Sacralizzazione del profano e profanazione del sacro
di Giorgia Bruni
[…] io amo il cinema perché con il cinema
resto sempre al livello della realtà.
È una specie di ideologia personale, di vitalismo,
di amore del vivere dentro le cose, nella vita,
nella realtà.
Pier Paolo Pasolini
Intervista a “Filmcritica”, gennaio-febbraio 1967
Il cinema assume, agli occhi di un Pasolini neo battezzatosi regista a 39 anni, le sembianze di una forma d’arte immediata attraverso cui la rappresentazione della realtà si possa realizzare, in arcano e sublime mistero, mediante la realtà stessa. Non necessita dunque di ulteriori codici mediatori all’interno di uno straordinario rapporto a due partorito dall’autore per la fruizione di un pubblico riflesso nella verità vergine, non violentata dal falso dello schermo.
[…] il destinatario del prodotto cinematografico è anche abituato a ‹leggere› visivamente la realtà, ad vere cioè un colloquio strumentale con la realtà che lo circonda in quanto ambiente di una collettività: che si esprime appunto anche con la pura e semplice presenza ottica dei suoi atti e delle sue abitudini. […] ma c’è di più – direbbe un teorico: ossia c’è tutto il mondo, nell’uomo, che si esprime con prevalenza attraverso immagini significanti (vogliamo inventare, per analogia, il termine “im-segni”?) : si tratta del mondo della memoria e dei sogni. Ogni sforzo ricostruttore della memoria è un ‹seguito di im-segni›, ossia, in modo primordiale, una sequenza cinematografica. (1)
Notiamo come ogni espressione artistica in Pasolini aneli inesorabilmente ad una recondita riappacificazione o all’ancestrale contrasto tra sacralità e profanità e come esso trovi compimento spesso nell’ossimorico scambio, tinto vividamente di non casuale paradosso, tra i due elementi.
Poiché il cinema non è solo un’esperienza linguistica,
ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica. (2)
Doloroso si staglia, sull’orizzonte mistico di sacralità e profanità, il tema della morte; filo rosso a cui restano intrecciati, nella matassa dell’esistenza umana, molti lungometraggi del regista. Accattone, opera prima attraverso cui Pasolini si consacra alla settima arte, già mostra le cicatrici di questi intricati rapporti aventi come massimo comune denominatore la nera thanatos in vesti stracciate e “affamate”. Il film inizia “dantescamente”:
l’angel di Dio mi prese e quel
d’inferno gridava: “O tu del Ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ‘l mi toglie.(3)
Si afferma, nell’incipit qui riportato, la tendenza alla prolessi; embrione di una tecnica, già sperimentata nel campo della letteratura, e che svilupperà una sua definita costituzione ruotando sul perno dell’immagine, della musica o, sempre più raramente, della parola nelle successive opere audiovisive del neo-regista. Non a caso, infatti, Pasolini, appassionato cultore di Dante e della sua apertura alla “trasumanar”, predilige versi appartenenti al V canto del Purgatorio, ossia al passaggio in cui la Corona fiorentina e il proprio mentore latino attirano l’attenzione, a cui seguiranno l’avvicinamento e il dialogo, delle anime di chi morì “per forza” e, pur avendo condotto una vita appassita dalla colpa, ma pentendosi poco prima dell’ultimo respiro, spirò nel perdono del Signore.
Accattone, ladruncolo di un sobborgo straripante di profanità in cui ogni giorno si deve imparare in fretta a sopravvivere e in cui si ha diritto a opachi bagliori di autocoscienza che rendono ostico il riscatto, è destinato tuttavia ad una morte “sacra” attraverso cui, repentinamente, lo spettatore percepirà la profonda e inquieta santità del protagonista e proverà pietà per lui. Il riscatto è dunque nella dimensione dell’assenza? No, perché in Pasolini la morte non è mai “assenza” o “vuoto” ma un “pieno” o, meglio, una presenza della luce nella quale la verità si rende più chiara e fruibile; la morte è presenza al cui cospetto il sacro e il profano spezzano le catene del comune sentire e si fondono, si ribellano, si smarriscono per risorgere.
Quando ero bambino, parlavo da bambino, sentivo da bambino. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera oscura, ma allora vedremo in modo chiaro, faccia a faccia; adesso conosco soltanto in modo imperfetto, allora invece conoscerò come sono conosciuto.(4)
Scrisse così nella Prima lettera ai Corinzi, oggi nota come “Lettera della carità”, Paolo di Tarso: altra figura cardine enigmaticamente affine e intrecciata alla sensibilità di Pasolini. In Pasolini la morte è dunque anticipata non solo dalla citazione dantesca, in cui nello specifico il purgante Bonconte da Montefeltro sta narrando al fiorentino la lotta tra il diavolo e l’angelo per il possesso della sua anima, ma se ne respira il presagio anche nelle prime scene di Accattone.
Allora, il protagonista-Franco Citti è seduto al bar con i suoi compari “malandri” accecati sin dalla nascita da una rabbia ancestrale, e al sopraggiungere di un altro di questi il discorso si sposta su un certo “er Barberone”, morto in acqua per congestione in seguito ad una sciocca sfida a cui Vittorio-Accattone aderirà subito, proponendo un bis in cui giocherà il ruolo del protagonista. Prima di accennare alla scomparsa dell’amico di cui sopra, uno degli scioperati si rivolge ai compari esclamando
“Me parete tutti usciti dall’obitorio”
e i componenti dell’”allegra brigata” saluteranno, poi, l’impresa del capobranco Vittorio-Accattone con affermazioni eloquenti che di seguito riportiamo:
“E tanto che stai a fà a ‘sto mondo te?”
“Và, và! Tanto ar camposanto c’è posto per tutti!”
Dopo la temporanea gloria di Accattone, altri richiami alla morte si compiono nella beffarda mimica ad opera di “er Tedesco” il quale imiterà il povero Barberone disteso e a mani giunte, ridacchiando sulla bruttezza dell’amico senza vita e con “la panza gonfia”. Ancora, dato di notevolissimo interesse, il dialogo tra altri due incentrato sempre sulla sorte del neo-defunto Barberone mutuato sulle rime dantesche d’ouverture del lungometraggio riadattate, attualizzate e contestualizzate ai fatti narrati:
“Tu che dici? Chi se l’è preso, er Barberone? Gesù Cristo o il diavolo?”
“Se lo staranno a litigà! …..Certo era un bel soggetto!”
Il film, a tratti, può leggersi come una proiezione sullo schermo dei romanzi romani di Pasolini Ragazzi di vita e Una vita violenta i cui protagonisti “accattoniani” ante litteram troveranno, seppur perseguendo cammini umani differenti e inversamente proporzionali, la morte in acqua; acqua elemento tanto di vita quanto di morte e cuore pulsante della Casarsa di Pasolini.
Fontana di aga del me país.
A no è aga pì fres-cia che tal me país.
Fontana di rustic amòur.(5)
(Fontana di acqua del mio paese// Non c’è acqua più fresca che al mio paese// Fontana di rustico amore).
Ogni riferimento alla morte in Accattone altro non è se non una preparazione alla vera Morte: quella del riscatto, della verità, quella, diremo, del significato profondo e rivelatore di una profanità battezzata e riscolpitasi sulla Croce. La scena finale del film è volutamente ovattata dalla musica malinconica e dallo sfrenato andamento prolettico che, partendo dal sogno in cui Accattone sceglie di custodire le sue membra “là dove è la luce”, si esplicita in un crescendo di rimandi alla tetra fine annunciata ab origine. Il bianco, specchio di quella stessa luce onirica a contrasto con le tre figure, mostra una forzosamente candida Città Eterna pronta a contare, di lì a poco, un’altra sua vittima. La risata catartica di Accattone e dei suoi due compari, conseguente alla battuta “puzzi più da vivo che da morto” , apparentemente stona con l’andamento drammatico di questi ultimi fotogrammi. L’opera è, in certo senso, “ciclica” in quanto si apre e culmina nel segno della fine:
“Mo’ sto bene!”.
Le ultime parole pronunciate dal protagonista racchiudono e schiudono definitivamente il mistero: l’inconsapevole sacralità della sua esistenza sublimata dalla morte e mascherata dalla profanità.
Apoteosi dello scambio di ruoli tra sacralità e profanità sull’orizzonte della morte è La ricotta, mediometraggio e capolavoro scaturito dal genio di Pasolini. Il film si ispira al metateatro ed è tutto giocato sulla rappresentazione nella rappresentazione, come sarà poi anche Che cosa sono le nuvole?. Accusato di vilipendio alla religione di Stato, La ricotta ripropone le vicissitudini apparentemente comico-burlesche di un set cinematografico presso cui, nella fattispecie, procedono le riprese della Passione di Cristo e dove, accanto ad affermati attori “farisei” rivestiti di adorante cattolicesimo istituzionale e superficiale, si trovano a guadagnarsi il “pane quotidiano” attori non professionisti, appartenenti all’amato quanto sofferto sottoproletariato romano. Alla comparsa “Stracci” tocca il ruolo del ladrone buono pentitosi sulla Croce accanto al figlio di Dio morente. Tra un ciak e l’altro, l’uomo sfama la sua numerosa famiglia grazie al “cestino” riservato agli addetti al set restando, suo malgrado, digiuno e affamato.
“Io m’arrangio”.
Inizia così la picaresca ricerca di espedienti solo in principio marcatamente divertenti del povero Stracci (nomen omen), costretto infine a ingollare in brevissimo tempo un’intera ricotta acquistata nei pressi del parco in cui un regista d’eccezione, Orson Welles, sta dirigendo le scene del suo film.
Nel Medio Evo il pellicano era il simbolo del sacrificio supremo di Cristo sulla Croce ed emblema dell’eucarestia in base all’errata credenza secondo cui l’animale strappasse la propria carne dal petto per sfamare i suoi piccoli e li dissetasse con il proprio sangue. Allo stesso modo Stracci muore sulla Croce soffocato dalla ricotta dopo aver rinunciato al suo pranzo per cederlo alla famiglia.
L’opera allora si può leggere in chiave allegorica come un confronto-scontro tra il cristianesimo nell’accezione di religione naturale intrisa di sacralità secolare, a cui appartiene l’onnipresente pasoliniano ”Altrove” non corrotto e pullulante di oppressi, vinti e “veri”, e il benpensante universo governato dal Potere e omologato in cui si è smarrita, in anni di adeguamento al conformismo sociale, la dimensione del sacro e la religione è ridotta a fregio accessorio e a completamento dell’outfit di standard italiano. Non casuale, infatti, la citazione della poesia di Pasolini letta al giornalista di “Tegliesera” da Orson Welles:
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o sulle Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta.Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
Stracci è l’emblema del Cristo; egli offre se stesso per i suoi cari sino al sacrificio estremo della medesima morte di nostro Signore utile al regista per il lancio del film. Riportiamo di seguito lo scambio di battute tra Welles e il giornalista di cui sopra:
Regista – “E’ malato di cuore lei?”
Tegliesera – “No, no, facendo le corna!”.
Regista – “Peccato, perché se mi crepava qui davanti, sarebbe stato un buon elemento per il lancio del film.”
Così Stracci si “trasumanizza” e dalle sponde del profano si tinge di sacro, sublimando il suo status sociale e affermando la sua presenza, anch’egli come Accattone, fra le braccia di una morte “santa” al di là della rappresentazione.
“In verità ti dico: oggi sarai con me nel Paradiso”. (6)
Nell’aprile del 1964 Pier Paolo Pasolini dà il via ad uno dei set più complessi e intricati di tutta la sua carriera: iniziano, dopo notevoli difficoltà e impedimenti, le riprese de Il Vangelo secondo Matteo, film meditato da lungo tempo, forse sempre presente nelle intenzioni segrete di Pasolini ma ancora mai sviscerato e vissuto artisticamente. Con il Vangelo Pasolini spoglia una parte del suo intimo e lo riversa nella pellicola: per la prima volta, infatti, la questione del sacro e del proprio “profondo cattolicesimo” viene esplicitata sullo schermo. L’opera è uno struggente dialogo tra il poeta di Casarsa e la ricerca socratica della verità nel suo stesso io. Pasolini si sacralizza ricostruendo i tortuosi sentieri dell’anima, scevro della componente mitica.
Ancora la morte, ancora il sacro, ancora il profano.
Avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare la figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal cattolicesimo e dalla Controriforma, demistificare tutto, ma poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile.(7)
Il regista anche per questo film, come per quelli in precedenza qui trattati, decide di porre la fine e l’accento proprio sulla morte: non un Cristo risorto ma un Cristo sacrificato sulla Croce è protagonista della sequenza finale. In questo passaggio si rafforza, dunque, l’idea di una morte che si fa presenza e dà significato:
E’ dunque assolutamente necessario morire perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità […]. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.(8)
La sacralità della vita è indissolubilmente legata alla sua estinzione e Pasolini gira dall’alfa all’omega senza oltrepassare le barriere terrene: l’immortalità dell’anima viene quindi, direbbe Edmund Husserl, messa in epoché, ossia tra parentesi, e sospesa poiché ciò che conta e che si vuole testimoniare è la catarsi dell’esistenza attraverso la “scomparsa” che, paradossalmente, non è scomparsa bensì rafforzamento di presenza. L’accento si posa sulla diversità ossia sulla non omologazione dei personaggi ad automi. Ed ecco Accattone, Stracci, un Cristo umano, rivoluzionario e spogliato delle vesti divine.
Tu non vuoi canto, ma solo fedeltà!
Tu pretendi il digiuno e io lo temo,
Tu pretendi l’oblio e io non tremo
che di ricordi. Ecco perché la luce
Tua, ch’è in me, a Te non mi conduce.(9)
Note
1-P.P.Pasolini, Empirismo eretico, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, I, “Meridiani” Mondadori, Milano, 1999, pp.1462-1463.
2-P.P.Pasolini, Poeta delle ceneri, in Tutte le poesie, a cura di W.Siti, II, , “Meridiani” Mondadori, Milano, 2003, p.1272.
3-Dante, Divina Commedia, Purgatorio, V canto, vv.104.107.
4- Paolo di Tarso, Prima Lettera ai Corinzi.
5- P.P.Pasolini, La meglio gioventù, in Tutte le poesie, I, cit., p.9.
6- Vangelo di Luca, 23, vers. 43.
7- Citato in S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Collana Il Castoro Cinema, Milano, 1995, p. 49.
8- Ivi, p. 50.
9 – P.P.Pasolini, Madrigali a Dio, in L’Usignolo della Chiesa Cattolica, I, cit., p. 487.