Una interessante e argomentata analisi del Pasolini editorialista per il “Corriere della Sera” e del vivace e puntuto contraddittorio che le sue implacabili prese di posizione contro il nuovo “Potere” della falsa tolleranza neocapitalistica suscitarono negli ambienti intellettuali e politici degli anni Settanta, incluso il fronte comunista. Compreso da pochissimi, contrastato dai più, spesso sarcasticamente dileggiato da alcuni, Pasolini spicca per la lucidità inascoltata di una voce solitaria e straordinariamente premonitrice.
Il saggio è uscito in tre parti sul sito www.quattrocentoquattro.com (26 febbraio;3 maggio; 3 ottobre 2014) per la firma di Valerio Valentini, laureato all’Università di Trento, Dip. Lettere e Filosofia, nell’anno accademico 2012-2013, con la tesi “Pasolini al «Corriere della Sera»”, relatore il professor Claudio Giunta.
di Valerio Valentini
1.La «rivoluzione antropologica in Italia»
Voler comprendere a pieno l’esperienza giornalistica di Pier Paolo Pasolini al «Corriere della Sera» implica necessariamente il tener conto anche di quelle che furono le reazioni agli articoli che lui scrisse in quegli anni. Gli Scritti corsari e le Lettere luterane (1) sono la testimonianza di un dialogo che Pasolini intessé con l’intera società a lui contemporanea: ascoltare un solo protagonista di quel colloquio, costringerlo ad una monologante ripetitività, rischia di svilire lo spessore di un intellettuale che, solo se studiato tenendo conto della pluralità delle voci che con lui dibatterono, può essere adeguatamente compreso.
Non solo. Rileggere gli interventi di Pasolini nel contesto generale del panorama giornalistico di quegli anni, rivela un altro importante elemento. E cioè come il modo di lavorare, da parte di Pasolini, fu enormemente condizionato dagli atteggiamenti assunti dai suoi colleghi in reazione ai suoi articoli, e come il confronto che egli volle instaurare con i suoi interlocutori gli risultò funzionale a collocare in una particolare posizione – estrema e controversa – la propria figura di intellettuale all’interno del dibattito politico contemporaneo.
Il 10 giugno 1974 il «Corriere della Sera» pubblica in prima pagina Gli italiani non sono più quelli. Si tratta dell’intervento che, più d’ogni altro, affronta in maniera programmatica quello che è il vero filo conduttore di tutta la saggistica corsara e luterana: la mutazione antropologica degli italiani.Ed è anche lo scritto che, più d’ogni altro, riesce a calamitare attenzioni e polemiche, aprendo un dibattito che si trascinerà per mesi. Questo grazie ad una scelta consapevole di Pasolini, il quale propone una lettura di due eventi che hanno entusiasmato e scioccato l’opinione pubblica – la vittoria del “no” nel referendum del 12 maggio e la strage di Piazza della Loggia del 28 dello stesso mese – che si distacca radicalmente da quella fornita dal resto degli intellettuali, soprattutto da quelli di sinistra.
Per quanto riguarda il referendum – il cui esito è stato salutato con toni trionfalistici dagli osservatori marxisti – Pasolini critica innanzitutto il Pci, che, pur risultando formalmente vincitore nella campagna contro l’abrogazione della legge sul divorzio, ha dimostrato – coi suoi iniziali tatticismi e con i suoi tentativi di mediazione per non inimicarsi il Vaticano – “di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi vent’anni” (2).
Pasolini, che aveva tra l’altro pronosticato in due precedenti occasioni (3) la vittoria del fronte divorzista, è senza dubbio felice dell’esito del referendum: lui stesso lo definisce “una vittoria, indubitabilmente” (4), e nella Lettera luterana a Italo Calvino, scritta pochi giorni prima di morire, si ricorderà di questo successo e lo inserirà tra i meriti che rendono la borghesia di allora migliore rispetto a quella di dieci anni prima. Tuttavia, in Gli italiani non sono più quelli, Pasolini si chiede polemicamente se questa vittoria, oltre ad essere un affermazione del progressismo laico, non stia anche a dimostrare la perdita, da parte del popolo italiano, di tutti quei valori che lo mantenevano puro nella sua fedeltà ad una cultura millenaria, la quale non concepiva modelli a cui aderire che non fossero quelli ormai radicati nella coscienza comune. A soppiantare un certo bigottismo e una certa arretratezza culturale delle masse italiane – che Pasolini ha ben presenti, ma in questo momento tace – non sarebbe stato, in verità, un reale progresso delle coscienze, o quantomeno non in misura preponderante: a sconsacrare quei valori arcaici sarebbe intervenuto piuttosto un nuovo “Potere” transnazionale, dai connotati non ancora molto chiari, e rispondente alle logiche del capitale. E se questo è lo stato dei fatti, almeno per Pasolini, allora non si tratta per nulla di un trionfo: gli Italiani dimostrano di essersi affrancati da un vecchio potere clericale e antidemocratico per obbedire ad un altro potere ancor più repressivo.
In un contesto simile le varie categorie sociali canoniche a cui gli Italiani sentono di appartenere perdono qualsiasi valore. E questo, a livello politico, provoca pericolose incomprensioni e anomalie profonde, che Pasolini ritiene indispensabile investigare per comprendere la nuova realtà che si sta generando:
L’omologazione «culturale» […] riguarda tutti […]. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista (5).
È così che Pasolini passa ad analizzare l’altro avvenimento preso in considerazione nell’incipit del suo articolo. Per lo scrittore è troppo sbrigativo derubricare quanto è accaduto a Piazza della Loggia soltanto ad atto terroristico ascrivibile ad una precisa minoranza politica di estrema destra. La responsabilità fattuale della strage ricade, è vero, su un manipolo di terroristi, ma la cultura di questi criminali è in realtà, al di là di differenze puramente nominali, il prodotto della stessa mutazione antropologica che ha portato gli Italiani a sbarazzarsi dei valori clericali e a votare “no” al referendum.
Le reazioni ad analisi così deliberatamente provocatorie sono altrettanto veementi.
Il settimanale «L’Espresso» organizza subito una tavola rotonda, alla quale prendono parte Sciascia, Moravia, Fortini, Colletti e Fachinelli, per discutere dell’effettivo significato della vittoria dei “no” al referendum e delle osservazioni espresse al riguardo da Pasolini. Il resoconto della discussione, pubblicato il 23 giugno, è introdotto da un fondo redazionale dai toni mordaci, e dal titolo beffardo: È nato un bimbo: c’è un fascista in più, sotto l’occhiello Gli italiani secondo Pasolini. Nelle poche righe d’apertura viene rimproverata a Pasolini una vaga solidarietà morale con gli attentatori di Piazza della Loggia, e si arriva addirittura a supporre che Almirante e Rauti abbiano trovato, nello scrittore bolognese, “un nuovo Plebe” (6), facendo riferimento al responsabile culturale del Msi di quegli anni.
Alberto Moravia, nel suo intervento intitolato Lascia che ti spieghi la differenza tra noi due e…, si affianca ai molti intellettuali che ritengono sterile l’analisi di Pasolini a livello politico. Essa “ha senz’altro”, secondo Moravia, “un suo valore di verità”, ma soltanto “sul piano esistenziale cioè premorale e preideologico” (7). Moravia isola un passo, in particolare, di Gli italiani non sono più quelli: il passo in cui Pasolini ha inteso mostrare come l’opposizione ideologica tra fascisti e antifascisti sia ormai priva di un reale significato, chiedendosi ironicamente se Giancarlo Esposti (8), “nel caso che in Italia fosse stato restaurato, a suon di bombe, il fascismo, sarebbe stato disposto ad accettare l’Italia della sua falsa e retorica nostalgia”, ovvero a rinunciare a tutte le “conquiste dello «sviluppo»”, le quali vanificano, soltanto attraverso la loro presenza, “ogni misticismo e ogni moralismo del fascismo tradizionale” (9).
Moravia ribatte che, indipendentemente dall’omologazione culturale in atto, Esposti era a tutti gli effetti un fascista. E se pure, non lasciandosi corrompere da un’ipotetica mutazione antropologica, avesse obbedito con più rigore all’ideologia cui si dichiarava fedele, non avrebbe mutato in alcun modo, “neppure un poco”, il corso della storia. Anzi, in quel caso avrebbe contribuito a mantenere lo status quo, dal momento che, come il passato dimostra, “fascismo e conservazione sono sinonimi” (10).
Eppure Pasolini non sta affatto, come in quei giorni molti ipotizzano, e come Moravia sembra adombrare, ricercando nei fascisti degli alleati per attuare una sorta di reazione anticapitalista e anticonsumista. Per Pasolini, piuttosto – ed è lui stesso a chiarirlo, proprio a Moravia, in un’intervista concessa a «Il Mondo» l’11 luglio – è preoccupante pensare che il nuovo Potere ha del tutto stravolto la grammatica ideologica preesistente, così che ormai le scelte politiche, “innestandosi in questo nuovo humus culturale”, hanno un significato totalmente diverso rispetto a quello che avevano fino a qualche anno prima. “Sotto le scelte coscienti, c’è una scelta coatta, «ormai comune a tutti gli italiani»: la quale ultima non può che deformare le prime” (11).
Ma smettila di dire che la storia non c’è più è il titolo del contributo alla tavola rotonda di Franco Fortini. Il quale, a più riprese e in molti suoi saggi, continuerà per tutta la sua carriera a sostenere che, nel ruolo di osservatore e teorico politico, Pasolini abbia espresso il peggio di sé e che infatti “una delle operazioni di bonifica intellettuale e politica in Italia debba cominciare con la demolizione rappresentata da Pasolini politico” (12). Tuttavia, nella circostanza attuale, non si mostra affatto in totale disaccordo con le osservazioni del collega; ritiene anzi del tutto plausibile che la vittoria del fronte progressista al referendum possa in realtà costituire un’ingannevole concessione di quello che Pasolini addita come il “nuovo Potere”. “La tolleranza repressiva e «progressista» è solo una delle armi del capitalismo moderno”, argomenta Fortini, ribadendo che “ad una condizione socioeconomica di sviluppo […] può corrispondere benissimo la peggiore repressione sanfedista” (13). La critica che però egli muove a Pasolini, anche alla luce dei loro pregressi attriti, verte sulla convinzione, espressa in Gli italiani non sono più quelli, secondo la quale nella nuova fase storica che si sta inaugurando sia necessario vedere una catastrofe. “Sulle ceneri gramsciane”, ironizza Fortini, già vent’anni fa si diceva che la nostra storia era finita. Credo invece finita la mia, non la nostra” (14).
Laddove Pasolini constata un collasso, Fortini è convinto invece di vedere nient’altro che un nuovo modo di declinare la dialettica politica, che è in perenne e costante mutazione per adeguarsi ai nuovi rapporti di forza dettati dal capitalismo. Si tratta quindi di due approcci per certi versi analoghi alla medesima realtà: semplicemente, Fortini sembra poter con più tranquillità fare i conti col nuovo, Pasolini no (15). E lo spiega nella lunga intervista a «Il Mondo» dell’11 luglio.
Penso che il breve intervento di Fortini potrebbe essere da me utilizzato a mio favore […]. Solo che l’accanimento di Fortini a voler stare sempre sul punto più avanzato di ciò che si chiama storia – facendo ciò molto pesare sugli altri – mi dà un istintivo senso di noia e prevaricazione. Io smetterò di «dire che la storia non c’è più» quando Fortini la smetterà di parlare col dito alzato (16).
L’unico partecipante alla tavola rotonda organizzata da «L’Espresso» che si dichiara sostanzialmente d’accordo con l’analisi di Pasolini è Leonardo Sciascia.
Entrerei in contraddizione con me stesso se dicessi di non essere d’accordo con l’articolo di Pasolini […]. Forse la mia visione delle cose […] è meno radicale della sua, nel senso che mi pare di non dover perdere di vista il fascismo come fenomeno di classe, di una classe; ma la paura più profonda è tanto vicina alla sua (17).
E riferendosi a organizzazioni terroristiche di segno opposto rispetto a quelle ritenute responsabili della strage di Brescia, Sciascia offre un’ulteriore dimostrazione della validità della tesi di Pasolini.
L’azione delle “Brigate rosse” è stata intesa e spiegata in tanti modi, tranne che in quello più ovvio: e cioè come il modo di preparare o di cominciare a fare una rivoluzione. […]. È possibile parlare ancora di rivoluzione se il gesto rivoluzionario è temuto nell’ambito stesso delle forze che dovrebbero generarlo non solo per la risposta del gesto controrivoluzionario, che potrebbe facilmente e sproporzionatamente arrivare, ma anche perché in sé, intrinsecamente, rivoluzione? Non c’è dunque da pensare, e da riflettere? E mi pare sia, appunto, quel che fa Pasolini. Può anche sbagliare, può anche contraddirsi: ma sa pensare con quella libertà che pochi oggi riescono ad avere e ad affermare (18).
2. il Nuovo Potere e il vero antifascismo
“Tutto ciò che io ho detto ‘scandalosamente’ sul vecchio e nuovo fascismo è […] quanto di più realmente antifascista si potesse dire” (19). Così afferma Pier Paolo Pasolini in uno scritto inedito del novembre 1974, poi inserito negli Scritti corsari. E continua: “Questo ormai è divenuto chiaro a tutti” (20).
A leggere le critiche che molti giornalisti muovono ai suoi articoli in quei mesi, però, non sembra affatto così chiaro. Tutt’altro. Lo dimostrano proprio le repliche a Gli italiani non sono più quelli, in cui il rifiuto di Pasolini a condannare esclusivamente una falange fascista per la strage di Brescia, nel tentativo di analizzare più a fondo i motivi che hanno spinto quei ragazzi ad un atto tanto tremendo, appare a molti intellettuali come una sfacciata correità di Pasolini stesso col mondo dell’estrema destra. O, quantomeno, un’apertura pericolosamente indulgente verso quegli ambienti.
Lo ribadisce, nell’ambito della tavola rotonda de «L’Espresso», E’ nato un bimbo: c’è un fascista in più, anche Elvio Fachinelli. Il quale, immaginando di trasporre su una pellicola cinematografica la vicenda dell’intellettuale Pasolini, lo descrive come un ex militante di sinistra che ora “partecipa con indifferenza alla lotta antifascista, dice che non è questo il pericolo principale” (21), e finisce col convincere i suoi giovani seguaci ad assistere con disinteresse alle bombe che esplodono nella loro città.
Con il numero successivo de «L’Espresso», quello del 30 giugno, riprende il dibattito intorno all’esito del referendum. A intervenire nella discussione è ora Giorgio Bocca, il cui articolo si apre con una critica a Gli italiani non sono più quelli, considerato emblematico della tendenza di certi “mitomani o prezzolati o canaglie” di creare “ambiguità sull’antifascismo che è fascismo e sulla sovversione nera o rosso-nera che sarebbe rivoluzione” (22). Il 7 luglio, sulla prima pagina de «Il Giorno», Bocca ribadisce il suo giudizio in un articolo in cui racconta che Pasolini, dopo esser stato accolto “a fischi e pernacchie” da un’assemblea studentesca nel ‘68, si è convinto che “gli studenti contestatori sono i nuovi squadristi, l’antifascismo è una minestra fredda, fascisti e antifascisti sono irriconoscibili” (23).
Ora, ciò che rende le idee di Pasolini così inconciliabili con l’impegno antifascista di molti intellettuali progressisti non è la scarsa propensione dello scrittore corsaro a condannare il terrorismo o a denunciare i tentativi di svolta autoritaria ripetutamente messi in atto nell’Italia degli anni ’60 e ’70. È piuttosto un diverso modo di intendere la lotta al fascismo, o meglio a quello che Pasolini definisce “il vero fascismo”(24). Su questo punto, egli ha maturato delle proprie convinzioni ormai da moltissimi anni: è il settembre del 1962 quando Pasolini scrive su «Vie Nuove»:
Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società (25).
Questa frase spiega benissimo come Pasolini decida, da quel momento in avanti, di coniugare il proprio antifascismo in una forma estrema e personalissima. Le incomprensioni che lo oppongono ai vari Bocca, Calvino e Ferrara derivano proprio da una diversa concezione di cosa sia, nell’Italia di allora, il fascismo da combattere. Per la maggior parte degli intellettuali di sinistra dell’epoca, esso è ancora un fascismo di tipo tradizionale, che ha l’aspetto minaccioso dei terroristi neri e quello più indecifrabile del Sid. Quello che Pasolini, invece, intende affrontare, è il fascismo incarnato da quel nuovo Potere fintamente democratico e falsamente tollerante, che rappresenta il più totalitario e repressivo dei regimi della storia. Quella che Pasolini denuncia sul «Corriere della Sera» è “una forma «totale» di fascismo”, che “attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre”(26) si prefigge come fine “la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo” (27), e tende quindi “alla identificazione di borghesia con umanità” (28).
Quando però bisogna definire concretamente in cosa questo nuovo “Potere” consista, Pasolini non lo fa se non in modo molto vago, soprattutto fino alla metà del ’74. E questa sua parziale incapacità ispira molte ironiche critiche, che daranno vita a lunghi dibattiti: emblematico, su tutti, quello con Maurizio Ferrara, che dalle pagine de «L’Unità» del 12 giugno, accusa Pasolini di cercare “rimedio alle proprie crisi involutive scaricando le difficoltà sulla esistenza imbattibile di un Potere-mostro, fuori dalle classi, il Moloch” (29).
In qualche modo, è come se Pasolini riuscisse a comprendere la maniera in cui questo nuovo Potere eserciti la propria forza e quali finalità persegua, ma non sappia dire da chi esso sia detenuto. Quello che è certo, in ogni caso, è che per Pasolini quel Potere ha il suo centro direttivo al di fuori del nostro Paese: è per questo che “delle varie componenti che formano oggi in Italia il mosaico fascista hanno senso «unicamente» quelle che vengono manovrate dalla CIA e da altre forme del capitalismo internazionale”(30). Ed è per questo che il nuovo Potere si rende indipendente dagli organi di potere più strettamente nazionali, aggirandoli o addirittura servendosene cinicamente.
In particolare, è proprio la Democrazia Cristiana ad esser stata spodestata, ad aver perso il suo ruolo di guida per le masse. Ed è proprio alla DC che Pasolini decide di rivolgersi direttamente, a partire dal 1975. È il 1° febbraio, quando sulla prima pagina del «Corriere della Sera», appare Il vuoto di potere in Italia: si tratta del primo passo verso la proposta, che lo scrittore formulerà nell’agosto successivo, di istituire un vero e proprio processo penale ai danni dei maggiori esponenti dello scudo crociato. In questo articolo, tra i più noti dell’intera carriera giornalistica di Pasolini, è percepibile lo sforzo dell’autore di riprendere molti temi già affrontati in vari altri interventi sui quotidiani, ritagliandone alcuni passi o riproponendone singole affermazioni, e di ricucirli in maniera magistrale, rendendo il testo un compendio di straordinaria intensità dell’intera silloge che oggi lo contiene.
Qual è l’accusa che Pasolini formula nei confronti dei “gerarchi” democristiani? Quella di aver dapprima creato un “drammatico vuoto di potere”, non accorgendosi di essersi ridotti a “«teste di legno»” al servizio del nuovo regime transnazionale, e poi di aver permesso che tale vuoto fosse colmato dal nuovo “Potere” consumistico, il quale ha dato avvio ad un processo di corruzione delle coscienze, di imposizione di modelli estranei alla cultura degli individui, di omologazione centralistica e totalitaria. È questa l’Italia, dopo “la scomparsa delle lucciole”.
Il giorno seguente, nella rubrica Tribuna aperta, pubblicata sulla prima pagina del «Corriere della Sera», appare la replica all’articolo delle lucciole. Lo scritto s’intitola Non è mai esistito un regime democristiano, e l’autore è Giulio Andreotti. “Non ricordo con esattezza l’episodio – spiega Piero Ottone, l’allora direttore del “Corriere”, che ha voluto rilasciarmi un’intervista – ma mi sento di poter escludere che a sollecitare Andreotti fossimo stati noi. Fu senz’altro una sua iniziativa”.
Andreotti risponde alla denuncia di “lucciolicidio” di Pasolini enunciando gli enormi meriti della DC, che ha di fatto reso più moderno ed efficiente il Paese. “Il presunto regime sarebbe stato quindi artefice di una eccezionale trasformazione” che ha permesso all’Italia, tra l’altro, di presentarsi “al mondo con una consistenza economico-produttiva prima sconosciuta”. Di fronte all’accusa di chi considera quello democristiano un regime, la risposta di Andreotti è “nettissima”, e ovviamente “negativa”; semmai, c’è da rilevare che “senza la DC nell’Italia di oggi maggioranze in Parlamento non si formano”, e non essendoci “alternative democratiche in vista”, un eventuale “cambio di forze al potere”, che pure sarebbe “naturale”, non è affatto pensabile (31).
Il confronto tra Pier Paolo Pasolini e Giulio Andreotti si rinnova, sempre sulle colonne del «Corriere della Sera», il 18 febbraio, quando il quotidiano pubblica, appaiati in prima pagina, gli interventi dei due antagonisti. Gli insostituibili Nixon italiani, a firma dello scrittore bolognese, e Le lucciole e i potenti, dell’allora ministro del bilancio, compaiono nel medesimo riquadro con il titolo Processo alla DC, accusa e difesa (32). Pasolini, nel suo intervento, insinua innanzitutto che Andreotti abbia voluto proditoriamente spostare il dibattito su argomenti diversi rispetto a quelli affrontati in Il vuoto del potere in Italia, riducendo l’intero scritto ad un resoconto sul malgoverno democristiano, e rispondendo così con “una finta difesa d’ufficio”. Ipotizzando comunque che la replica di Andreotti sia dovuta soltanto ad una sua errata comprensione del contenuto dell’articolo delle lucciole, Pasolini sostiene che “il lungo, prevedibile e diligente elenco dei meriti” della DC stilato da Andreotti non consista in altro che in “un elenco delle Opere del Regime”. Ovvero di quelle opere che, in certi momenti storici, i regimi non possono esimersi dal realizzare. A partire dagli anni ’60, infatti, “a spingere la Democrazia cristiana alle opere” sono stati non i bisogni reali della società, ma gli interessi economici della grande industria. E in tutto ciò, la DC “non si è accorta di essere divenuta, quasi di colpo, nient’altro che uno strumento di potere formale sopravvissuto, attraverso cui un nuovo potere reale ha distrutto un paese” (33). Pasolini passa poi all’ “oscura allusione alla sorte di Nixon” fatta da Andreotti nel passaggio in cui dichiarava l’impossibilità di creare governi senza l’ausilio della DC, peculiarità che rende il caso italiano diverso da quello inglese e da quello americano. Qual è, per Pasolini, il significato di tale allusione? Che “qui in Italia, miei cari, non si può fare come si è fatto in America con Nixon, cioè cacciare via chi si è reso responsabile di gravi violazioni al patto democratico: qui in Italia i potenti democristiani sono insostituibili”. Il giudizio che Pasolini arriva a formulare nei confronti degli “uomini che decidono la politica italiana” è ovviamente radicale: essi “non sanno nulla, o fingono di non saper nulla, di ciò che è radicalmente cambiato nel «potere» che essi servono”; in secondo luogo, essi “non sanno nulla, o fingono di non saper nulla, sull’unica «continuità» di tale potere, cioè sulla serie delle stragi”. Dunque, “fin che i potenti democristiani taceranno sul cambiamento traumatico del mondo avvenuto sotto i loro occhi”, e fin che essi “taceranno su ciò che, invece, in tale cambiamento costituisce la continuità cioè la criminalità di Stato, non solo un dialogo con loro è impossibile, ma è inammissibile il loro permanere alla guida del paese” (34).
Giulio Andreotti risponde punto su punto. Distingue innanzitutto il consumismo dall’edonismo: se quest’ultimo è sempre “riprovevole”, sarebbe invece sbagliato “condannare in blocco la dilatazione intervenuta di alcuni effetti sensibili dello sviluppo industriale”. Per ciò che concerne la strategia della tensione, invece, Andreotti ricorda di averne sempre denunciato la gravità, anche “quando molti fautori degli extraparlamentari chiudevano volentieri ambo gli occhi scusando come ragazzate i pestaggi o l’artigianato delle bombe molotov”. Egli, al contrario, quando ne ha avuto la possibilità, ha sempre “agito senza esitazione e forse con qualche risultato” nel tentativo di “far luce su responsabilità ovunque collocate”, ben consapevole che “fino al giorno in cui rimarranno oscuri i mandanti e gli esecutori dei troppi atti di terrorismo che hanno funestato l’Italia, resta all’orizzonte una nube nerissima e assai preoccupante”. “In quanto a Nixon – continua il ministro democristiano – non vedo dove e quando lo abbia citato. Pasolini ha equivocato sul concetto di mutamento non traumatico dei partiti al potere che stabilmente avviene sia negli Stati Uniti che in Inghilterra” (35). [E qui bisogna specificare che in effetti Andreotti, nel suo Non è mai esistito un regime democristiano, non ha mai accennato direttamente al presidente degli Stati Uniti (36)]. Piuttosto, se non si sono verificati avvicendamenti alla guida del nostro Paese, è perché per quasi trent’anni “gli elettori in maggioranza hanno ragionato e deciso diversamente dal modo di opinare pasoliniano”. “Dopo le lucciole – conclude Andreotti, rivolgendosi al suo avversario – si dovrebbero vedere spenti anche i dirigenti dc. Non è un po’ troppo per un auspicio ricostruttivo?” (37).
L’interrogativo sarcastico con cui si conclude l’articolo di Andreotti introduce in una questione a lungo dibattuta, e cioè se quella del Pasolini corsaro e luterano vada considerata come una critica limitata alla sola pars destruens. Gli intellettuali, soprattutto quelli marxisti, che con Pasolini polemizzano nel periodo ’73-’75, appaiono tutti concordi – pur se con motivazioni diverse – sul fatto che egli rinunci a formulare una concreta proposta progressista, e si limiti a una condanna irrevocabile nei confronti del presente. In realtà non è così. E lo si comprende soprattutto leggendo quella che è la prosecuzione, e il momento costruttivo, del discorso intrapreso negli Scritti corsari, e cioè le Lettere luterane.
Innanzitutto, va notato come il Pasolini che emerge negli Scritti corsari è un intellettuale che, in maniera orgogliosa, e spesso contro ogni evidenza, rifiuta programmaticamente qualunque tipo di autorevolezza. Lo si può constatare in Nuove prospettive storiche: la Chiesa è inutile al Potere, in cui Pasolini, replicando ad un articolo de «L’Osservatore Romano», afferma: “Io non ho alle spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla mai voluta” (38), ribadendo convinzioni espresse già su «Vie Nuove» (39) nel 1964 e su «Tempo» (40) nel 1968. Ora, invece, nel pieno 1975, Pasolini rinuncia a questa sua prerogativa. Ciò è evidente nella prima sezione delle Lettere luterane, nella quale Pasolini assume proprio quel tono un po’ cattedratico e un po’ paternalistico che ha sempre ostinatamente detto di voler rifuggire. Lo fa rivolgendosi a Gennariello, l’immaginario adolescente napoletano col quale l’autore instaura un rapporto paideutico: rapporto che sembra inteso come preludio a quella “conoscenza di classe” (41) che Pasolini ritiene indispensabile per un intellettuale che voglia avvicinare il proprio stato antropologico a quello di un giovane proletario. In ogni caso, anche nella seconda sezione delle Lettere luterane Pasolini non rifiuta più alcuna autorevolezza, soprattutto quando si rivolge ai giovani, “imbecilli” e “criminaloidi”, che diventano, in molti casi, i suoi interlocutori privilegiati.
Questo sensibile cambio di atteggiamento è il sintomo di una consapevolezza che non è affatto nuova nello scrittore, ma che negli ultimi mesi della sua vita matura in modo particolare. Si tratta della consapevolezza dell’urgenza di creare, o meglio di riscoprire, un patrimonio di valori da poter proporre alle giovani generazioni. E in questo è evidente il suo desiderio di ricostruire, non soltanto di abbattere. “La distruttività”, scrive Pasolini in Pannella e il dissenso, un articolo uscito sul «Corriere della Sera» del 18 luglio, è “la caratteristica più intransigente della «prima vera grande rivoluzione di destra»” (42), che egli identifica con la rivoluzione del neocapitalismo transnazionale. Questa traumatica disintegrazione dei fondamenti culturali genera un pericolosissimo senso di sbandamento, un “trauma” che, come in altre sedi Pasolini ha specificato, “ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler” (43).
A soffrire in maniera più profonda gli effetti di questa omologazione sono le masse giovanili, costituite in gran parte da potenziali criminali, i quali si fanno vanto della loro violenza e della loro volgarità in quanto per loro “vale la figura o «modello» del «disobbediente»” (44), imposta anch’essa dal consumismo. Figura che però è ormai completamente svuotata di qualunque significato realmente rivoluzionario: anzi, in quanto specimen del perfetto consumatore, il “disobbediente” è oggi il più fedele sostenitore del “Potere”. Se “una decina d’anni fa”, spiega Pasolini a Pannella in quello stesso articolo, “la parola «obbedienza» indicava ancora quell’orrendo sentimento che essa era stata in secoli di controriforma, di clericalismo, di moralismo piccolo-borghese, di fascismo”, e “la parola «disobbedienza» indicava ancora quel meraviglioso sentimento che spingeva a ribellarsi a tutto questo”, oggi, dal punto di vista semantico, “le parole hanno rovesciato il loro senso scambiandoselo” (45). Il vero disobbediente, in realtà, è l’“«obbediente»”, cioè colui il quale “crede nei valori che il nuovo capitalismo vuole distruggere” (46).
Da qui nasce l’invito a Pannella ad aggiornare il proprio linguaggio: “non devi più chiamare la tua «disobbedienza», ma «obbedienza», o meglio, se vuoi, «nuova obbedienza» e di tale «nuova obbedienza» offrirti come modello” (47). Non è, però, un’esortazione che Pasolini intende rivolgere soltanto al leader del PRI. È piuttosto una sorta di chiamata alle armi, un invito ad un nuovo impegno che riguarda anche e soprattutto la classe dirigente del PCI, in cui è riposta l’attesa non solo “pratica ed economica”, ma anche “antropologica”, di tutti i milioni di elettori che ne hanno determinato la vittoria alle urne. E poi, ovviamente, ci sono gli intellettuali. Pasolini vorrebbe ricompattare, insomma, un fronte realmente progressista, che si assuma il compito di offrire un’alternativa esistenziale a milioni di giovani, privati d’ogni fondamento ideologico e morale.
La chiusura dell’articolo indirizzato a Pannella è in realtà un appello denso di speranza. Forse utopico o forse disperato. Sicuramente sincero.
[…] è chiaro che ciò che, oggi, conta individuare e vivere è una «obbedienza a leggi migliori» – simile a quella che, dopo piazzale Loreto, è nata dalla Resistenza – e la conseguente volontà di «ricostruzione». Fondare la possibilità di una simile «obbedienza» e di una simile «volontà di ricostruzione» è il vero nuovo grande ruolo storico del Pci. Ma anche tuo; anche dei radicali; anche di ogni singolo intellettuale, di ogni uomo solo e mite (48).
Queste righe richiamano alla mente altre parole, che dalle colonne di «Paese Sera», l’8 luglio 1974, Pasolini indirizzava a Italo Calvino. Quest’ultimo, in un’intervista rilasciata a «Il Messaggero» il 18 giugno, aveva criticato l’analisi del collega in merito alla rivoluzione antropologica italiana, e si era augurato di non aver mai nulla a che fare coi giovani fascisti di oggi: “non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli” (49). A questa affermazione, ripetendo quasi alla lettera una tesi esposta in un articolo pubblicato pochi giorni prima sul «Corriere della Sera» (50), Pasolini aveva replicato così:
[…] augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno – quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità – ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È un’atroce forma di disperazione e di nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso (51).
Se in molti casi l’incoerenza è un difetto innegabile di Pier Paolo Pasolini, per quanto concerne il suo impegno antifascista gli va riconosciuta una ferrea e intransigente fermezza: leggendo i suoi scritti giornalistici dal 1960 – anno in cui, su «Vie Nuove» (52), auspicava una riforma scolastica e una riscrittura dei manuali di storia improntate su concezioni antifasciste – fino alla fine della sua vita, si percepisce come il compito che egli si prefigge, in quanto intellettuale marxista, sia quello di dissodare le coscienze “bruttate” degli individui, in particolar modo dei giovani. Se il nuovo Potere è il vero fascismo, Pasolini tenta allora di combatterlo sottraendo ai suoi tentacoli possibili discepoli, recuperandoli ad una vita diversa rispetto a quella imposta dal regime. L’obiettivo ultimo di Pier Paolo Pasolini diventa non più soltanto quello di evitare che i ragazzi cadano nel baratro dell’omologazione, ma di fornire loro un modello culturale, sociologico ed esistenziale diverso. Qualcosa, di profondamente antifascista, in cui si possa credere, e a cui si possa obbedire.
3. “Quello che rimpiango”
Il 23 dicembre 1973, meno di un mese dopo il varo delle politiche di austerità da parte del governo Rumor, «L’Unità» organizza una tavola rotonda alla quale partecipano Giorgio Napolitano, Luciano Lama, Paolo Rossi e Giorgio Ruffolo, per discutere di “sviluppo economico” e “modelli di vita”. Da parte di Ruffolo giungono critiche aspre contro “possibili interpretazioni regressive che si tende ad avallare quando si parla di un nuovo modo di sviluppo”: interpretazioni “mistico-reazionarie, che ad ogni crisi dell’umanità ripropongono lo spauracchio di un’apocalisse”. Sulle stesse posizioni si colloca Rossi, che dapprima condanna tutti quegli “ingredienti della rivolta neoromantica contro la scienza” che stanno “riemergendo nella cultura italiana anche in quest’occasione di crisi”, e poi ribadisce la propria contrarietà a tutta “una serie di prediche sul ritorno alla natura incontaminata, sull’opportunità di un ridimensionamento radicale della tecnologia (53).
Nessuno lo nomina, ma è chiaro che uno dei principali destinatari di quelle critiche è Pier Paolo Pasolini. Il quale, sentendosi evidentemente chiamato in causa, invia a «Paese Sera» cinque poesie (54), il cui tema è il rimpianto per la povera, ma dignitosa, condizione dell’Italia rurale, ormai distrutta dagli abomini dello sviluppo. Il 5 gennaio del 1974 il quotidiano pubblica, dopo alcuni indugi e qualche iniziale riluttanza, i cinque componimenti, accompagnati da una lunga nota redazionale anonima – in realtà scritta da Gianni Rodari – che sottolinea la validità artistica di quei testi in quanto, appunto, poesie, ma la sostanziale insostenibilità delle tesi politiche che vi sono contenute (55). La stroncatura più radicale a quei testi arriva il 13 gennaio da Valerio Riva, che sulle colonne de «L’Espresso» prima li definisce “fregnacce di un poeta”, e poi liquida l’intera ideologia pasoliniana come una serie di “farneticazioni di un’Arcadia che non è mai esistita sul serio” (56).
Sulla stessa rivista, pochi mesi dopo, è Lucio Coletti, nel corso della tavola rotonda organizzata da «L’Espresso» il 23 giugno, È nato un bimbo: c’è un fascista in più (57), a muovere accuse analoghe a Pasolini, affermando che quest’ultimo “ha solo nostalgia dell’Italia rustica e paesana”, cioè di “un mito letterario che non serve a niente”. È un rimpianto di una “belle époque” che non è “mai esistita” (58).
Che è poi quello che a Pasolini rinfaccia Italo Calvino, in un’intervista concessa a «Il Messaggero» il 18 giugno 1974, nell’ambito del dibattito sulla vittoria del “no” al referendum e sulla presunta mutazione antropologica degli Italiani.
Non condivido il rimpianto di Pasolini per la sua Italietta contadina […]. Questa critica del presente che si volta indietro non porta a niente […]. Quei valori dell’Italietta contadina e paleocapitalistica comportavano aspetti detestabili per noi che la vivevamo in condizioni in qualche modo privilegiate; figuriamoci cos’erano per milioni di persone che erano contadini davvero e ne portavano tutto il peso. È strano dire queste cose in polemica con Pasolini, che le sa benissimo, ma lui […] ha finito per idealizzare un’immagine della nostra società che, se possiamo rallegrarci di qualche cosa, è di aver contribuito poco o tanto a farla scomparire (59).
E la mitizzazione pasoliniana delle masse proletarie dell’Italia rurale è il bersaglio delle critiche anche di Maurizio Ferrara, su «L’Unità» del 12 giugno 1974:
Forse Pasolini, queste masse le amava di più come erano trent’anni fa, quando in una loro intatta purezza (tutta da dimostrare) contavano indubbiamente meno della metà di quanto contano oggi, per inquinate dai «caroselli» che siano? (60).
Quanto Pasolini scrive sulla mutazione antropologica degli Italiani costituisce, a giudizio di Ferrara, “un anelito che richiama le voglie della migliore intellettualità reazionaria fissata in un rimpianto oscuro per l’età dell’oro perduta”, e nelle sue analisi si riscontra “una carica evidente di estetismo insoddisfatto, di un manicheismo intellettualistico”, che non tiene conto del fatto che “qualsiasi età dell’oro – se mai ne è esistita una – è improponibile. E che, quindi, l’epoca migliore per fare politica non era quella, sognata, dei conti che tornavano sempre ma, piuttosto, quella in cui è dato vivere e nella quale, sfumati gli schemi delle mitologie […] la cosa fondamentale è vivere e lottare con gli occhi aperti”. Cosa, però, che Pasolini non può fare, dal momento che “non si vive ad occhi aperti guardandosi indietro”: ciò costituisce “un gesto allarmante, di totale deprezzamento della dimensione politica, a vantaggio di una sorta di stato di necessità della disperazione esistenziale”. Vaneggiamenti, insomma, quelli di Pasolini, dovuti al “tormento per l’usura della ragione” tipico di chi “assiste, e anche partecipa, allo scontro politico e sociale pretendendone effetti non politici ma estetici” e addirittura “guarda alla lotta politica e di classe con occhio mitologico” (61).
Sia le critiche di Ferrara, sia quelle di Calvino, sono più che comprensibili: nel momento in cui la maggioranza del popolo italiano ha dimostrato di credere in ideali laici e non più bigotti, guardare al passato con un senso di vaga nostalgia è un atteggiamento che appare non degno di un intellettuale che si prefigga di contribuire al progresso sociale. Non è un caso che entrambi ricorrano all’immagine di un uomo con la testa rivolta indietro per descrivere il modo in cui lo scrittore corsaro analizza quanto accade intorno a lui (62).
La replica di Pier Paolo Pasolini a queste critiche arriva l’8 luglio, nella lettera aperta indirizzata proprio a Italo Calvino. “L’«Italietta» – ribatte innanzitutto Pasolini – è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo?”. Quello che Pasolini dice di rimpiangere è piuttosto “l’universo contadino”, “pre-nazionale e pre-industriale”, che è “un universo transnazionale” il quale “addirittura non riconosce le nazioni” in quanto “avanzo di una civiltà precedente”. Quanto poi ad un’altra accusa che gli è stata rivolta, secondo la quale la sua nostalgia per l’Italia perduta gli annebbierebbe la lucidità nell’analizzare l’Italia presente, Pasolini chiarisce che quel suo rimpianto non gli impedisce affatto di esercitare la sua critica “sul mondo attuale così com’è”. È, al contrario, proprio perché egli sceglie di vivere “solo stoicamente” nella società attuale, che riesce a riscontrare quella che è la caratteristica discriminante della nuova epoca rispetto a qualunque altra epoca passata: e cioè una “ansiosa volontà di uniformarsi” che non opera più soltanto, come è sempre stato, all’interno dei confini delle classi sociali e nel rispetto dei particolarismi culturali, ma che agisce “secondo un codice interclassista” (63). L’Italia che Pasolini rimpiange è dunque quella in cui nessuno si sentiva costretto ad abiurare la propria cultura per ottenere di vedersi accettato nell’unica classe sociale che il Potere dei consumi è disposto ad ammettere: la borghesia. L’Italia, cioè, “della gente povera e vera che si batteva per abbattere” il padrone “senza diventare quel padrone”(64).
Se, tuttavia, questo suo rimpianto diventa oggetto di pesanti accuse – di revisionismo, di apologia del fascismo, di reazionarismo – lo si deve anche al modo in cui Pasolini descrive l’Italia di cui dichiara di aver nostalgia. Egli non rinuncia, infatti, a proporne immagini vaghe e poetiche, volutamente mitizzate; oppure si rifà ad esperienze e ricordi del tutto personali per arrivare a dimostrare la superiorità di quel mondo ormai perduto. Il tutto, tra l’altro, unito ad una innegabile voluttà nel portare le proprie argomentazioni fino ad esiti estremi per poter provocare lo scandalo di interlocutori e rivali. Come accade il 9 dicembre 1973, sulle colonne del «Corriere della Sera»:
Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata […]. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana (65).
È evidente come Pasolini, nel condannare la dilagante omologazione non dei costumi esteriori, ma delle coscienze fin nella loro più profonda intimità, arriva a sminuire le atrocità vissute, nel corso del ventennio fascista, dalle masse del popolo italiano, che vengono di nuovo viste sotto una luce eccessivamente idilliaca.
Tutto ciò offre a Edoardo Sanguineti la possibilità di ironizzare, su «Paese Sera» del 27 dicembre, in maniera feroce sulle convinzioni di Pasolini.
Com’era verde, però, la nostra valle! E com’erano carini i sottoproletari di una volta! Io me li ricordo benissimo, pittoreschi e straccioni, che con la selezione naturale venivano su come tante querce. […] Ah, i nostri ragazzi di Vita, che bella Vita violenta che si facevano (66).
Il sarcasmo di Sanguineti investe anche l’ipotesi pasoliniana secondo cui i giovani proletari, fino a qualche anno prima, “erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso del mistero della realtà”, mentre ora, vergognandosi della propria ignoranza, “hanno cominciato a disprezzare anche la cultura” (67).
Brutti tempi, quando i sottoproletari si infilano la cattiva strada che li può portare, un giorno o l’altro, non so, a leggere Vico, a leggere Gramsci. Perduta la splendida «rozzezza» di un tempo, si sono messi anche a fare gli «studenti», i maleducati […]. Insomma, per me, a dirla schietta, mi andava benissimo il Fascismo. Era centralista anche quello, va bene, ma almeno non funzionava, e gli «antichi modelli» prosperavano come non mai […] (68).
In maniera piuttosto aspra Sanguineti declassa il discorso di Pasolini a semplice “nostalgia del fascismo” e a rimpianto dell’“analfabeta felice”. Egli si insinua nelle crepe che l’estremismo retorico di Pasolini lascia aperte nel suo articolo del «Corriere» rendendolo, in alcuni punti e a prima vista, troppo radicale e sentenzioso per essere condiviso. E allargando quelle crepe, Sanguineti mostra l’apparente fragilità dell’intera ideologia dell’avversario.
Ma da dove nasce questo senso di nostalgia di Pasolini nei confronti dell’Italia arcaica? E soprattutto: perché Pasolini arriva a rimpiangerla, secondo quanto sostengono i suoi avversari, fino al punto di ridimensionarne ingiustizie e storture, esponendosi così a facili critiche? Premesso che l’amore di cui Pasolini ama le masse proletarie è in gran parte sinceramente istintivo, dunque non razionalmente spiegabile, credo che a determinare questo sentimento di straordinaria vicinanza contribuiscano anche motivi più concreti.
Innanzitutto, Pier Paolo Pasolini, nella disperata tensione a ritagliarsi uno spazio importante nel panorama intellettuale degli anni ‘50, si scopre un analista acuto di quelle masse, in parte per la sua non comune capacità di osservazione, in parte per la sua morbosa curiosità antropologica che lo spinge a frequentare ambienti solitamente rifuggiti da scrittori e registi. Nel corso di pochi anni – quelli che vanno dalla pubblicazione di Ragazzi di vita (1955) alla produzione di Accattone (1961) – Pasolini diventa una sorta di autorità in materia di “analisi del sottoproletariato”. Un’autorità discussa e spesso criticata, ma indubbiamente un’autorità. Non è da escludere, dunque, che il narcisismo che affligge Pasolini lo porti a riversare su quelle classi sociali un amore che è anche il riverbero di un autocompiacimento: si affeziona a certe tipologie umane in virtù del fatto che esse costituiscono il soggetto delle sue opere artistiche, grazie alle quali è divenuto famoso, sia in Italia sia all’estero.
In secondo luogo, come un’intera “micro-sezione” della prima parte delle Lettere luterane (69) sta a testimoniare, Pasolini è riconoscente al sottoproletariato rurale per avergli rivelato l’esistenza di “altri mondi”, oltre a quello che lui, nei primi anni della sua vita, riteneva fosse l’unico mondo esistente, “così cosmicamente assoluto”: il mondo piccolo-borghese (70). Ed è proprio questa consapevolezza che Pasolini è convinto d’aver maturato con maggiore precocità e radicalità rispetto ad altri intellettuali, che gli ha permesso di distaccarsi dalla schiera di quelli che lui definisce “i teppisti del conformismo”, ovvero quegli scrittori che “oppongono al vero scandalo della ricerca libera e critica, il falso scandalo di una cultura stabilita”, ponendo, più o meno volontariamente, “l’universo conformista cui essi appartengono per nascita” come l’unico universo esistente (71). Non ritengo perciò condivisibile l’affermazione espressa su «L’Unità» del 6 marzo 1995 da Sanguineti, secondo cui “Pasolini è scrittore antiborghese perché in lui c’è una volontà di martirio che lo porta a voler espiare una colpa assoluta e a trasformare in rito negativo la propria colpevolezza di borghese” (72). Pasolini, infatti, quel senso di colpa non lo avverte affatto: la sua appartenenza alla borghesia è vissuta in maniera tutto sommato pacifica, poiché il suo orgoglio di intellettuale che sa “rompere le barriere” di classe e sospingersi nel mondo sottoproletario inibisce in lui qualunque istinto al martirio. E difatti Pasolini benedice più volte il suo “amore tradizionale e non ortodosso per il popolo” che gli ha permesso di vivere “fuori dall’inferno cui per nascita, censo e cultura” era “destinato” (73).
Quest’amore di Pasolini per l’Italia “prima della scomparsa delle lucciole” non deve però ingannare: quella era la stessa Italia che presentava, anche agli occhi dello scrittore bolognese, delle storture assolutamente tragiche. Tant’è che quando Calvino gli rimprovera di rimpiangere l’Italietta, Pasolini afferma: “per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni” (74), esprimendo un disagio nei confronti di quella società che è tangibile, e che emerge chiaramente, tra l’altro, dai dialoghi che Pasolini intrattiene nel 1960 con i lettori di «Vie Nuove».
Se dunque, a distanza di qualche anno, quell’Italia risplende nelle memorie dell’articolista del «Corriere della Sera» come una società così idillica, il motivo che fa assumere all’“universo «popolare»” descritto da Pasolini “caratteri più arcaici del vero” (75), non può essere un banale rimpianto figlio della nostalgia. Le ragioni sono più complesse.
Di fronte all’avvento del neocapitalismo e di tutte le mutazioni, antropologiche e socio-economiche, che esso comporta, Pasolini si sente inorridito. Forse perché riesce ad arguire con particolare perspicacia le conseguenze peggiori a cui l’affermarsi di quel nuovo Potere condurrà, egli è irremovibile nel condannarne ogni aspetto. Nel far questo non accetta alcun invito alla moderazione, neppure laddove dei distinguo apparirebbero doverosi. Pasolini è consapevole di questo suo estremismo – se confessa a Calvino: “naturalmente queste mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze” (76) – ma non se ne cura. Il suo rifiuto così totale per la “nuova epoca” deve esprimersi in maniera altrettanto drastica e definitiva. È per questo che Pasolini traccia un’immaginaria linea di demarcazione, ben netta: da un lato sta l’Italia arcaica e rurale, dall’altro l’Italia assoggettata alle logiche del neocapitalismo. E tanto più quella attuale deve apparire mostruosa agli occhi dei lettori, per poter essere compresa in tutto il suo orrore, tanto più quella precedente deve assurgere a modello. La mitizzazione dell’Italia arcaica e contadina è dunque funzionale a rendere più efficace la critica alla società contemporanea. Di fronte a quest’esigenza, Pasolini si sforza di ignorare tutte le deformità del passato: di volta in volta le sottovaluta, le declassa a semplici segni del tempo, le dilava fino a farle scolorire. E spesso arriva anche a nobilitarle e a contrapporle agli obbrobri, quelli sempre estremizzati, del presente; noncurante, anzi forse desideroso, delle eventuali critiche che quelle sue affermazioni così radicali si attirano.
Come quando, recensendo il libro di Sandro Penna, Un po’ di febbre, esordisce con un’affermazione volutamente provocatoria: “Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata”. E da lì ha inizio un panegirico, dai tratti bozzettistici e surreali al contempo, sull’aspetto “profondo e bello” delle città e degli uomini di una volta, che non rifiuta neppure di lodare l’emarginazione e la subalternità cui erano relegate le donne e la “qualità meravigliosa” dei ladri di allora, i quali “non erano mai volgari”. Naturalmente, quando si arriva al confronto con la situazione attuale, tutto diventa “laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa” (779.
L’ambiguità è evidente, ma va contestualizzata all’interno di quella che credo si possa definire la “poetica dell’urgenza” che è del Pasolini corsaro e luterano, e che si manifesta in una prosa dogmatica e sentenziosa, unita ad una foga retorica travolgente. Urgenza che non consiste, tuttavia, nel voler bloccare la storia, portare indietro le lancette del tempo e ripartire da un punto stabilito, come talvolta, leggendo gli Scritti corsari e le Lettere luterane, si è indotti a pensare. Nel Pasolini che scrive sulle colonne del «Corriere della Sera» c’è un’urgenza più autentica che non quella di condannare e distruggere, e cioè quella di spiegare agli Italiani la trasformazione cui essi stanno andando incontro, affinché la vivano, visto che ormai la vivono sulla propria pelle, “consapevolmente” e non, come invece accade, “esistenzialmente”.
Tutto ciò appare più che mai evidente negli articoli in cui Pasolini denuncia la necessità di portare alla sbarra del tribunale i “gerarchi Dc”. Quella che lui ricerca, attraverso l’istituzione di un processo penale ai loro danni, non è soltanto una legittima richiesta di giustizia per gli abominevoli errori commessi dal regime democristiano negli ultimi vent’anni; Pasolini vuole piuttosto rendere consapevoli i cittadini italiani che ormai il vero potere non è più detenuto dal “nulla ideologico mafioso” (78) che è la DC, ed è per questo che i suoi dirigenti possono sfilare ammanettati in un’aula di tribunale.
Cosa verrebbe rivelato alla coscienza dei cittadini da tale Processo […]? Verrebbe rivelato […] qualcosa di essenziale per la loro esistenza, cioè questo: i potenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente esaurita la forma del potere che essi avevano servilmente servito nei vent’anni precedenti […] e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa più) che farsene di loro. Questa «millenaristica» verità è dunque essenziale per capire […] che è finita l’epoca, appunto millenaria, di un «certo» potere ed è cominciata l’epoca di un certo «altro» potere (79).
L’urgenza ultima di Pasolini è, in definitiva, quella di convincere le parti migliori e per certi versi ancora sane dell’Italia – molti suoi colleghi intellettuali, una parte dei “giovani iscritti, ma proprio iscritti, al Pci”, il PCI medesimo, non a caso definito “un paese pulito in un paese sporco”, una parte del mondo cattolico, con cui il rapporto è però molto più problematico – ad opporsi alla deriva capitalistica e a proporre un nuovo modello sociale, che abbia come obiettivo il “progresso” e non lo “sviluppo”, come punti di riferimento valori “umanistici” e non “consumistici”, come dottrine politiche fondanti quelle “marxiste” e non quelle “neocapitaliste”. Chi accusa Pasolini di desiderare una restaurazione, chi riscontra nel suo pensiero una “nostalgia di un passato anche tinto di nero” (80), dimentica che mai si potrebbe considerare Pasolini come un reazionario, proprio perché è lui stesso il primo a sapere che non c’è nulla da restaurare: c’è semmai da andare a ricercare, tra le macerie di un passato ormai distrutto dalla storia, quei valori che possono offrirsi come una valida base d’appoggio per costruire una nuova società. Pasolini sapeva, come ha evidenziato Fortini, che la realtà da lui tante volte rimpianta “non era mai esistita”, e che essa piuttosto “era ‘davanti’, da conquistare, non da recuperare” (81).
[idea]Note[/idea]
1.Le antologie che raccolgono la quasi totalità degli articoli che Pasolini scrisse, sul «Corriere» e su altri quotidiani, tra il gennaio del 1973 e l’ottobre del 1975.
2. Pasolini, Pier Paolo, Scritti corsari, Milano, Garzanti 2008, pp. 39-40.
3. Si tratta di un articolo pubblicato su «Il Mondo» il 28 marzo, e di un intervento – rimasto inedito fino al suo inserimento negli Scritti corsari – richiesto a Pasolini del settimanale comunista «Nuova Generazione», che però si rifiuterà di pubblicarlo.
4. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 41.
5. Ibidem.
6. È nato un bimbo: c’è un fascista in più, «L’Espresso», 23 giugno 1974
7. Ibidem.
8. Giovane militante di Ordine Nero rimasto ucciso durante uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine sull’altopiano di Rascino il 30 maggio 1975.
9. Pasolini, Scritti corsari, p. 42.
10. È nato un bimbo: c’è un fascista in più.
11. Pasolini, Scritti corsari, pp. 57-58.
12. Fortini, Franco, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi 1993, p. 205.
13. È nato un bimbo: c’è un fascista in più.
14. Ibidem.
15. Sul concetto di “fine della storia” e sulle polemiche al riguardo trascinatesi per quasi due decenni tra Pasolini e Fortini, cfr. Fortini, Attraverso Pasolini (in particolare Introduzione, pp. XII-XIII), e Scotti, Una polemica in versi: Fortini, Pasolini e la crisi del ’56, «Studi Storici», LXV (2004), n.4, passim.
16. Pasolini, Scritti corsari, p. 58.
17. È nato un bimbo: c’è un fascista in più.
18. Ibidem.
19. Pasolini, Scritti corsari, p. 241.
20. Ibidem.
21.È nato un bimbo: c’è un fascista in più.
22. Bocca, Giorgio, A proposito di P.P. Pasolini.
23. Bocca, Giorgio, L’acqua calda di Pasolini. È questo l’articolo che Pasolini definisce un atto di linciaggio nei suoi confronti in Pasolini, Scritti corsari, pp. 74-75.
24. Pasolini, Scritti corsari, p. 45.
25. Id., Fascisti: padri e figli, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W.Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, p. 1014.
26. Ivi, p. 46.
27. Ivi, p. 50.
28. Ivi, p. 18.
29. Ferrara, I pasticci dell’esteta.
30. Ivi, p. 64.
31. Andreotti, Giulio, Non è mai esistito un regime democristiano.
32. Si noti che sino a questa data Pasolini non ha ancora mai parlato, esplicitamente, di un “processo” ai danni dei politici democristiani. Rispetto alla scelta del “Corriere” di ricorrere ad un’impaginazione così efficace, mettendo fisicamente a confronto i due articoli, la testimonianza di Piero Ottone non è purtroppo d’aiuto. “Sono passati tanti anni – scherza l’ex direttore del quotidiano milanese – mi si conceda almeno quest’alibi”. Quello che però appare evidente è che Andreotti, prima di scrivere la sua ulteriore risposta alla controreplica di Pasolini, deve aver letto in anteprima l’articolo di quest’ultimo, dal momento che il suo Le lucciole e i potenti contiene una confutazione metodica delle tesi sostenute in Gli insostituibili Nixon italiani. Che la redazione del «Corriere della Sera», ricevuto lo scritto di Pasolini, lo abbia fatto pervenire ad Andreotti per dargli la possibilità di replicare sullo stesso numero del quotidiano? “Non lo escludo – afferma Ottone – ma non posso neppure confermarlo”.
33. Pasolini, Scritti corsari, pp. 135-138.
34. Ivi, pp. 138-140.
35. Andreotti, Le lucciole e i potenti.
36. Il passaggio incriminato è il seguente: “Se vi fossero alternative democratiche in vista, sarebbe naturale un cambio di forze al potere. Quando avviene in Inghilterra o negli Stati Uniti, non è mai traumatico per il partito battuto, che comincia la strada della riconquista attraverso l’opposizione efficace e una revisione interna adeguata. Ma senza la DC nell’Italia di oggi maggioranze in parlamento non si formano”.
37. Andreotti, Le lucciole e i potenti.
38. Pasolini, Scritti corsari, p. 82.
39. Id., Dopo un anno, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 1024-1025: “Non voglio avere autorità, sappiatelo. Se ce l’avrò, l’avrò di volta in volta, per l’eventuale forza dei miei argomenti di quel dato momento, di quella data circostanza: e soprattutto per la sincerità. […]”.
40. Id., Il perché di questa rubrica, ivi, p. 1095: “Ebbene, ecco: io mi rifiuto, intanto, di comportarmi da persona pubblica. Se una qualche autorità ho ottenuto […] sono qui per rimetterla del tutto in discussione […]. […] l’autorità, infatti, è sempre terrore […]”.
41. Id., Scritti corsari, p. 209.
42. Id., Pannella e il dissenso, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p. 607.
43. Id., Scritti corsari, p. 131.
44. Id., Lettere luterane, p. 81.
45. Ivi, pp. 80-81.
46. Ibidem.
47. Ivi, p. 82.
48. Ivi, p. 83-84.
49. Guarini, Ruggero, Quelli che dicono «no», «Il Messaggero», 18 giugno 1974.
50. Pasolini, Scritti corsari, p. 49.
51. Ivi, p. 55.
52. Id., risposta n. 40, 8 ottobre 1960, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 907-908.
53. Sviluppo economico e modelli di vita, «L’Unità», 23 dicembre 1973.
54. Si tratta di: Significato del rimpianto, Poesia popolare, Appunto per una poesia in lappone, La recessione, Appunto per una poesia in terrone. Ora in Pier Paolo Pasolini, La nuova gioventù, Torino, Einaudi 2002.
55. Viene da chiedersi se non abbia in realtà ragione Alfonso Berardinelli, quando afferma, a proposito della poesia di Pasolini, che è del tutto impossibile valutarla “da un punto di vista puramente formale”, giacché di un autore che dichiara “di volersi liberare dello stile a vantaggio del messaggio e del contenuto” risulterebbe quantomeno inopportuno giudicare i versi a prescindere dalle convinzioni ideologiche che essi esprimono. Cfr. Berardinelli, Alfonso, Tra il libro e la vita, Torino, Bollati Boringhieri 1990, p. 58.
56. Riva, Valerio, Com’era verde la mia borgata, «L’Espresso», 13 gennaio 1974.
57. Cfr. primo capitolo.
58. È nato un bimbo: c’è un fascista in più, «L’Espresso», 23 giugno 1974.
59. Guarini, Ruggero, Quelli che dicono «no», «Il Messaggero», 18 giugno 1974.
60. Ferrara, Maurizio, I pasticci dell’esteta, «L’Unità», 12 giugno 1974.
61. Ibidem.
62. Pasolini, a sua volta, rivolgerà la stessa accusa ai suoi colleghi, “la bella truppa di intellettuali” tutti simili a “quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta”. Sono parole riferite da Pasolini il 1° novembre 1975 a Furio Colombo, in un’intervista ora in Pasolini, Pier Paolo, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1727.
63. Pasolini, Pier Paolo, Scritti Corsari, Milano, Garzanti 2008, pp. 51-55.
64. Dalla stessa intervista a Colombo, in id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1727.
65. Pasolini, Scritti corsari, p. 22.
66. Sanguineti, Edoardo, La bisaccia del mendicante, «Paese Sera», 27 dicembre 1973.
67. Pasolini, Scritti corsari, p. 24.
68. Sanguineti, La bisaccia del mendicante, cit.
69. Consistente negli articoli pubblicati su «Il Mondo» tra il 10 aprile e il 1° maggio 1975.
70. Pasolini, Pier Paolo, Lettere luterane, Torino, Einaudi 2003, pp. 35-36.
71. Pasolini, Pier Paolo, Descrizioni di descrizioni, Milano, Garzanti 2006, pp. 263-264.
72. Golino, Enzo, Tra lucciole e Palazzo, Palermo, Sellerio 1995.
73. Pasolini, Liberty in borghese, in Id. Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1242.
74. Id., Scritti corsari, cit, p. 51.
75. Fortini, Franco, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi 1993.
76. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 54.
77. Ivi, p. 143.
78. Id., Lettere luterane, cit, p. 78.
79. Ivi, pp. 115-116.
80. Casalegno, Carlo, Chi è peggiore?, «Panorama», 7 novembre 1974.
81. Fortini, Attraverso Pasolini, p. 145.
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