Da 26 febbraio fino a 16 marzo 2016, al Palazzo Fruscione di Salerno, saranno esposte le fotografie che Dino Pedriali scattò nella casa di Pasolini a Chia, vicino Sabaudia. La mostra, intitolata Dino Pedriali (Pier Paolo Pasolini – Nostos: il ritorno) 1975 – 1999, raccoglie sia i celebri scatti del 1975, pochi giorni prima della tragica morte del poeta, che quelli, inediti, realizzati da Pedriali ventiquattro anni dopo, nel 1999, negli stessi ambienti di Chia, ma ormai vuoti e segnati dall’assenza dell’artista che li aveva amati e abitati.
La mostra è solo una delle iniziative organizzate dall’associazione salernitana Tempi Moderni, in partnership anche con Salerno Letteratura, nell’ambito della manifestazione La Parola Innamorata, che gode del sostegno del Comune e della Fondazione Carisal, è patrocinata dall’Università di Salerno e ha conosciuto il suo avvio con la intitolazione alla memoria di Pier Paolo Pasolini dell’ex Cinema Diana.
Qui di seguito le riflessioni e i ricordi che per l’occasione Pedriali ha voluto rilasciare al giornalista Stefano Pignataro sul senso del suo lavoro di fotografo pasoliniano.
Gli ultimi giorni di Pasolini negli scatti di Dino Pedriali
di Stefano Pignataro
http://lacittadisalerno.gelocal.it – 24 febbraio 2016
Un ritorno letterario e fisico. E’ questo il messaggio profondo ed accuratamente didascalico delle fotografie del fotografo Dino Pedriali che, dopo anni di censure e di veti, saranno esposte in esclusiva a Salerno a Palazzo Fruscione.
La mostra Dino Pedriali (Pier Paolo Pasolini – Nostos : Il ritorno) 1975 – 1999 intende restituire, attraverso gli scatti di Pedriali, alla società ed alla letteratura stessa il Pasolini degli ultimi giorni, giorni che furono tormentati ma allo stesso tempo frenetici e intensi.
Era l’ottobre 1975: Pasolini stava ultimando il montaggio di Salò, stava pubblicando sul “Corriere della Sera” quelli che diventeranno gli Scritti corsari, stava lavorando a Petrolio e si sentiva da tempo in preda ad un forte disagio esistenziale. Pedriali accettò la richiesta di Pasolini di realizzare fotografie di nudo e fotografie che lo ritraevano al suo lavoro di sempre, quello di scrittore. «Sarà uno scandalo», ma così non fu, dato che dopo pochi giorni si consumò il suo delitto.
Pedriali, la mostra ha per titolo “il ritorno”. Cos’è per lei il ritorno di Pasolini e qual è la storia di questa mostra?
La mostra nasce da un libro intitolato Pier Paolo Pasolini, scritto nel 2009, che raccoglieva molti degli scatti che avevo realizzato. Ho però trovato molte difficoltà per questo libro in quanto subito gente estranea se ne appropriò non facendomi mettere mano nemmeno alle correzioni e sui testi. Il mio messaggio per questa mostra qui a Salerno e per tutte quelle su Pasolini che ho realizzato, è questo: cercare di far capire alla gente con l’immagine quello che non riesce a capire con la scrittura. La storia di questa mostra parte dal libro ma parte anche da un mio effettivo ritorno a quella casa di Sabaudia (e non di Chia, come molti credono) dove io effettuai i famosi scatti a Pasolini nell’ottobre 1975. Una casa diventata un rudere. Ritornavo in quella casa. E dalle “ceneri” di quella casa ho voluto, nel 1999, ridare visibilità a quelle foto. Nudi compresi, foto che erano state celate.
Peter Weiermair l’ha definita «Il Caravaggio della fotografia del Novecento». Davanti al suo obiettivo sono passati Federico Fellini, Andy Warhol, Alberto Moravia e molti altri. Il suo nome però, e forse anche lei ne converrà, resta legato agli scatti di Pasolini.
Sì. Lavorare con Pasolini mi ha emozionato più di tutto, mi colpiva la sua poesia ed il suo animo da poeta. Perciò ho difeso a spada tratta i miei scatti. Non ho permesso a nessuno di appropriarsene.
Le sue foto preannunciano la morte di Pasolini. Che cos’è per lei la morte?
La morte, citando sempre Pasolini, «è non poter essere più compresi». Io invece cerco di far comprendere ciò che ho da dire attraverso la fotografia. La storia di questa mostra è anche la mia storia.
Lei, nella sua carriera e per le sue foto, è stato attentissimo ai luoghi delle mostre. Stavolta, per una delle sue più importanti, ha scelto Salerno e Palazzo Fruscione. C’è un motivo particolare?
Il Palazzo è bellissimo e sono molto contento della mia scelta. Avevo stabilito, per questa mostra, un criterio di esposizione diverso, fatto di linee orizzontali e verticali. Il Palazzo si è da subito rivelato adatto per questa mia esigenza; poi adoro il Sud, ho antenati a Nola.
La sua fotografia più famosa è il cosiddetto “ritratto icona”, forse la foto più popolare di Pasolini, adoperata nei libri di testo di scuole, università. Che storia ha questa foto?
Fu una foto che realizzammo sempre per quegli scatti maledetti. L’idea di Pasolini era quella di essere fotografato mentre lavorava alla sua Olivetti. Avrebbe alzato solo due volte la testa ed avrebbe assunto quella posizione ormai celeberrima. Era un lavoro di scatti e di velocità.
Chi sono stati i suoi maestri e quali maggiori insegnamenti ha tratto da loro?
Il mio primo maestro è stato Nickolas Muray. Lui mi ha insegnato a fotografare al buio. Poi, quello che io chiamo «ago della bilancia», che è stato Andy Warhol. Ma anche Pasolini è stato un mio maestro della fotografia. Di lui conservo questo suggerimento, che ho utilizzato nel corso della mia carriera quarantennale, avevo venticinque anni infatti quando realizzai a Pasolini quegli scatti. «E’ difficile fare il ritratto perché l’uomo porta con sé due volti: il ritratto da non fare e il ritratto da fare».
Queste foto della mostra hanno avuto anche loro una loro storia. Lei le portò a Graziella Chiarcossi pochi giorni dopo l’omicidio di Pasolini.
Sì. E sono oggi più che mai contento di essere andato dalla Chiarcossi con il corpo ancora caldo di Pasolini a consegnare gli ultimi scatti (18-24) non ancora spuntinati. Dopo 3 o 4 giorni mi chiamarono dicendo che in cambio di quegli scatti avrei fatto una carriera gloriosa a condizione che distruggessi i negativi dei nudi. Mi alzai da quel salotto pieno di profumi, odori, passioni e dissi che attaccando attaccavano Pasolini. Non capirono cosa avessi voluto dire e dissi che l’avrebbero capito in seguito. Poi, nel 1978, esposi i nudi a Milano.
Cos’è che ha fatto più suo del pensiero di Pasolini?
Il pensiero che più mi ha affascinato di Pier Paolo è, da fotografo, quello riguardante la mutazione antropologica e la sparizione dei volti puri, innocenti. Oggi l’innocenza E dunque i volti vengono trasformati dai compromessi e ciò non va bene. Occorre che il Governo si faccia carico con commissioni specifiche dei problemi che affliggono il mondo della cultura; ma lo deve fare seriamente, senza censure.