Recenti prove hanno portato ad attribuire la chiara paternità del docufilm 12 dicembre (1972) alla mano di Pier Paolo Pasolini, che lo realizzò con Giovanni Bonfanti e un collettivo di “Lotta Continua”. Ogni dubbio è stato infatti fugato definitivamente con il ritrovamento di una registrazione audio dove, tra l’altro, lo scrittore-regista afferma: «Ci ho lavorato, l’ho montato io, ho scelto io le interviste ma non ho messo la regia, perché gli avvocati che l’hanno visto mi hanno detto che era pericolosissimo, che mi avrebbero messo in prigione. E allora abbiamo trovato una formula per cui il mio nome ci fosse, perché chi voleva capire capisse, ma formalmente non potessero procedere contro di me».
Il titolo del filmato, allusivo a una data chiave della storia nazionale, si riferisce alla strage del 12 dicembre del 1969 quando l’esplosione di una bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, in Piazza Fontana, causò la morte di diciassette persone, e alla “morte accidentale” dell’anarchico Giuseppe Pinelli, avvenuta tre giorni più tardi in seguito ad una caduta dall’ufficio della questura dove lo stavano interrogando perché sospettato ingiustamente di essere uno dei responsabili della strage.
Un collettivo di “Lotta Continua” volle realizzare un film di denuncia e trovò un inatteso interlocutore in Pasolini, che procurò i finanziamenti per produrlo (attraverso la PEA) e addirittura lo ideò e girò con loro, in particolare con il militante Giovanni Bonfanti. In quel periodo, Pasolini, fortemente avversato dai gruppi extraparlamentari per le sue prese di posizione contro il movimento studentesco, apprezzava molti aspetti della militanza di “Lotta Continua” e così, anche sulla base di un progetto iniziale di Goffredo Fofi, pensò ad un film che costituisse una sorta di viaggio politico e antropologico nell’Italia dei primi anni ’70, incentrato su alcuni episodi emblematici delle trasformazioni che stavano avvenendo nel corpo del paese. “Lotta Continua” voleva un film più didascalicamente militante ma il progetto si orientò soprattutto nella direzione voluta da Pasolini (che girò personalmente alcune sequenze, a Milano, Musocco, Carrara, Bagnoli, Napoli e Viareggio: sono le uniche sequenze dove filmò l’Italia degli anni ’70), anche se egli dovette accettare alcuni compromessi e la soppressione di varie sequenze.
Girato fra il dicembre del 1970 e l’estate del 1971, presentato al festival di Berlino (lo stesso anno in cui I racconti di Canterbury vinse l’Orso d’oro) e distribuito esclusivamente nel circuito culturale dei “Circoli Ottobre” (parallelo a “Lotta Continua”), il film presenta molte sequenze notevoli: fra queste, l’intervista alla vedova e alla madre di Pinelli, che rievocano con dignità la loro tragedia; una scena silenziosa e nebbiosa al cimitero di Musocco, dove all’epoca era sepolto l’anarchico; una serie di riprese impressionanti della rivolta di Reggio Calabria del 1970; una sequenza tra le baracche di Napoli, dove gli abitanti vivevano in condizioni di estrema povertà; infine una ripresa nella casa di una famiglia di immigrati siciliani a Torino.
Sul film, riportato alla versione integrale grazie al laboratorio “L’Immagine Ritrovata” di Bologna su iniziativa dell’editore Laika Verlag di Amburgo e della Fondazione Cineteca di Bologna, riportiamo qui un’acuta riflessione politica di Fabrizia Capanna, attenta anche al contesto rovente degli anni di piombo e delle lotte operaie, a cui Pasolini oppose una straordinaria lucidità di visione.
12 DICEMBRE ’69 – Il Reichstag brucia di nuovo?
di Fabrizia Capanna
www.uninfonews.it – 2 marzo 2016
Chi abbia portato quella valigetta alla Banca Nazionale dell’Agricoltura quel pomeriggio del 12 Dicembre, non ci è dato saperlo. Dico che non ci è dato, perché forse – invece – qualcuno lo sa.
O almeno questa è la tesi che si delinea tra i fotogrammi del docufilm 12 Dicembre di Pier Paolo Pasolini e Giovanni Bonfanti, fotografia che racconta l’Italia degli anni ’70, quella delle lotte di rivendicazione sociale, quella del fallimento dell’ideologia della Ricostruzione, quella della centralità della fabbrica e della cellula operaia nel tessuto del sentimento collettivo.
1972. L’Italia è il prototipo dello stato capitalista governato dalla casta borghese, dai ministri del nuovo culto del consumismo, i padroni delle fabbriche. Il consumismo causato dalla produzione di massa ha distrutto ogni valore dell’individuo, come singolo e come collettivo: ha smantellato il senso del collettivo, e lo ha ricostruito sulla dittatura dello stile di vita. Non vi è più un “collettivo” nazionale, ma un “collettivo” di classe: vi è una spaccatura profonda che penetra nelle fondamenta della Nazione, e separa il padrone dagli operai dipendenti, servi del capitalista, ma non ancora rassegnati ad essere servi del sistema.
Presentato alla Berlinale del ’72 (nella quale Pasolini vinse poi l’Orso d’oro con I racconti di Canterbury) 12 Dicembre è un meraviglioso esempio di documentario che ci permette di rivivere i momenti della guerra civile italiana della seconda metà del ‘900: gli anni “di piombo” della strategia della tensione e del passaggio dalle rivendicazioni sociali tradizionali – riconosciute dalla controparte borghese – alla lotta armata, agli scioperi atipici e all’opposizione della massa proletaria al nemico padrone.
Padrone Stato. Padrone Professore. Padrone Industriale. Padrone Partito. Padrone Sindacato. Nessuno sconto è più possibile dopo Piazza Fontana. Sarà impossibile tornare all’ordine precedente, spazzato via assieme ai sette chili di tritolo nella Banca dell’Agricoltura.
E attraverso un viaggio per l’Italia fatto di interviste da Nord a Sud – quasi come un Comizi d’amore militante – Pasolini e Bonfanti ci fanno recuperare la dimensione dell’attualità senza l’insidia della decontestualizzazione: il film è testimone fedele dello spaccato dell’opinione pubblica di massa, delle condizioni di sottoprotezione del proletariato, dei disagi del fallimento dello Stato sociale.
Non è difficile capire perché la sua distribuzione fu limitata ai “Circoli Ottobre” di “Lotta Continua”, e fu tramandata con pesanti tagli negli anni ’90 (da 104 minuti di girato si arrivò ad appena 40 minuti). Fortunatamente la versione integrale è stata ritrovata a seguito di una intensa opera di ricerca in un archivio cinematografico di Amburgo, e riproiettata per la prima volta nel 2015.
Dal punto di vista tecnico, il film si compone di due lunghe serie narrative: la prima riguardante la strage di Milano del ’69, la seconda mostrante la faccia reale, umana, della sovrastruttura.
Il fine della prima parte del film è quello di fornire un documento di controinformazione: testimoniare una controverità rispetto alla “verità di Stato”, quella sulla strage e quella sulla morte del Pinelli. Una verità che addosserà prima ai comunisti, agli anarchici e poi alla manovalanza fascista la colpa della rottura della “commedia dell’ordine”, tentando di nascondere la propria sconfitta in un’altra commedia, quella della rottura della stabilità dello Stato, causata – attenti – non dall’impotenza borghese di fronte alla rivoluzione sociale, ma dalla rivoluzione stessa.
E allora Valpreda ha piazzato la bomba, e Lodovichetti prima di lui.
E lo stato fascista – il secondo quanto il primo – cerca il capro espiatorio per convogliare l’odio dell’opinione pubblica e stringerla sotto la morsa del controllo e della costrizione: fa sentire al popolo il pericolo del disordine sociale, e lo convince a sottomettersi alla “dittatura” – la prima quanto la seconda – per il suo stesso bene. 17 morti – gli stessi a Piazza Giulio Cesare come a Piazza Fontana – valgon bene la messa.
Ma Pasolini sa. «Io so. Io so». Nel suo J’accuse Pasolini sa, e sa di sapere quanto sa di non avere possibilità di dimostrare ciò che sa. Ma sa anche che dovere dell’intellettuale è «fare i nomi» di chi non poteva non sapere.
Il film però, al contrario dell’articolo Romanzo delle stragi, non portò la sua firma.
Dopo il processo nel ’71 per “istigazione a delinquere”, “istigazione all’odio tra le classi sociali” e “apologia di reato” e la firma alla lettera su “L’Espresso” che accusava il Commissario Calabresi di essere stato il torturatore del Pinelli, gli avvocati gli consigliarono di non rendere esplicitamente imputabile a lui il film «perché chi voleva capire capisse, ma formalmente non potessero procedere» contro di lui.
Il film si pone quasi come una riconciliazione tra il regista e i movimenti militanti, dopo lo stacco della provocazione de Il PCI ai giovani!!, gli sputi, le offese, l’odi et amo tra il poeta e i “suoi” studenti.
Pasolini vide in “Lotta Continua” un movimento guidato ancora dalla passione, ancor prima che dall’ideologia. E la creazione del film fu un parto travagliato, fatto di opposizioni, tra la linea politica operaista di Sofri (che aveva chiesto a Pasolini di realizzare il filmato) e quella del regista, che aveva accettato perché disgustato dal cinema militante, “mediocre e settario”. Questa faziosità voleva combattere Pasolini, attraverso la documentazione della realtà delle strade e le interviste ai soggetti protagonisti, lasciando libero lo spettatore di decidere da che parte stare.
Ancor più che nella prima sequenza, è nella seconda che recuperiamo maggiormente questo aspetto: viene illuminata la soggettività operaia, sono gli operai stessi a raccontare delle condizioni degli operai, in anni in cui il sindacato è visto come Padrone al pari delle istituzioni, troppo lontano, troppo burocratizzato, per poter rispondere alle istanze di rivendicazione della massa operaia. Sono i soggetti sociali stessi, non i sindacati, e tantomeno i partiti, ad essere le parti attive della lotta. E questo mostrano Pasolini e Bonfanti: le vittime del lavoro, le vittime dello sfruttamento dei padroni, la nocività del lavoro in fabbrica, l’abbrutimento non solo fisico, ma psicologico che esso comporta. L’operaio ormai disilluso dalle promesse della Ricostruzione fomentate dal Pci nel ventennio precedente, l’”operaio massa” dequalificato, che non è interessato e non comprende i progetti politici della guida del partito, che si allontana diffidente dai sindacati preferendo forme di rappresentanza interne alle fabbriche, ai reparti, alle linee.
Il fatalismo di una società di classi chiuse, all’interno delle quali sin dalla nascita l’individuo conosce già il suo destino. Si nasce operaio. Si muore operaio.
Il lavoro di fabbrica atrofizza il cervello operaio con turni ripetuti di gesti ripetuti all’infinito, senza spazio per coltivare la personalità né la coscienza, di individuo e di classe. Il padrone borghese non ha la necessità che l’operaio maturi come individuo.
E allora nella sfilata di quei bambini sorridenti e ignari, che urlano gli slogan dei padri, gli operai dell’Italsider di Bagnoli, vediamo la predeterminazione del loro futuro: condannati anch’essi alla lotta, a cercare di sovvertire l’ordine costituito, di modificare in senso rivoluzionario i rapporti di classe, ponendo fine alla servitù di fabbrica, allo sfruttamento della forza-lavoro, agli “utopici” tentativi del Pci di tentare una collaborazione tra la base operaia e la borghesia dominante per dare alle istituzioni economiche un indirizzo democratico.
Con lo scorrere dei dialetti, da Torino, a Colonnata, a Napoli, a Reggio Calabria, quello che non cambia è lo spettacolo decadente di una lotta intestina, di una guerra civile, in cui i poveri si combattono, mentre i signori li «guardano dai balconi, e si godono lo spettacolo».
Perché di questo si tratta. Contro chi combatte il movimento operaio? Nelle strade, per le vie della rivoluzione ormai uscita dai cancelli della fabbrica, l’operaio si batte contro poveri come lui, contro la polizia, contro i celerini figli del popolo come lui, sotto l’occhio vigile, ma sempre distante, della borghesia, che strumentalizza così le lotte tra povera gente, utilizzando figli del popolo come braccio armato contro il popolo stesso.
La sopraffazione e la violenza, le torture ai sospettati, la mistificazione dell’ideologia. Cos’è questo se non fascismo? «Un nuovo spettro si aggira per l’Europa», e per il Mondo intero: quello di una nuova dittatura mondiale, la dittatura della produzione, in cui il suddito giace schiacciato dalla mano del capitalista, in cui un disco rotto continua a ripetere “Produrre. Produrre. Produrre.” Nient’altro ha importanza. Nessuna dignità di evoluzione, di maturazione sociale per l’operaio.
Pasolini capisce che il potere sta subendo una trasformazione: non è più quello convenzionale statale-clerico-fascista, ma è un potere che utilizza nuovi metodi per soggiogare: il consumismo, la “tolleranza repressiva” plagiante e manipolativa, il totalitarismo di quella «confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà» che domina ormai nella civiltà industriale avanzata.
Ed è contro questa sovrastruttura mondiale che l’operaio, realmente, combatte.
Ma per farlo deve capire. Deve ottenere coscienza di sé, della propria classe, coscienza della reale allocazione delle risorse, della sua necessità di esistenza nel corpo “agrippeo” in cui lo stomaco ozioso aspetta impaziente che le membra lo sostentino.
Ma nessun equilibrio va cercato per le Avanguardie, e la discordia di classe è necessaria alla sopravvivenza delle membra, poiché lo stomaco, una volta ottenuto il profitto, non lo distribuisce equamente, ma invece si ingrossa, affamando le altre parti.
E allora ognuno deve prendere il proprio posto, le masse vanno mobilitate, e il padrone – in tutte le sue forme – va sconfitto, perché la Storia ci insegna che mai c’è stato un passaggio senza trauma dalla dittatura del capitalismo al socialismo. Ma nel ’72 ciò che accadde dopo non era dato saperlo. E Pasolini, assassinato nel ’75, non lo ebbe a sapere mai.
La Storia ci ha insegnato anche che il riscatto sociale – che sia stato definitivamente raggiunto o meno – è passato invece dalle mani della cooperazione tra i rappresentanti di classe, trascendendo infine la suggestione dell’ideologia di parte. La costruzione di un ordine nuovo, passato per la tensione, per gli interi anni ’70, per il Movimento del ’77, fu determinata anche dal riflusso di coloro che avevano creduto nella lotta dei movimenti extraparlamentari, disillusi dallo svanire dell’allucinazione ideologica, che si opponevano alla svolta cruda del terrorismo.
Il clamore della lotta armata degli anni ’70 si riassorbì nel decennio successivo, e la risonanza dell’opposizione violenta venne appiattita nella dimensione della nuova classe emergente: quella della silent majority, la maggioranza silenziosa del laissez-faire, lontana ormai dalle vie della rivoluzione, rassegnata a mercanteggiare il prezzo della propria coscienza in cambio del salvacondotto per la gabbia dorata del benessere.