“Uccellacci e uccellini” e i funerali di Togliatti, di Stefano Beccastrini

di Stefano Beccastrini

“Diari di Cineclub” – n.22, novembre 2014

Prologo
Nell’agosto del 1964 – cinquant’anni fa: io, di anni, ne avevo sedici – mi trovavo in vacanza in Versilia. In quell’adolescenziale stagione della mia vita stavo diventando un acerbo simpatiz­zante del PCI (a cui, peraltro, non sono mai stato iscritto). Fu a Viareggio che appresi la notizia della morte, in quel di Yalta, di Palmiro Togliatti. Ricordo di essermi precipitato all’e­dicola più vicina per comprare “l’Unità” listata a lutto e di aver pianto, sfogliandola su una pan­china del lungomare.

I funerali di Togliatti e la loro risonanza artistica
Giuliano Procacci così chiude la propria Sto­ria degli italiani: “Quando la salma venne ri­portata in Italia, seguirono la bara un milione di persone. Da vivo era stato paragonato a Ca­vour, per la sua lucidità politica e la sua fred­dezza. Ma Cavour era morto al culmine della sua gloria, mentre a lui toccava di morire in una Italia gaudente e volgare. Nella tristezza della folla che lo accompagnava per l’ultima volta, vi era la consapevolezza di un traguardo che non era stato raggiunto e il presentimento di un lungo e faticoso cammino”. I maestosi funerali di Togliatti ebbero anche significative risonanze artistiche. Renato Guttuso dedicò ad essi un vasto quadro, a mezza strada tra i murales messicani e la Pop Art, che è una delle sue cose più belle. Circolò, a suo tempo, anche un cortometraggio dell’Unitelefilm, opera col­lettiva di molti cineasti di sinistra, intitolato L’Italia con Togliatti. Vari suoi brani furono, infine, utilizzati per essere sapientemente in­seriti, montati con le sequenze di fiction, nei due film che assunsero pienamente quei fune­rali quali metafora poetico-cinematografica: Uccellacci e uccellini, 1966, di Pier Paolo Pa­solini, e Sovversivi, 1967, di Paolo e Vittorio Taviani.

"I funerali di Togliatti". Guttuso, 1972
“I funerali di Togliatti”. Guttuso, 1972

Uccellacci e uccellini (1966)
Il film di Pasolini, a mio avviso, è uno dei suoi più originali e sperimentali, dei più segreti e sofferti. Opera realistica e surrealistica a un tempo, ironica e straziante, politica e lirica, apologo ideologico e fiaba metafisica: una sorta di road movie in forma di favola picare­sca spesso collocata sotto il segno dello Char­lot vagabondo e (per esempio, nella sequenza dei guitti girovaghi) di Fellini. Straordinaria la presenza di Totò, addirittura nei panni di due personaggi, entrambi sublimi: quello di Totò Innocenti (un poveraccio a mezza stra­da tra cinismo piccolo borghese e vitalità po­polare) e di fra Ciccillo (un francescano mite e intelligente che predica agli uccelli nelle cam­pagne di Tuscania). Narra del vagare di Totò e di Ninetto, un padre e un figlio, per la squalli­da – nella sua arretratezza e nella sua moder­nità: le baracche e l’autostrada, le discariche e l’aeroporto – periferia romana. Gente sempli­ce, né buona né cattiva, che si barcamena alle prese con i problemi di una società in piena trasformazione ma anche afflitta da atavici malesseri sociali. Strada facendo, si unisce a loro un corvo parlante, petulante come il gril­lo parimenti parlante di Pinocchio. Prende a dir cose per loro incomprensibili. Racconta, per esempio, la novella di due fraticelli che San Francesco manda a predicare ai falchi e ai passerotti, per convincere gli uni e gli altri della bellezza e della necessità dell’amore uni­versale. Essi, ciascuno all’interno del proprio essere falchi o passerotti (ossia, fuor di meta­fora, della propria appartenenza di classe), si mettono a praticare l’amore universale, ma ap­pena un falco incrocia un passerotto lo aggre­disce. Senza cambiare il mondo, spiega Fran­cesco ai due frati delusi e rattristati per la loro fallita missione, l’amore universale non pre­varrà. Totò, Ninetto e il corvo assistono anche al funerale di Togliatti. Come illustra l’uggio­so volatile, esso è simbolicamente anche il proprio, perché anch’egli, stereotipo dell’intel­lettuale di sinistra degli anni 50, sta ormai morendo. Affamati, oltre che annoiati, i due “picari” se lo mangiano. Ha detto Pasolini: “Mai ho scelto per tema di un film un soggetto così difficile: la crisi del marxismo… degli anni Cinquanta, poeticamente situata prima della morte di Togliatti, subìta e vissuta da un mar­xista, che non è tuttavia disposto a credere che il marxismo sia finito”.

Totò e NInetto. "Uccellacci e uccellini".
Totò e Ninetto. “Uccellacci e uccellini”.

Sovversivi (1967)
Stilisticamente, anche il film dei Taviani si pone, come quello di Pasolini, nel fecondo alveo del Nuovo Cinema Italiano, uno dei mi­gliori frutti culturali dell’Italia degli anni 60. Strutturalmente, si fonda invece sopra un an­tico schema narrativo – prevalentemente di matrice americana – che era quello di intrec­ciare, narrandole parallelamente, le vicende di vari personaggi, alla fine facendole tutte quante confluire in un medesimo, storica­mente memorabile, evento. In tal caso, quello dei funerali di Togliatti. Il film racconta quat­tro storie, accomunate da una profonda crisi esistenziale, che coinvolgono vari personaggi tutti quanti comunisti e tutti quanti presenti a Roma per i funerali del loro leader. Un foto­grafo professionale, Muzio, è incaricato di fa­re su di essi un reportage e porta con sé un amico – Ermanno, un sorprendente Lucio Dalla -, appena laureato in filosofia ma che non sa cosa fare nella vita, alterna ambizioni a frustrazioni ed è chiaramente in attesa di quel ‘68 che sta per venire. Sebastiano è un funzio­nario emiliano del PCI, che si reca a Roma in treno, per i funerali, con la moglie Giulia, con la quale ha un rapporto sentimentale alquan­to difficile. Ettore è un militante rivoluziona­rio venezuelano che da qualche anno vive in esilio a Roma, dove ha trovato anche una gio­vane fidanzata, ma che mostra ideologico di­sprezzo verso la coesistenza pacifica ormai diventata strategica nel PCI togliattiano. Lu­dovico è un famoso cineasta che a Roma è presente sia per i funerali che per terminare un proprio film su un senile Leonardo da Vin­ci (in realtà, sul proprio dolente invecchiare). Come i funerali di Togliatti per il PCI, così il parteciparvi rappresenta, nelle quattro espe­rienze di crisi personale, una rottura con il passato, un fare i conti con il destino e con la morte, una revisione impietosa della propria vita. Muzio troncherà i propri rapporti con il velleitario Ermanno. Sebastiano scoprirà alfi­ne, restandone sconvolto, che le difficoltà sen­timentali con la moglie derivavano dal lesbi­smo di lei (la cosa provocò molte reazioni scandalizzate, all’epoca: che c’entrava il lesbi­smo con la morte di Togliatti? In realtà, il te­ma preannunciava future ma ormai ravvici­nate questioni di diritti civili su cui il PCI era in ritardo). Ettore apprenderà di dover torna­re in patria per guidare la lotta clandestina, così lasciando l’Italia, la ragazza, la sicurezza personale (per lui, tornare in Venezuela, si­gnifica rischiare la morte). Ludovico vede ag­gravarsi la propria malattia e approssimarsi la propria morte: tenta persino il suicidio, get­tandosi nel Tevere. In riuscito equilibrio tra nostalgia e ironia, tra commozione e sberlef­fo, tra rispetto per una storia gloriosa e prean­nuncio di sommovimenti profondi, Sovversi­vi  appare oggi più datato di Uccellacci e uccellini, ma rivederlo – come, per scrivere questo testo, ho ben volentieri fatto – risulta sempre interessante.

"I sovversivi". Manifesto
“I sovversivi”. Manifesto

Epilogo
All’inizio di Sovversivi, Ermanno sta foto­grafando dei micini appena nati e l’amico Muzio gli chiede: “Che c’entrano i gattini con la morte di Togliatti?”. L’altro risponde, citan­do Mamma Gatta: “Che faranno i miei poveri gattini ciechi quando io sarò morta?”. Ma dav­vero il PCI, senza Togliatti, poteva essere pa­ragonato a un abbandonato gruppo di gattini ciechi? In verità, in parte lo era già anche quando Togliatti era vivo e vegeto. Per esem­pio nel suo non accorgersi – accecato dai dog­mi di un rozzo marxismo – che lo sviluppo ca­pitalistico stava producendo in Italia non una crescente arretratezza bensì il miracolo eco­nomico e, con esso, nuove e più moderne con­traddizioni sociali. D’altra parte, il partito seppe dimostrarsi – morto Togliatti – ancora vitale, non soltanto sopravvivendogli per ben 27 anni – ossia fino al congresso di sciogli­mento, a Rimini nel 1991 -, ma persino, seppu­re ormai tardivamente, trovando il coraggio di rompere con la politica imperiale dell’URSS in occasione dell’invasione della Cecoslovac­chia del 1969 (avvenuta anch’essa in agosto e anch’essa facendomi piangere). Il PCI riuscì persino a trovare in Enrico Berlinguer una guida amatissima, che seppe infrangere la sottomissione alla prepotenza sovietica. Egli seppe andare ben oltre Togliatti, pur restan­done in parte un erede. Leader dalle molte luci e dalle molte ombre, Togliatti seppe guidare per due decenni il più grande partito comuni­sta dell’Occidente. Il partito nuovo e di massa, la teoria delle vie nazionali al socialismo, l’a­pertura – di matrice gramsciana – al mondo cattolico, l’egemonica alleanza con il ceto in­tellettuale sono merito suo. Un errore imper­donabile resta, e pesa come un macigno, l’ap­provazione della repressione sovietica della rivoluzione democratica d’Ungheria del 1956. Giuseppe Di Vittorio, e la sua CGIL, seppero condannarla. Perché il PCI plaudì? Se avesse avuto la coraggiosa intelligenza di non farlo, la storia della sinistra italiana sarebbe stata molto diversa.