Scandalo e fama. L’odissea giudiziaria di PPP, di Erminia Passannanti

Dal 24 al 30 novembre 2015 si è svolto a Terracina un articolato programma di iniziative in ricordo di Pasolini, dal titolo La lezione di Pasolini. Quarant’anni da Pier Paolo Pasolini, vent’anni dal racconto “Terracina”. Tra i vari appuntamenti del programma, promosso dal Comune locale, insieme all’Associazione Terracina d’amare, al Festival delle Emozioni e a Fone Edizioni,  da sottolineare il convegno Pasolini e la censura, organizzato nel pomeriggio del 28 novembre al Grand Hotel Palace.
Accanto al relatore Gennaro Colangelo e al moderatore Giuseppe Musilli, è intervenuta la studiosa Erminia Passannanti, autrice di importanti saggi di ambito pasoliniano, attenti anche all’incredibile odissea giudiziaria subita da Pasolini, tanto per la sua vita privata quanto per la sua opera, letteraria e soprattutto cinematografica.
Ringraziamo vivamente l’autrice per aver concesso in esclusiva alle nostre pagine la pubblicazione della sua relazione, di cui è vietata la riproduzione, anche parziale.

Convegno "La lezione di Pasolini" (Terracina). Locandina
Convegno “La lezione di Pasolini” (Terracina). Locandina

Pasolini. Scandalo e fama
di Erminia Passannanti
©passannanti, 2013

Il titolo di questo mio intervento al convegno di  Terracina, “La lezione di Pasolini” (novembre 2015), è presto chiarito: molta della fama di un autore può manifestarsi come successo al botteghino e attenzione critica anche in ragione della sua biografia scandalistica e delle vicende censorie subìte. Con il suo stile di vita e con le sue provocatorie forme di pensiero e di espressione, Pasolini non mancò né dell’uno né dell’altro aspetto, attirandosi, dal dopoguerra in poi, ben 33 procedimenti giudiziari, tra querele e denunce, procedimenti che includevano accuse di corruzione di minorenni, atti osceni in luogo pubblico, favoreggiamento di delinquenti, porto abusivo d’arma e perfino tentata rapina a mano armata. Ma più eloquenti del binomio “scandalo-fama” sono i processi di censura e le condanne che Pasolini subì come scrittore e regista per imputazioni che vanno dall’offesa del pubblico pudore al vilipendio alla religione di stato.
E questo secondo è il punto di interesse su cui si sviluppa la mia riflessione. Solo alla distanza di trent’anni siamo oggi riusciti a riottenere il cortometraggio La ricotta (girato nel 1962 e incluso nel film a episodi Ro.Go.Pa.G, prodotto da Alfredo Bini), processato per direttissima e sequestrato nel 1963, quindi riabilitato a seguito della revisione dei Patti Lateranensi nel 1984, allorquando decadde il reato di vilipendio alla religione – reato che fu tra quelli addebitati a Pasolini regista, e per i quali egli fu sottoposto ad un assurdo procedimento di censura, dopo un processo penale altrettanto inverosimile, che coinvolse anche il suo produttore. Chi ha visto La ricotta sa che è vero quanto asserì Pasolini durante il processo, cioè che il film è un omaggio al cristianesimo e alla sua cultura. Infatti, intanto che uno stato progressista moderno rivede e raffina le sue leggi sulla libertà di opinione, rappresentazione e satira, decadono anche una serie di reati prima in vigore. Per nostra buona sorte, nel 2000, decadde il principio stesso di uno stato confessionale con una “religione di stato” e, con esso, ogni possibile pretesa della Chiesa di chiudere la bocca a chi si esprime in materia di religione cattolica con espressioni e criteri suoi propri.

Sentenza di Cassazione per il film "La Ricotta", reo di vilipendio alla religione di Stato
Sentenza di Cassazione per il film “La ricotta”, reo di vilipendio alla religione di Stato

Ma spendiamo ora qualche parola sui criteri amministrativi e legislativi che decisero della condanna di Pasolini come regista de La ricotta per il reato di “vilipendio alla religione”, ovvero della religione cattolica come religione dello stato italiano. A questo fine, è utile definire, anche se brevemente, cosa sia la censura cinematografica. La censura dei film prodotti e fatti circolare è gestita da un insieme di organizzazioni, enti, burocrati e lobbies. I criteri che regolano la censura cinematografica sono decisi da ciascun paese in diversa misura ma esistono dei principi generali contro pellicole corruttive, che incitano, ad esempio, alla violenza, alla discriminazione e all’odio razziale o che offendono il comune senso del pudore. Tuttavia, questi criteri regolativi si modificano con il tempo e si adeguano alle leggi di mercato. La proiezione di un dato film, considerato scandaloso, lesivo degli interessi, della reputazione e della sicurezza dello stato, o offensivo dei suoi cittadini e della comunità, è dunque proibita per legge, così come la diffusione di immagini e materiale potenzialmente osceno, repellente ed immorale, per mezzo di manifesti, volantini, pubblicità, eccetera.
Le commissioni di censura, insomma, hanno il compito di assegnare o negare il “nulla osta” alla diffusione del prodotto filmico, decretando l’idoneità di un dato soggetto e stile di rappresentazione o imponendo modifiche e divieti in base alla decisione che un dato film sia inadatto alla visione nella forma originale, nei modi e nelle intenzioni per cui è stato prodotto. Queste commissioni sono opportunamente composte da una varietà di esponenti del mondo civile, penale e religioso, che collaborano a definire gli standard che regolano la circolazione delle opere filmiche. Strettamente vincolate alla giurisprudenza e alla costituzione, le commissioni di censura stabiliscono i propri sistemi di rating, al fine di facilitare la classificazione dei prodotti cinematografici in base ai diversi gruppi di età del pubblico.
La classificazione di un dato film in base alla decisione della commissione di censura che lo prende in esame è resa pubblica dal rilascio di un certificato di “nulla osta”, che riflette i criteri delle citate norme governative e giuridiche: si hanno allora certificati di “visibile a tutti” o certificati di divieti ai minori, a seconda del grado di corruttibilità del soggetto filmico in questione. Ne desumiamo che i membri delle commissioni di censura non abbiano solo il ruolo di raccomandare modifiche, concedere nulla osta o emettere un divieto ufficiale, ma di stabilire, in ultima analisi, ciò che è lecito e ciò che è proibito vedere. Sembrerebbe che esse siano, per procura, la coscienza di un popolo. Bisogna pertanto riflettere, oltre che sulle questioni tecniche che regolano la censura, sull’eterno dilemma del rapporto tra arte, libertà espressiva e etica, da intendersi sia come morale personale sia come morale pubblica.
Anche in Italia, le commissioni di censura cinematografica operano in base a leggi e criteri definiti da commissioni nazionali, che, attraverso i decenni, fissano o rivedono i loro sistemi di valutazione atti a giudicare cosa in un film necessiti di operazioni di revisione, tagli, controlli o veti totali e parziali. Anche qui, come in ogni paese dove il cinema è un’industria fiorente, costituita da un complesso di strutture per la diffusione di prodotti artistici ed informativi, volti al pubblico intrattenimento, all’informazione e al profitto, la proiezione di un film dinanzi ad una platea è regolata da determinate leggi e limitazioni, che sono di continuo ridiscusse.
Ma su quali principi si fonda la censura cinematografica italiana? Nei Principi della Costituzione italiana stabiliti nel 1948, l’art. 21 riconosce il diritto del cittadino alla libertà di pensiero, rappresentazione e satira, fatta eccezione per quei casi perseguibili per legge perché giudicati contrari alla pubblica decenza, all’ordine civico, al segreto di stato e alla sicurezza nazionale ed internazionale. Come regola generale, dovrebbero essere vietati la proiezione pubblica di film che contengono scene sessuali indecenti e scabrose, incoraggiamenti all’abuso di droghe, apologie della violenza e della perversione, istigazioni all’odio e alla guerra, turpiloquio e blasfemia, o tematiche che mettono in scena modelli di discriminazione sociale e razzismo. La richiesta di revisione della sceneggiatura o delle scene o dell’audio di una data pellicola secondo i suggerimenti della commissione di censura governativa è presentata all’autore e al produttore in modo che si correggano gli aspetti problematici o si proceda ad opportuni tagli, in modo costruttivo e per il bene della circolazione delle idee e delle proposte artistiche. Questo organismo gestisce quella che si definisce “censura preventiva”(1). Va specificato che i film sono in genere scritti e prodotti da sceneggiatori, registi e produttori con un preciso sistema di rating in mente, ed un regista si aspetta dei procedimenti di censura prima che vengano comunicati ufficialmente dalla commissione di censura del suo distretto. Attualmente, per agevolare il mercato cinematografico, agli autori e ai produttori è chiesto di autocensurarsi e dichiarare il proprio rating, con un atto di autocertificazione.
Quindi, spendiamo qualche parola per la definizione meno tecnica di cosa sia la censura cinematografica. Nell’enciclopedia Einaudi, troviamo la seguente precisazione filosofica: “La verità della censura non è una verità qualunque […]. E’ la “verità del potere”. Il suo ufficio e le sue pratiche riguardano la soppressione, per legge, di idee, libri, immagini, rappresentazioni che il potere considera inadeguate, offensive o pericolose per l’ordine pubblico e per i suoi equilibri interni ed internazionali. Pertanto, nella maggior parte dei sistemi legali, la censura è l’impedimento che il potere oppone alla trasmissione di materiale potenzialmente lesivo dei suoi interessi.
Alla fasi della censura preventiva seguono quelle della censura difensiva, quando un dato film raggiunge le sale cinematografiche. In questa fase, gli spettatori che percepiscono il contenuto di una pellicola come offensivo o corruttivo, ovvero inappropriato alla proiezione in una pubblica sala, possono chiedere l’intervento della polizia o della magistratura per sospendere lo spettacolo e la distribuzione di quel dato prodotto. In queste circostanze, un film può essere sospeso e confiscato. I suoi registi, produttori e distributori possono essere denunciati e sottoposti a processo penale. Prima del 1984 un autore poteva essere condannato se il suo soggetto conteneva palesi forme di vilipendio alla religione di stato, quella cattolica.
In genere, le commissioni di censura cinematografica sono composte da professionisti influenti del sistema di potere reticolare di una data nazione, ivi compresa le autorità ecclesiastiche. Detto questo, meraviglierà che laddove molti film sono censurati o soppressi per oscenità, pochissimi sono i film processati per vilipendio alla religione, anche se nelle commissioni di censura c’è sempre la presenza di un prete ad esercitare sorveglianza contro scene di profanazione del sacro e di offesa del sentimento religioso.
La lista dei film tagliati, rivisti, confiscati e banditi, perché ritenuti osceni e corruttivi è, come si immagina, lunghissima. Un numero inferiore attiene alla lista dei film accusati di offesa al “sentimento religioso”. Tra i pochi film completamente soppressi per vilipendio alla religione di stato, ve ne sono due in particolare: La ricotta, di cui è autore Pasolini (il film fu messo al bando nel 1963 a seguito di un processo per direttissima), e il film Totò che visse due volte, girato nel 1998 dai registi Ciprì e Maresco, sottoposto a censura e prosciolto dall’accusa di vilipendio, nel 2000, dopo vari dibattimenti e polemiche.

Pasolinisul set de "La ricotta". Foto di Mario Dondero
Pasolini sul set de “La ricotta”. Foto di Mario Dondero

Pasolini, dunque, fu il primo tra i registi italiani a subire una condanna per blasfemia e vilipendio alla religione di stato, patendo la pena di 4 mesi di reclusione, abbuonata con una penale, e fu il primo a vedere il suo film sequestrato. Nell’analizzare le ragioni che mossero un cittadino comune a denunciare alla magistratura il corto La ricotta per vilipendio alla religione, non va trascurato che il vero nodo problematico del film è che esso suggerisce che il protagonista, il povero Stracci assoldato per ricoprire la parte del buon ladrone, è disposto a servire i padroni di Cinecittà non tanto per una sua disposizione innata alla sottomissione, data la sua grossolanità, ma a causa della povertà e dell’ignoranza in cui il potere tiene il proletariato. Nel mostrare le gerarchie in azione a Cinecittà, Pasolini suggerisce che l’egemonia delle lobbies finanziarie dietro le grandi case di produzione continua a sottomettere le classi subalterne. Mescolando marxismo e revisionismo cristiano, Pasolini qui porta sullo schermo la teoria dell’egemonia di Gramsci, per mostrare che Gesù – lo studente dai capelli rossi deposto dalla croce – è dalla parte dei diseredati e, al di là delle strutture simboliche della Chiesa, li vuole istruire e guidare alla rivolta attraverso i processi di secolarizzazione in atto nel Novecento delle grandi rivoluzioni tecnologiche ed umanistiche.
La possibile ragione di questo estrema censura del film La ricotta è forse che in esso Pasolini inquadrò la profonda crisi del mondo cattolico nel suo scontrarsi con le complesse realtà dell’attualità post-industriale che avanzavano nel suo tempo. Allo stesso tempo, la censura colpì il suo autore per avere prospettato forme intermedie di religiosità e moralità individualistica e soggettiva. Ed è chiaro ciò che Pasolini pensasse dell’italiano medio in balia di stato e chiesa, nella critica che consegna al suo alter ego, sul set de La ricotta, interpretato da Orson Welles. Nella scena a cui faccio riferimento Orson Welles è intervistato sul set mentre è intento a citare versi da una poesia di Pasolini: “Io sono una forza del Passato…”. Il giornalista, inequivocabilmente riconoscibile come un mediocre  servo dei media, è rappresentato inoltre come un individuo umanamente limitato. Al contrario, il regista è specularmente visto (certo autobiograficamente) come un intellettuale radical chic, cinico anticonformista che sputa in faccia al giornalista e al suo pubblico la sua opinione negativa sull’informazione e sull’italiano medio, “un mostro…” che la consuma (2).
Ora, laddove chi ha visto La ricotta sa bene che nulla di offensivo per la religione cattolica fu mai messo in scena da Pasolini in questo film, tranne che l’interesse di Gesù per Stracci, il buon ladrone, entrambi presentati con bonaria ironia come dei Cristi in croce, il film Salò, o le 120 giornate di Sodoma (girato 5 anni dopo gli Appunti per una Orestiade  africana ) effettivamente rappresentò per Pasolini l’occasione tanto attesa di una descrizione allegorica violentemente politica, antiestablishment e anticlericale dello stato corrotto delle cose in una nazione di burocrati sprofondata nei suoi vizi secolari. Un film immediatamente messo al bando per le sue atrocità, che era l’ esatta ricostruzione del passato della Repubblica nazifascista di Salò, un’analisi pungente del presente massificato e una anticipazione del futuro, il tutto messo insieme in un documento filmico metastorico di come si comporta il potere quando politica, legge, chiesa, istruzione sigillano i loro patti nefandi. Un film, che ritrae, in ogni suo aspetto istituzionale, civile e sociale, la civiltà neocapitalistica dei consumi, dove l’uomo comune viene rappresentato antropologicamente trasformato in un prodotto del Capitale, ovvero in un consumista senza coscienza di classe, alla mercé della propaganda delle grandi corporazioni e della costruzione del consenso da parte delle lobbies, ivi compresa quella del mondo cattolico e delle sue istituzioni bancarie e dei suoi enti assistenziali.
Sono questi, in sintesi, gli stessi argomenti che Pasolini spinse al massimo della tensione affabulatrice critico-didascalica in Salò, temi anche trattati nel film Teorema del 1968, in cui l’autore si accosta alla sociologia antiborghese del cinema di Visconti ed Antonioni, con un film considerato scandaloso sul piano del discorso politico dai critici della cultura conservatrice del suo tempo, avversi a metadiscorsi di ogni genere contro la loro classe e le sue forme di potere.
Salò fu massimamente censurato, a mio parere, non per la sua pornografia ma per il suo livello di allegorizzata verità sulle istituzioni del potere, Stato, Giustizia, Istruzione, Chiesa, Aristocrazia. Nel girone del “Sangue” è eloquente la scena del massacro dove ad un giovane prigioniero viene simbolicamente tagliata la lingua (3).
Riflettendo, inoltre, sullo stile del discorso più violento di Pasolini contro i poteri censori dello stato e i suoi effetti sulla coscienza comune, ovvero approfondendo la mia riflessione su Salò in cui anche il potere del Vaticano è mostrato come l’altra faccia del fascismo e della magistratura persecutoria, lasciate che apra una parentesi per raccontare un paio di aneddoti dalla mia percezione diretta della censura come spettatrice. Quando ero appena maggiorenne riuscii a convincere un’amica ad andare a vedere Salò. Il film era proiettato in una enorme sala cinematografica al centro di Napoli, il Metropolitan, un cinema con una mega capienza di mille persone. Me ne stetti là al buio, in attesa che succedesse qualcosa e, stando a quello che ne dicevano i critici,… sarebbe dovuto accadere quel qualcosa di tanto scandaloso da suscitare forti reazioni nel pubblico! Dopo scene di cattura e persecuzione di un gruppo di giovani imberbi durante la Repubblica di Salò, da parte di quattro gerarchi, un conte, un magistrato, un vescovo e un politico, scene che alludevano allo stesso tempo a tecniche di addestramento e reclutamento di minori, come in una caserma, in una scuola o in un seminario, si giunse al girone della “Merda”. A quel punto esatto, quando nell’orripilante banchetto di stupro e orgia il pretore alza il coperchio del vassoio d’argento contenente degli escrementi e forza dei giovani prigionieri a mangiarli con l’apparente monito paterno, “Mangia. Mangia su!”, una intera ala di spettatori si alzò dal posto e si avviò all’uscita. In realtà, i gerarchi sono gli orchi antropofagi, e il loro patto il riflesso dello stato assolutista, il Leviatano che Pasolini attacca con Salò. Fu una visione impressionante: a sciami lasciavano la sala come dinanzi ad un autentico orrore. Io e la mia amica resistemmo fino al girone del “Sangue”, e ci sembrava strano, quasi per noi stesse immorale, rimanere là dinanzi a tanto orrore, quasi suoi testimoni oculari. Riuscimmo a guardare il film fino alla scena della premiazione dei prigionieri, che nel film avviene per mezzo di una coccarda celeste consegnata da una commissione composta dai quattro gerarchi e dai loro collaborazionisti. La premiazione consiste nell’essere stati scelti per la morte, e la consegna avviene in una sala del tutto simile ad una scuola, con i prigionieri schierati come studenti dinanzi al Preside e al corpo docente. A quel punto anche noi lasciammo la sala e non vedemmo il massacro finale. Ricordo che ci parve di avere fatto una grande impresa.

"Salò". Manifesto
“Salò”. Manifesto

Oggi si guarda a Salò non tanto per gridare allo scandalo della sua violenza allegorica, sadiana, dantesca, quanto come a una profezia, essendo il futuro degli orrori di Salò ormai il nostro presente. All’epoca invece il pubblico non riusciva a capire il messaggio di Pasolini, a vedere che gli escrementi dati in pasto ai prigionieri non erano altro che la cioccolata edulcorata della politica, della religione sotto il segno del consumismo. Nei piatti c’era cioccolato spezzettato con biscotti, sottolineò Pasolini, ma il pubblico non vide la metafora, non era abbastanza maturo per agganciarsi alla costruzione filmica, ma interpretò la coprofagia, il sadismo come dirette espressioni della morale del regista, come fecero i magistrati che volevano punire per procura Pasolini.
Vale menzionare che nell’immediato dopoguerra, mentre Pasolini si accostava al comunismo tramite le letture di Marx e Gramsci, il sottosegretario alla presidenza dei consiglio, durante i governi de Gasperi, dal ’47 al ’53  il sottosegretario con delega anche al ministero della cultura e dello spettacolo era il democristiano Giulio Andreotti, il quale, altamente raccomandato dalla Curia, fu un intellettuale cattolico assolutamente integrato (per usare la classificazione di Gramsci). Quindi va sottolineato che Andreotti, malgrado avesse dato ampio respiro alla rinascita del cinema italiano nel dopoguerra, ricostituendo e sovvenzionando Cinecittà, aveva molta influenza sulle commissioni di censura cinematografica nelle fasi di revisione preventiva dei soggetti, limitando ogni discorso anticlericale e anticattolico. Questo zelo censorio delle commissioni di censura monitorate da Andreotti fu molto criticato dagli artisti e dai cineasti progressisti della nuova Repubblica che aspiravano ad ottenere un riconoscimento della loro crescente istanza di libertà espressiva. E Pasolini esprime i termini di questa istanza come richiesta di una totale (sebbene utopica) libertà dello sguardo dello scrittore /regista di rendere conto della sua personale visione della società e della storia, senza pressione o controllo da parte del Partito, della Chiesa o della Giurisprudenza. Infatti, nelle sue riflessioni sul rapporto fra cristianesimo e marxismo, tra Nord e Sud, Pasolini era solito sostenere che tutto debba potere essere liberamente trattato dalla penna dello scrittore, indipendentemente dai rischi della caduta in schemi di volta in volta “censurabili” come “borghesi” o “di partito”, o perfino condannabili come superati alle neo-avanguardie.
Forse la presa di distanza di Pasolini dal realismo “socialista” delle sue prime opere, come Ragazzi di vita del 1955, romanzo emblematico del binomio ossimorico scandalo e successo (scandalo per oscenità e “Premio letterario città di Parma”), e Una vita violenta del 1959,  fu proprio la chiusura della rivista “Officina”, a cui aveva collaborato con Roversi e Leonetti dal 1955 al 1959, rivista bimestrale chiusa a seguito di un aforisma di Pasolini su papa Pio XII ritenuto offensivo. E questi era, appunto, l’assai criticato pontefice che scomunicava i comunisti e che oggi sappiamo essere stato più interessato a preservare l’immagine e la reputazione della Chiesa che ad impegnarsi nella difesa degli oppressi. L’anticlericalismo di Pasolini suscitò rivolta e scandalo nel mondo cattolico. Nello stesso anno della pubblicazione della raccolta di poesie, L’Usignolo della Chiesa Cattolica, alla morte di Pio XII Pasolini scrisse una poesia contro il papa e la incluse in Epigrammi, XII, de La religione del mio tempo (1961), una poesia di cui cito i versi, che recitano:

Non ti si chiedeva di perdonare Marx! Un’onda
immensa che si rifrange da millenni di vita
ti separava da lui, dalla sua religione:
ma nella tua religione non si parla di pietà?
Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato,
davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili.
Lo sapevi, peccare non significa fare il male:
non fare il bene, questo significa peccare.
Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto:
non c’è stato un peccatore più grande di te.

Papa Pio XII è qui attaccato per la sua indifferenza verso il mondo del sottoproletariato urbano, il mondo popolare che vive di natura e vitalità, ma è spinto ai margini della legittimità dalla mancanza di politiche per la sua integrazione. Pasolini, affermò: “Ciò che resta originario nell’operaio è ciò che non è verbale: per esempio la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo. Il corpo: ecco una terra non ancora colonizzata dal potere.” Il mondo dei “poveri Cristi” diseredati e condannati all’anonimato della loro miseria dolorosa. In questo testo epigrammatico del 1958, Pasolini commenta sì da convertito marxista, ma anche da umanista e cristiano l’indifferenza del Pontefice. E queste sue parole di accusa decideranno della sua persecuzione. Sono parole e idee radicali che di certo servirono da sostegno a La ricotta, dove la religione istituzionalizzata, dei fasti e dei dipinti celebrativi del potere papale è rappresentata nella sua sinistra facciata, contro la gioia sfrenata e dissacratoria del popolo, che sul set agisce da motore ad una tragicomica vitalità, anche se confinata ai ruoli delle comparse e degli operai mal pagati. Pasolini segnalava, insomma, il ruolo della chiesa nelle dittature palesi, come quella fascista, e in quelle larvate, come nel governo politico della neo Repubblica. Nel farlo solleva ondate di avversione e perfino odio, come afferma nell’intervista con Enzo Biagi, presso gli studi della RAI, alla presenza dei suoi ex compagni di classe, dal titolo III B: facciamo l’appello (1971). Dall’intervista con Biagi si evince che in queste sue radicali forme di protesta, Pasolini si esponeva a contestazione e censura, in quanto affrontava con palese prospettiva iconoclasta questioni che spaziavano dalla politica, all’arte, alla società (4).

Pasolini con Enzo Biagi nella trasmissione "III B. facciamo l'appello" (1971)
Pasolini con Enzo Biagi nella trasmissione “III B: facciamo l’appello” (1971)

Procedimenti di censura infatti non gli venivano solo da polizia, magistratura o commissioni di controllo dei media, ma dalla gente stessa, avversa alle sue idee radicali su questioni scottanti come il divorzio e l’aborto. Di nuovo, questi avversari non amavano sentirsi oggetto di critica e si sentirono legittimati a coltivare ostilità verso Pasolini, voce della coscienza negativa di un popolo che non vede, e non vuole vedere, i suoi vizi e il suo conformismo, e che segue un potere che si perpetua attraverso il suo linguaggio criptico, formulaico, apodittico.
Pasolini -si comprende ora con più chiarezza- sollevò sistematicamente scandalo presso la società perbenista cattolica ed egli fu effettivamente uno scandalo che si rinnovava ad ogni nuova pubblicazione o lancio di film, decretandone, come si sostiene, oltre l’infamia, anche il successo e la fama. Morto Pasolini, assassinato all’Idroscalo di Ostia il 2 novembre del 1975, un altro suo film subì la stessa malasorte censoria de La ricotta: Salò o le 120 giornate di Sodoma, inquisito per oscenità ed istigazione alla perversione, dunque tolto dal mercato e rilasciato solo nel 1985 (5).
Oggi l’opera di Pasolini forse non susciterebbe più tanto scandalo, in quanto in ogni nazione, là dove la giurisprudenza evolve, con essa cambiano e si trasformano anche le libertà dei media e i criteri delle stesse commissioni di censura. Resta però la sua lezione, che è una lezione civile anticipatrice, che noi oggi amiamo definire profetica quasi in senso messianico, dato che, probabilmente, ci mancano figure di riferimento salde e intellettualmente strutturate come quella di Pasolini. Non a caso oggi tendiamo ad interpretare la sua persona di artista e pubblico opinionista come quella di un maestro critico della nostra stessa mentalità ed italianità.
Approssimandosi la fine degli anni Settanta, Pasolini gradualmente si concesse un linguaggio più drastico ed espressionista e assunse degli atteggiamenti manifestamente disillusi, arrivando a negare, in più occasioni, la sua precedente spinta vitalistica (mi riferisco all’“Abiura dellaTrilogia della vita”), autodefinendosi come un “contestatore globale ed apocalittico”. Pasolini (opinionista anche quando era dietro una telecamera) espletava questo suo ruolo critico e polemico in modi interrelati, costruendo un corpus molto complesso di idee, proposte e forme di comunicazione con i suoi interlocutori; un corpus di proposte artistiche intimamente informato dall’ideologia, con una sua cifra espressiva radicale, che andava diventando sempre più amara, acuta, dolorosa, scomoda ed attaccabile da tutti i lati dai suoi nemici.
Presso di noi, Pasolini rimane un intellettuale profondamente calato nelle questioni etiche, che si mantenne ancorato al ruolo gramsciano di pedagogo delle masse, come si evince ad esempio dai soggetti dei suoi documentari La rabbia e Comizi d’amore, entrambi del 1963. Sono queste opere che pongono dinanzi al pubblico importanti argomentazioni su questioni di morale, costume, identità nazionale, lotta di classe, egemonia culturale, con un’attenzione particolare alle voci di chi non ha voce, alle difformità create dall’imperante conformismo italiano e dalle politiche di omologazione delle masse in preda al consumismo più sfrenato.
Pasolini opinionista e documentarista, crudamente obiettivo e a volte perfino snobisticamente tale dinanzi alle  sfide dialettiche postegli da interlocutori quali Enzo Biagi, nella sua volontà di rimanere aderente al reale, fece scandalo ancora di più del Pasolini romanziere e regista in quanto portava sugli schermi il contrasto per molti “fastidioso” delle discrepanze insite nella società italiana, con le sue divisioni, le disuguaglianze, il tutto coperto dal grande ombrello del buonismo cattolico, che, secondo Pasolini, appiattiva la società, presentandola come “gregge.” E qui Pasolini è autentico divulgatore della visione di Marx che considera la religione come l’oppio dei popoli. Il ruolo di intellettuale scomodo e polemico, assunto da Pasolini, dunque, si sviluppò esponenzialmente, spesso portando il nostro autore ad affermazioni considerate (e da Pasolini stesso ammesse) come fortemente contraddittorie: e a questo proposito vale rimandare al contenuto polemico delle sue interviste in trasmissioni del servizio pubblico, come quella per la rubrica “Sapere” del 1968, “Pasolini e il pubblico” del 1970, III B: facciamo l’appello del 1971 o “Italiani oggi  Controcampo” del 1974 (tutte conservate alla Cineteca della Rai a Roma) (6).
In questi interventi era chiaro che le riflessioni di Pasolini si concentrassero sui linguaggi e le forme del potere censorio che aveva dinanzi agli occhi.
Alla distanza di 40 anni dalla scomparsa del nostro autore, possiamo notare che il ruolo di Pasolini di critico della cultura e pedagogo delle masse era anche implacabilmente critico verso il popolo che sembrava difendere a spada tratta, e sappiamo che egli mantenne posizioni cripto-aristocratiche, per paradosso, con affermazioni che confermavano il concetto di élite intellettuale piuttosto che negarlo, in tal modo un po’ avvilendo la sincerità della sua dedicata indulgenza verso i contadini poveri e il proletariato urbano analfabeta.
Per il pubblico Pasolini fu, ed è “personaggio”, più che persona, artista eretico, affermatosi in ragione della potenza oppositiva delle sue proposte e delle sue visioni, attraverso l’uso sia della letteratura sia del cinema e del teatro, ma anche e soprattutto attraverso il contatto diretto con il suo pubblico su rubriche di scambio epistolare con i lettori su argomenti di interesse generale. Vale ricordare gli interventi per la rubrica il Caos, apparsi su “Il Tempo”, e gli Scritti corsari, pubblicati su “Il Corriere della Sera” eIl Mondo” dal 1973 al 1975.

Pasolini a lcentra tra Fernando Adornato e Valter Veltroni (1968)
Pasolini al centro tra Ferdinando Adornato, a sx,  e Valter Veltroni, a dx (1968)

Dopo l’uscita di Teorema, nel 1968, Pasolini inizia a farsi nemici anche tra i contestatori. Nota è la poesia Il Pci ai giovani!!, in cui, rivolgendosi con disprezzo agli studenti con il verso “Vi odio come odio i vostri papà” (16 giugno del 1968), attaccava loro insieme ai funzionari di partito, definendoli dei borghesi peggiori dei poveri poliziotti contro cui si scontravano nelle manifestazioni di piazza. Inaspettatamente, perfino il compagno poeta e intellettuale militante, Franco Fortini, gli si mise contro in questa occasione, contestando il suo radicalismo. I nemici di Pasolini crescevano a macchia d’olio proprio a causa di tali spiazzanti prese di posizione. Rimane aneddotica, nella biografia del nostro autore, la polemica pubblica intorno al suo scritto Il fascismo degli antifascisti, pubblicato sul “Corriere della Sera” il 16 luglio del 1974, un testo preso a spunto dagli avversari di Pasolini, diventati aspri e intolleranti censori verso la sua persona pubblica di agente provocatore.
Questa dramatis persona alla fine degli anni Sessanta si pone inequivocabilmente tra fama, infamia e scandalo. Alcuni tra noi, miei coetanei, hanno conoscenze pregresse della fama di Pasolini e, dunque, inevitabilmente anche della sua vicenda scandalistica. I più giovani in sala stanno avendo occasioni per conoscerne il messaggio grazie alle molte iniziative che sono in corso almeno da un decennio, ovvero dal trentennale dalla morte, iniziative volte a recuperare, celebrare e far conoscere la figura di questo intellettuale profetico, immerso mente e corpo nella sua epoca, tanto da costituire una delle testimonianze più attendibili del periodo dal dopoguerra in poi, del boom economico, delle trasformazioni delle città sotto i colpi della logica del capitale, degli inizi della protesta operaia e studentesca e del manifestarsi dei fenomeni di aggregazione terroristica.
Pasolini, dunque, procedeva dissociandosi sistematicamente dal tipo di sviluppo della modernità che criticava, di cui indicava il decadimento etico e culturale, tanto da ritenerla una nuova era di barbarie. Va da sé che sia la sua biografia, avvertita da molti come in contraddizione con il suo ruolo di intellettuale gramsciano, sia la sua produzione artistica, consentirono a Pasolini di acquisire quella che egli chiamò la sua grande contraddizione, essere dentro e fuori il lecito, l’imperativo morale, perché la morale borghese, tacciata di ipocrisia, si comprende nietzschianamente solo se la si attraversa nel bene e nel male e la si trascende, all’occasione, per capirne i risvolti.
Questa visione comprensiva emerge in tutti i film e i romanzi di Pasolini. Il male di vivere, l’angoscia del borghese che si desta alla sua nullità emerge nel soggetto del romanzo del 1968 Teorema, trasferito poi in sceneggiatura cinematografica. Il bene è nelle classi sociali subalterne ancora legate al senso della vita e non impedite nell’espressione vitale dalle redini della morale perbenista. E ne La ricotta come in Teorema Pasolini sostiene implicitamente che il Cristo tornerà di nuovo come uomo tra gli uomini.

La foto si riferisce all'intervista di Pasolini registrata  a Parigi il 31 ottobre 1975 per il programma televisivo "Dix de der" condotto da Philippe Bouvard su Antenne 2. Il giorno successivo, a Roma, Pasolini avrebbe rilasciato un’ultima intervista a Furio Colombo  per il supplemento letterario "Tuttilibri" del quotidiano "La Stampa".
La foto si riferisce all’intervista di Pasolini registrata a Parigi il 31 ottobre 1975 per il programma televisivo “Dix de der” condotto da Philippe Bouvard su Antenne 2. Il giorno successivo, a Roma, Pasolini avrebbe rilasciato un’ultima intervista a Furio Colombo per il supplemento letterario “Tuttilibri” del quotidiano “La Stampa”.

Fin qui spero sia chiaro che Pasolini considerasse la borghesia voltafaccia e voltagabbana, alleata con il Vaticano, senza più fede e rispetto per la vita dei poveri, e contraria alla lotta di classe, il vero male, lo scandalo della nostra nazione. Ma Pasolini si diceva e si autodenunciava anche come immerso dentro questo scandalo, come recita il noto verso “Lo scandalo del contraddirmi”, contenuto nella raccolta Le ceneri di Gramsci, dove scandaloso è il dimenarsi tra passione e intelletto, decadenza ed eticità, ratio e irrazionalità, realtà da rappresentare e denunciare, ma anche la necessità di accreditare la trascendenza dell’arte non asservita a nessuna patria, fede o ideologia. Meno del borghese angosciato dai suoi dilemmi si contraddice il popolo, ancora immerso nella sua logica e nei suoi rituali aggreganti del sacro, come emerge dall’apologia del personaggio di Stracci ne La ricotta.
Dove collocare Pasolini in termini dell’infratesto polemista e dissidente? Certamente tra Dante e Sade, Gramsci e Nietzsche – lo affermava egli stesso – e, cinematograficamente, dopo la Trilogia della Vita, tra Buñuel, Bergman e Godard, per i film di dissidenza e denuncia della cosiddetta “Trilogia della morte” incompiuta, che avrebbe dovuto includere, oltre a Salò o le 120 Giornate di Sodoma, il progetto filmico Porno-Teo-Kolossal.
Ma leggiamo le parole con cui Pasolini commenta il soggetto “incomprensibile” come “un mistero medioevale”di Salò, dove l’utopia si traduce nei rituali del massacro:

Il sesso che c’è nel mio film è il tipico sesso di De Sade, la cui caratteristica è esclusivamente sadomasochistica, in tutta l’atrocità dei suoi dettagli e delle sue situazioni. Nel film assume un significato particolare ed è la metafora di ciò che il potere fa del corpo umano, la mercificazione del corpo umano tipica del potere, di qualsiasi potere. E’ un film contro qualsiasi forma di potere e precisamente contro quella che io chiamo l’anarchia del potere, ed è per questo che ho scelto Salò e la Repubblica fascista di quel periodo, perché mai come in quel momento il potere è stato anarchico, arbitrario e gratuito, potendo fare qualsiasi cosa. […] Il potere manipola le coscienze, le trasforma nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono dei valori alienanti e falsi. Questa società capitalista borghese compie quello che Marx chiama il genocidio delle culture viventi.

Il soggetto di Salò, criticato da alcuni perché ritenuto ingiurioso verso i giovani, rappresentati come compartecipi della loro stessa persecuzione, effettivamente non si limita ad avere un’ angolazione antiestablishment. Questa sfiducia nella capacità di opposizione al potere dei giovani che li opprime ha una sua radice nella citata poesia che Pasolini scrisse contro gli studenti in protesta. In una tavola rotonda organizzata da “L’Espresso”, condotta da Nello Ajello, del 16 giugno 1968, a commento del testo Il Pci ai giovani!!, Pasolini ebbe a precisare:

Ho passato la vita a odiare i vecchi borghesi moralisti, e adesso, precocemente devo cominciare a odiare anche i loro figli… La borghesia si schiera sulle barricate contro sé stessa, i “figli di papà” si rivoltano contro i “papà”. La meta degli studenti non è più la Rivoluzione ma la guerra civile. Sono dei borghesi rimasti tali e quali come i loro padri, hanno un senso legalitario della vita, sono profondamente conformisti.

Vorrei a questo punto equilibrare questo mio ritratto ideologico del nostro autore, spendendo qualche parola sul suo lato più umano, fatto di compassione e benevolenza verso gli altri. Infatti, emerge con chiarezza dalla sua poesia, più che dalle sue interviste, che Pasolini non fu solo critico impietoso della borghesia ipocrita e arrivista, che non pose attenzione solo alle questioni inerenti al linguaggio delle classi al potere, ma si interessò con molta devozione antropologica anche al linguaggio del popolo, ai suoi valori, alla sua cultura e alla sua visone del mondo, che implicava un’attenzione alle sorti del sottoproletariato urbano e rurale, e questo è evidente a partire dalla sua produzione in versi, in dialetto friulano (Poesie a Casarsa, 1942, poi incluse nella raccolta La meglio gioventù), in cui si può rintracciare la genesi del suo ruolo di poeta e cineasta umanista, e marxista. Sociologia dei media, critica marxista della cultura di massa, esegesi biblica, cinema e poesia sono infatti input tutti presenti nell’opera di Pasolini, in una sintesi che prese la forma di ciò che definiamo oggi il suo “cinema di poesia”. Leggendo i testi inclusi ne La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa, Trasumanar e organizzar si possono certamente cogliere gli stretti collegamenti tra questi ambiti interrelati.
Per concludere il mio intervento con il tema di questo convegno (e di molti altri di questo quarantennale dalla morte) “La lezione di Pasolini”, l’enfasi cade sulla sua lezione di dissidenza, il suo coraggio di denuncia e, dunque, sulla sua eredità come intellettuale che si voleva maestro della ribellione allo status quo. Pasolini in un articolo, poi incluso nella raccolta di saggi, Lettere luterane, attaccò frontalmente i poteri del suo tempo:

I potenti democristiani che ci hanno governato in questi ultimi dieci anni, non hanno saputo neanche porsi il problema di tale «nuovo modo di produzione», di tale «nuovo potere» e di tale «nuova cultura», se non nei meandri del loro Palazzo di pazzi: e continuando a credere di servire il potere istituito clerico-fascista. Ciò li ha portati ai tragici scompensi che hanno ridotto il nostro paese in quello stato, che più volte ho paragonato alle macerie del 1945. È questo il vero reato politico di cui i potenti democristiani si sono resi colpevoli: e per cui meriterebbero di essere trascinati in un’aula di tribunale e processati.
(P.P. Pasolini, Lettere luterane, 1976)

Vale interrogarsi, infine, sulle ragioni per cui oggi tendiamo a vedere nei saggi e nei film in Pasolini il messaggio di un maestro ancora capace di darci delle lezioni di vita, arte, politica e analisi critica della società. La ipotesi non è semplicemente che, morta la generazione dei grandi intellettuali ed artisti del Novecento, in cui includiamo Fellini, Rossellini, Visconti, Antonioni, De Sica, Sanguineti, Fortini, Moravia, Vittorini, Calvino, interpreti dell’epoca che è il nostro fondamento storico, sociale ed antropologico, non ne siano subentrati degli altri per noi altrettanto validi o carismatici. Non è nemmeno ovviamente perché la storia ritorna con i suoi corsi e ricorsi, e quello che era grave ieri lo è ancora di più oggi, alla luce di un orrore che si ripropone, per cui si ripesca comodamente un corpus di testimonianze che ci sembrano tuttora valide e re-impiegabili. Io ho l’impressione che la nostra esigenza di riconoscere in Pasolini un pedagogo è indotta dalla nostra cultura cristiana, che sempre individua i segni della “elezione” in chi, come Pasolini, è, o è stato, oppositore e vittima del potere che perseguita i dissidenti e ne pianifica il martirio. E qui mi riferisco al complesso dei poteri che dovrebbero garantire equità, senso della realtà, giustizia, e non esercitare oppressione ed abuso, come ha evidenziato Michel Foucault in Sorvegliare e punire. La nascita della prigione (Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975).
Pasolini ha lasciato di sé questa immagine di un eroe umano, troppo umano, vittima non vittima, che ha fatto dello scandalo il suo vessillo di intellettuale “corsaro”, che ci fa sentire vicini alla sua causa, un intellettuale perseguitato in ragione della sua verità e della sua empatia verso il popolo ignaro, incolto, oppresso. Un intellettuale, certo, in balia anche dello scandalo del contraddirsi, scandalo che lo mise in croce e dunque anche lo iconizzò.
Il 2 novembre del 1975 si concluse violentemente la vicenda artistica e umana di Pasolini, contrassegnata da fama scandalistica e mito, per i quali fu forse “punito” come atto di estrema censura da parte di quel fascismo squadrista, insito nell’italianità, che era il suo primo e costante bersaglio. Si concluse, questa vicenda, il mese dopo avere ultimato Salò e intanto che licenziava per la stampa il testo de La Divina Mimesis. Nel suo ultimo discorso, scritto prima di essere assassinato e indirizzato agli organizzatori del 15.mo Congresso del Partito radicale, il nostro autore lasciò la sua eredità di artista e di intellettuale militante:

Contro tutto questo voi non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare;a bestemmiare (7).

NB
Il saggio è tratto dal contenuto di ricerca del Capitolo 7 della tesi di dottorato Ph.D., Erminia Passannanti,  Italian Cinema and Censorship, Brunel University, London, England, UK
©passannanti, 2013

Note
1 – Alfredo Baldi, Schermi proibiti. La censura in Italia 1947 – 1988, Marsilio, Biblioteca  di Bianco e Nero, Venezia 2003, p. 35.
2 – Scena da P.P.Pasolini, La ricotta, in  Ro.Go.Pa.G. ( 1963) /  https://www.youtube.com/watch?v=nJ35Q8X6xDk.
3 – Si veda la mia monografia su Salò di Pasolini: Erminia Passannanti, Il corpo e il potere. Salò o le 120 giornate di Sodoma (Troubador, 2004; sec. edizione, Joker, 2008).
4 – Sul soggetto di Pasolini e la censura di stato e clericale, di cui tratto in questo saggio, si veda la mia monografia: Erminia Passannanti, Italian Cinema and Censorship by Religion, capitolo 7, tesi di dottorato di ricerca in “Social Sciences and Media Communications”, Brunel University, London, 2013.
5 –Si veda Roberto Chiesi (a cura di), Cronaca di una persecuzione annunciata. Salò e la censura, in  Salò o le 120 giornate di Sodoma, cofanetto Dvd/libro, Edizioni Cineteca di Bologna, 2015.
6 – Si veda al riguardo Angela Felice (a cura di), Pasolini e la televisione, Marsilio, Venezia 2011.
7 – L’intervento, preparato da Pasolini e  letto il 4 novembre 1975 al Congresso del Partito radicale, uscì poi come testo conclusivo di Lettere luterane.

[info_box title=”Erminia Passannanti” image=”” animate=””] (Ph.D., UCL; Ph.D. Brunel University, Uk), Ph.D. in “Italian Studies”, University College London, 2004; Ph.D. in “Social Sciences and Media Communications”, 2014, Brunel University, London[/info_box]