“A na fruta” di Pasolini poeta friulano. Un commento

La poesia A mé fiozza  (A mia figlioccia)  fu scritta da Pasolini per la figlia di una cugina che aveva tenuto a battesimo. Questa poesia d’occasione, uscita sulla rivista “Ce fastu?” nell’ottobre 1943,  conobbe poi un profondo rifacimento e col nuovo titolo A na fruta comparve dapprima nella raccolta Tal còur di un frut (1953) e infine ne La meglio gioventù (1954). Sollevata a un piano più assoluto rispetto all’occasione contingente che l’aveva sollecitata, la lirica (quattro quartine di settenari) è strutturata come una sorta di profezia, che lascia intravvedere il futuro di una bambina, evocata dal poeta da lontano e dunque solo pensata. Il poeta e la bambina, che all’inizio sono staccati e diversi, saranno poi accomunati da uno stesso destino di dolore. Una “croce” che per entrambi si originerà con la nascita della voce interiore, che tuttavia sarà incapace di uscire dal cuore e tradursi in parole  e comporterà la condanna alla solitudine e al silenzio.
Su www.tempi.it del 20 luglio 2015, Pier Giacomo Ghirardini legge con interpretazione originale questo gioiello lirico del Pasolini poeta friulano come una metafora dell’amore tra creature che non si possiedono l’un l’altro ma trovano una dolorosa affinità nel linguaggio inesprimibile del cuore. (af)

Per capire davvero come «vince l’amore» più che Twitter serve il friulano di Pasolini
di Pier Giacomo Ghirardini 

www.tempi.it – 20 luglio 2015

 

L’amore vince non se ci appropriamo dell’altro,
ma se l’abisso che ci separa è colmato da una voce che nasce nel petto
e ci fa portare l’uno la croce dell’altro.

Nell’assolato friulano di Casarsa della Delizia bambina si dice fruta.
Ho conosciuto il Friuli quando era ancora periferia del mondo e si poteva dedicare una poesia così a una bambina-ragazza-sorella-madre.

A na fruta
(di Pier Paolo Pasolini)

Lontàn, cu la to pièl
sblanciada da li rosis,
i ti sos una rosa
ch’a vif e a no fevela.

Ma quant che drenti al sen
ti nassarà na vòus,
ti puartaràs sidina
encia tu la me cròus.

Sidina tal sulisu
dal solàr, ta li s-cialis,
ta la ciera dal ort,
tal pulvin da li stalis…

Sidina ta la ciasa
cu li peràulis strentis
tal còur romai pierdùt
par un troi di silensi.(1) 

Noi non sappiamo quello che vogliamo. Desideriamo lo sguardo desiderante dell’altro. Desideriamo di “essere come l’altro”, incuranti del rischio che colui che eleggiamo a “modello” possa  rivoltarsi contro di noi e divenire “ostacolo”, nel double bind descritto da Gregory Bateson.
Arriviamo al desiderio dissociante di essere “altro da noi”, di “essere l’altro”, di cambiar corpo come un costume di carnevale. E questo inferno della mimesi, finché non tocca i manovratori sull’unica cosa che conta (il danaro), è incoraggiato e chiamato amore: #LoveWins.
Ci si strugge per la bellezza di una pelle sbiancata dalle rose, una rosa vivente che non ha bisogno di favella. Ci mozza il fiato in gola la grazia dell’altro o dell’altra, con la sola sua presenza silenziosa (sidina in friulano occidentale, quasi diminutivo di “zitta”, come è detto di una bimba) che riempie improvvisamente lo spazio, irradiando come una resurrezione il nostro quotidiano. Sul pavimento del solaio, sulle scale, nella terra dell’orto, nel pulviscolo delle stalle.
Ma l’amore vince nel momento in cui ci accorgiamo dell’irriducibile alterità dell’altro. Nel distacco, nella lontananza (lontàn). Noli me tangere. L’amore vince non se ci appropriamo dell’altro, ma se l’immenso abisso che ci separa dall’altro verrà colmato da una voce che ci nascerà nel petto e ci farà portare l’uno la croce dell’altro.
Come dice René Girard di Hölderlin, imitare Cristo mettendo gli altri alla giusta distanza significa liberarsi dalla spirale della mimesi: non imitare più per non essere imitato. Cristo si può solo imitare nel ritiro. Nella casa (ta la ciasa). Parole strette in un cuore ormai perduto per un sentiero di silenzio.

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(1)
A una bambina

Lontana, con la tua pelle sbiancata dalle rose, tu sei una rosa che vive e non parla.
Ma quando nel petto ti nascerà una voce, porterai muta anche tu la mia croce.
Muta sul pavimento del solaio, sulle scale, sulla terra dell’orto, nella polvere delle stalle.
Muta nella casa, con le parole strette nel cuore, ormai perduto per un sentiero di silenzio.
(traduzione di Pier Paolo Pasolini)