attiva  per molti anni con lo Sta­bile di Genova, in cui fu Edvige nell’ Ana­tra sel­va­tica di Ibsen, primo impe­gno pub­blico di Luca Ron­coni a Prato, nel 1977. Altra memorabile interpretazione fu Kat­trin, la figlia muta di Madre Cou­rage di Bre­cht, nella capi­tale edi­zione che aveva Lina Volon­ghi come pro­ta­go­ni­sta.  In un soda­li­zio molto stretto con Franco Parenti, par­te­cipò anche alla fon­da­zione del Pier­lom­bardo, e per lei Gio­vanni Testori scrisse dei testi, nel momento in cui nac­que la Tri­lo­gia degli Scar­roz­zanti, tanto che  La monaca di Monza I pro­messi sposi alla prova restano fortemente legati alla sua presenza. Di recente era tor­nata ancora in abiti mona­cali, affilata e rigidissima, assieme a Ste­fano Accorsi nel Dub­bio dell’americano John Shanley, su regia di Sergio Castellitto. Ruolo impervio anche quello, che la vide nei panni di una bigotta e cieca custode delle tradizioni più bieche, che cede alla calunnia nei confronti di un giovane prete accusato (ingiustamente) di pedofilia.
L’ultimo trion­fo era avvenuto tuttavia per un testo male­detto di Jean Genet, Le serve, per la regia di Massimo Castri che aveva costruito per la Morlacchi e la sua compagna di scena, Paola Man­noni,   una par­ti­tura strepitosa, al bivio tra  il tra­gico e il grot­te­sco.
Ma, nella sua lunga carriera, Lucilla Mor­lac­chi ci consegna soprattutto due imma­gini fol­go­ranti e sto­ri­che nella memo­ria tea­trale, in entrambe le occa­sioni diretta da Elio De Capi­tani. Nel 1990, rivelò sui Ruderi di Gibel­lina la sco­no­sciuta forza schil­le­riana de La sposa di Mes­sina. Nel 1995, all’Arsenale di Vene­zia, fu la madre roca e dolorosa de l Turcs tal Friúl, il dramma in friulano che Pier Paolo Paso­lini scrisse negli anni giovanili di Casarsa e che uscì postumo nel 1976. Fu una prova d’attrice straordinaria che la trasfigurò in una figura potente e arcaica, nella cui bocca il friulano di Pasolini risuonava come una voce misteriosa da tragedia greca.

Dell’indimenticabile messinscena de I Turcs tal Friúl di Pasolini, firmata da Elio De Capitani, e della struggente interpretazione di Lucilla Morlacchi  nei panni della Madre (le valse nel 1997  il premio Idi per il teatro), riportiamo la recensione di Franco Quadri, uscita su “la Repubblica” il 16 giugno 1995, in occasione del debutto veneziano.

"I Turcs tal Friul". Foto di scena. In primo piano Lucilla Morlacchi
“I Turcs tal Friul” . Foto di scena. In primo piano Lucilla Morlacchi (Archivio “l’Unità”)

 

 Pasolini intimo e politico

di Franco Quadri

www.repubblica.it – 16 giugno 1995

Sente l’ ombra della storia delle sue terre amate mentre scava e prefigura la propria storia personale, il Pasolini ventiduenne che scrive I Turcs tal Friúl (I Turchi nel Friuli) nel furlano contadino di Casarsa, lingua materna delle sue prime raccolte poetiche. I Turchi avevano realmente attaccato la regione nel 1499, anno in cui la vicenda è ambientata, risparmiando per incanto il suo paese; e con quell’ esperienza lo scrittore mette a confronto due fratelli che hanno lo stesso cognome di sua madre, Pauli e Meni Colùs (cioè Colussi), evocando un proprio rapporto privato. Davanti alla sopraffazione della barbarie, respirata anche da lui in quel ‘ 44, e all’ angoscia di un’ intera comunità, c’ è una giovinezza che grida il suo diritto di vivere, ma deve misurarsi con la morte. E questa morte, che nella finzione si porta via il secondogenito, apre la strada a troppe coincidenze: la fine del fratello del poeta, Guidalberto, partigiano tra partigiani d’ altro colore, solo un anno dopo la scrittura; quella dello stesso Pier Paolo, giusto un anno prima della pubblicazione. Forse a trattenerlo aveva contribuito la sua forma teatrale, da lui sperimentata anche più giovane, ma con cui aveva serbato un rapporto traumatico e che era giunto a codificare solo negli ultimi anni. I Turcs del resto anticipano l’ aspirazione delle opere più mature al ritrovamento della tragedia: l’ azione è solo raccontata, un’ impronta corale avvolge le poche figure precisate, mentre s’ accende il dibattito ideologico, dividendo nel pericolo dell’ aggressione chi vuole affidarsi rassegnato alla protezione celeste e chi ne accusa la lontananza dalle cose terrene. Meni sceglie i valori dell’ uomo e viene ricompensato con la morte al primo scontro. Ma il suo sacrificio diviene fecondo proprio quando il dubbio sta per afferrare i sopravvissuti e la fede stessa del fratello: un’ ondata di vento provvidenziale spazzerà via anche la minaccia ottomana. Nella sua esemplarità, l’ aneddotica rispecchia alcune ingenuità dei dettagli, agevolmente riscattate dagli squarci poetici.
E a dar vigore e fascino al testo c’ è il friulano in cui è scritto, con le sue parole che richiamandosi al latino trovano nel costruirsi del discorso, e nella distensione dei frequenti monologhi, ritmi di una naturalezza un po’ distaccata nel tempo. La loro imperscrutabilità è stata pure la ragione per cui quest’ opera è rimasta un po’ accantonata, per quanto sia già stata rappresentata almeno due volte tra la pubblicazione e gl’ inizi degli anni 80. L’ attuale coproduzione di Teatridithalia e dello Stabile del Friuli Venezia Giulia costituisce la sua prima messinscena di alto impegno […]. Proprio dalla lingua parte Elio De Capitani, che dopo avere reclutato sul posto e tra i non professionisti il nerbo dei suoi quaranta attori, esercitati in un lungo seminario, privilegia la parola e la sua funzione liturgica, destinata a sfociare nel canto. Solo cantando si esprime il coro delle donne, che sdoppia alla soglia del regno delle ombre il personaggio portante della vecchia Anuta Perlina.
Per loro Giovanna Marini, come sempre bravissima anche nello scoprire ed educare voci, sulla scorta delle tradizioni friulane ha inventato arie nervose alternate a motivi giocosi e coinvolgenti, mentre per le scene di massa attorno al Prete ha orientato verso la musica religiosa la sua partitura, uno dei punti forti della serata. Lo spettacolo s’ispira infatti ai modi dell’ oratorio, con la sua propensione all’ immobilità dei gruppi, plasticamente contrapposti nella calma attonita dello spazio scenico al bordo della laguna nell’ Arsenale, su un rettangolo pratoso ricoperto da un telo bianco e limitato da un bianco pannello davanti al tronco di un faggio patriarcale. Lo scenografo Carlo Sala ha pure curato i costumi, rigorosamente in bianco e nero, per i gruppi sempre allineati con precisione, a far da sfondo dialettico ai singoli, che a volte ne escono per andare a isolarsi con gesti magari ripresi dal folclore e contagiosamente moltiplicati, ma facendo attenzione a evitare ogni spunto realistico. Un rigore pudico impedisce perfino di demonizzare l’ invasore, indicato dalle traiettorie degli sguardi o coi colori delle luci: il rosso ovviamente per l’ incendio di un paese vicino, il bianco per la luna invocata dai turchi nel loro bellissimo ritornello di distruzione, alternato alle preghiere ritmate dei paesani e messo in bocca agli stessi attori del gruppo, come fossero loro a figurarsene l’ incubo. Ma non tutti i sentimenti sono tenuti nascosti: dietro a un’ asciutta durezza nel manifestarsi, anche quando il grido è muto e se l’ addio sfugge i baci, la Madre palpitante e severa di una grande Lucilla Morlacchi, ci parla attraverso l’ emozione, al di là del suo atteggiarsi pittorico fitto di gesti che non si dimenticano. Dall’altra parte, il Parroco paterno di Giovanni Visentin assume i tratti del Nazareno nella sua intensa personalizzazione, accanto alle forti immagini conferite con sensibilità ai due fratelli da Fabiano Fantini e Renato Rinaldi. Una vera rivelazione per la delicatezza figurativa e le capacità vocali è la corifea Claudia Grimaz.