“Spiritual”, di Pier Paolo Pasolini (da “Un paese di temporali e di primule”)

INVITO ALLA LETTURA. BRANI DALLE OPERE DI

Pier Paolo Pasolini

Un paese di temporali e di primule, a cura di Nico Naldini, Ugo Guanda Editore, Parma 1993

I testi raccolti in Un paese di temporali e di primule, che vanno dal 1945 al 1951, sono nella maggior parte dei casi apparsi sui gloriosi fogli quotidiani del dopo­guerra: «Libertà», organo del Comitato di Liberazione Nazionale di Udine, e «Il Mattino del Popolo» di Venezia.

Altri sono apparsi sulle riviste casarsesi dirette e pubblicate da Pasolini: «Stroligùt di cà da l’aga» (1944), «II Stroligùt» (1945-46), «Quaderno romanzo» (1947), stampate in poche centinaia di esemplari e molti anni dopo raccolte da Gianfran­co Polena in una pubblicazione del «Circolo filologico lingui­stico padovano» (Padova 1983).

Altri infine sono apparsi in riviste friulane tradizionali co­me «Ce Fastu?», «Il Tesaur», «Lo Strolic furlan» eccetera.

Il titolo Un paese di temporali e di primule si rifa a un verso dell’autobiografia Who is Me (Il poeta delle ceneri).

Pier Paolo Pasolini, Spiritual

A Malafiesta, lungo il Tagliamento, viveva il Nini con nove fratelli e i genitori. La loro casa era stretta in mezzo al borgo, senza strade, ma pieno di cortili, orti, vasche di letame, conci­mai, stalle; tutto ammucchiato contro l’argine del fiume. Non c’era il campanile. Gli abitanti ne avevano costruito uno di pa­li – tronchi di pioppo segati lungo le rive del Tagliamento. Malgrado la miseria, tutti a Malafiesta erano allegri. Le ragaz­ze e i ragazzi la domenica ballavano in un grande stanzone da­vanti al campanile.
Il Nini era il più povero di tutti, ma anche il più bello. La gente di Malafiesta però si accorgeva più del primo fatto che del secondo. Perciò il Nini era infelice. Nelle luminose matti­ne di primavera, quando i suoi compagni tenendo per il manu­brio le biciclette, passeggiavano per il borgo, oppure filavano via verso San Michele, Morsano o Latisana, coi vestiti della festa e le sciarpette attorno al collo, egli si sentiva morire di malinconia.
I suoi fratellini, con gli altri ragazzi del borgo, andavano a giocare sull’argine del Tagliamento, tra le boschine. Egli non sapeva cosa fare, mal vestito com’era e senza una lira in tasca; e allora andava a camminare per qualche posto solitario.
Una domenica d’estate se ne stava solo come sempre, lungo la riva del fiume.
Dietro a Malafiesta il Tagliamento era un grande deserto di boschine, cespugli, sabbia. Proprio sotto l’argine correva un canale d’acqua verde e profonda. All’argine erano legate due o tre vecchie barche, e il barcone del guado. Il Nini era seduto sul bordo del barcone e guardava l’acqua verde.
Ad un tratto sentì una voce che chiamava, alzò la testa e guardò dall’altra parte della corrente per vedere se qualcuno voleva guadarla. Ma tutto era deserto: i gabbiani volavano radi tra le canne, lontanissime, al di là del greto, suonavano le campanelle di Staccis.
Allora il Nini tornò a guardare dentro l’acqua. Era così lim­pida che si vedevano distintamente i sassolini rosa della ghiaia. Ma sulla superficie, come in uno specchio, tremolava la sua immagine. Si scorgeva la camicia di tela rigata, la vecchia giacca che era stata di suo padre, il collo robusto, la bella fac­cia di contadino, e i capelli… Egli aveva stupendi capelli d’o­ro, ma d’un oro massiccio, striati di luce che gli cadevano sulla fronte con una grande onda. Egli guardava i suoi capelli, quan­do si sentì chiamare. Si voltò, questa volta, verso la sommità dell’argine dietro al quale si stendeva il borgo, e vide il fattore del suo padrone che lo guardava ridendo. Il Nini arrossì. «Non vai a ballare coi tuoi compagni?» gli chiese il fattore. «Non ho soldi», rispose il Nini. «Che stupendi capelli d’oro!» gridò il fattore. «Ti pago il biglietto del ballo, se me li dai.» «È troppo poco», disse il Nini. «Be’», contrattò il fattore, «ti trovo anche da lavorare a Latisana.» «Ci sto», disse allora il Nini. Il fattore scese nell’acqua, sulla barca, tirò fuori dal panciotto le grosse forbici che servivano a potare, e tagliò alla radice i capelli del Nini.
Il Nini intascò i soldi per il ballo, e corse su per l’argine. I ragazzini che giocavano tra i cespugli e le bambine che andava­no al pascolo con le oche, vedendolo, cominciarono a ridere e a canzonarlo. Ma egli era leggero e felice. Corse ansimando nella sala da ballo, pagò il biglietto ed entrò. Si accontentò di guardare gli altri che ballavano, standosene in un angolo, sotto l’orchestra, seduto ai piedi del violinista.
Il giorno dopo andò a Latisana a lavorare. Stavano rico­struendo il ponte distrutto dai tedeschi, ed egli per un anno si massacrò a lavorare sotto il pelo dell’acqua, dentro i piloni, o i cassoni di cemento, o sulle impalcature di ferro. Quando il ponte fu finito restò senza lavoro. Ma a Malafiesta non voleva tornare. Si mise sull’argine del fiume, seduto sull’erba sporca, sotto un freddo solicello d’inverno. Guardava dei ragazzetti che giocavano alle palline, e sorrideva. Passò di lì, tra le rovine del suo palazzo, la padrona, lo vide e gli disse: «Nini, cosa aspetti tutto solo?» «Non lo so», disse il Nini. «Perché non sei a divertirti oggi che è l’Epifania?» «Non ho soldi», rispose il Nini, «tutti quelli che avevo li ho mandati a casa.» Continuava a sorridere, timido e forte. «Se mi dai il tuo sorriso», gli disse la padrona, «ti do mille lire e ti trovo lavoro a Trieste.» «Ma­gari!» disse il Nini.
Dopo pochi giorni era a Trieste, e faceva il facchino nel por­to. Lavorava da mattina a sera e mandava quasi tutto quello che guadagnava a casa. In primavera lo licenziarono. Egli andò in giro disperato per la città. Capitò in viale XX Settembre, tutto umido nella bella luce primaverile, con le prime foglie dei castagni che verdeggiavano tranquille e i primi tavolini dei caffè all’aperto, con le bibite e i cristalli rilucenti al sole. Si se­dette sotto un castagno, sull’orlo dell’aiuola, e si guardò dispe­rato intorno. Era senza capelli e senza sorriso, ma in mezzo al volto gli restavano come due pietre preziose, i suoi occhi turchini.
Passò davanti a lui un vecchio signore con un cane al guin­zaglio, e si fermò a contemplare in quel bel volto devastato la luce cupa e dolce delle pupille. «Sei solo?» gli disse. «Sì, sono solo», rispose il Nini. «Hai fame?» «Sono due giorni che non mangio.» «Vieni con me allora», disse il vecchio, «ti invito a pranzo.» Lo portò in un albergo lussuoso, dove erano tutti ric­chi: il fulgore dei lini e delle stoviglie abbagliava, i vecchi ca­merieri triestini volavano tra i tavoli, severi e leggeri. Il Nini assaggiò tutto quello che mangiavano i ricchi, e che non sareb­be stato capace di sognare. Alla fine del pranzo, il signore gli disse: «Hai degli occhi stupendi…» Il Nini lo guardò stupito. «Se me li dai», continuò il signore, «ti regalo un vestito, una bicicletta e un orologio d’oro.» «Affare fatto!» esclamò pronto il Nini, mezzo ubriaco.
Così tornò a Malafiesta; dopo pochi mesi il vestito nuovo era tutto stracciato. La bicicletta e l’orologio dovette venderli per comprare delle scarpe e qualche medicina per i fratelli pic­coli. Ormai, rugoso, calvo e cieco, anche la gioventù, unica sua ricchezza, era nelle mani dei padroni.