Pier Paolo Pasolini autonomista, di Gianfranco Ellero

Pier Paolo Pasolini autonomista, di Gianfranco Ellero

 L’impegno autonomista nel primo dopoguerra friulano è un capitolo poco noto della biografia di  Pier Paolo Pasolini, che invece, anche in quel campo, si distinse per originalità e piglio militante, contribuendo a quel movimento in termini sia concettuali che direttamente operativi. Ne traccia un agile profilo lo storico udinese Gianfranco Ellero, che ci autorizza a pubblicare gli appunti della relazione tenuta a Trieste su questo tema il 12 settembre 2014 nella Sala Tessitori del Consiglio Regionale.

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Premessa

È davvero emozionante parlare di Pasolini autonomista nella Sala Tessitori del Consiglio Regionale, perché significa andare alle origini di un progetto del 1945, chiamato allora Regione Friuli, che sta anche all’origine della Regione Friuli Venezia Giulia. Pasolini divenne autonomista attraverso la lingua e la poesia: potremmo dire, in termini marxiani, attraverso la sovrastruttura, per toccare infine la storia di una regione fondamentalmente contadina (la struttura). Come vedremo, in Pasolini tout se tient: qualunque sia la faccia del diamante che noi guardiamo, è sempre la stessa luce che ci colpisce.

La scoperta del friulano

Fino ai suoi diciotto anni il friulano rimane, per Pasolini, soltanto un valore del piccolo mondo nativo di Susanna Colussi, la madre, che però parla in italiano con il padre, aristocratico e militare di fede fascista.  Il friulano fu quindi per Pasolini una lingua che può essere definita “materna” soltanto perché apparteneva al patrimonio culturale della madre, non perché dalla stessa lo avesse imparato fin dalla prima infanzia.  Il friulano lo imparò dalle classi più umili, non in famiglia; ma la scintilla poetica si sprigionò improvvisa quando intuì che quella piccola lingua contadina e cristiana era anche “una lingua pura di poesia”.

“In una mattinata dell’estate 1941 – scrisse in Empirismo eretico– io stavo sul poggiolo esterno di legno della casa di mia madre. Il sole dolce e forte del Friuli batteva su tutto quel caro materiale rustico (…) io, su quel poggiolo, o stavo disegnando (con dell’inchiostro verde, o col tubetto dell’ocra dei colori a olio su cellophane), oppure scrivevo versi. Quando risuonò la parola ROSADA.  Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada, i Socolari, a parlare.  Proprio un contadino di quelle parti …  Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e soltanto un suono.  Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo mi interruppi subito: questo fa parte  del ricordo allucinatorio. E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola ROSADA …”.

 (Si noti, en passant, che la resa grafica della parola “rosada”, operazione a prima vista facilissima con l’uso dell’alfabeto latino, presenta comunque un problema: come pronunceranno i lettori la “s” intermedia? Come nel sostantivo “rosa” o come nell’aggettivo “rossa”?).

Il friulano come lingua di poesia

Il friulano casarsese, con il femminile in -a, che fino al 1941 era una lingua proibita in famiglia e a scuola, ma ben udibile durante le vacanze estive, gli apparve improvvisamente come l’ottone che si trasforma in oro! E quel giovane studente universitario diciannovenne decise di scrivere poesie in friulano nell’Italia fascista! Scegliendo il friulano per scrivere le liriche di Poesie a Casarsa, la sua opera prima, Pier Paolo Pasolini si pose in controtendenza rispetto a molti mondi concentrici.

Andò, innanzi tutto,  contro il regime fascista, che per ideologia e prassi disprezzava i dialetti della penisola e le lingue straniere;  contro la sua famiglia, nella quale il padre Carlo Alberto, nobile di Ravenna, imponeva lo stretto italiano a Susanna Colussi, sua moglie, e ai due figli; contro la cultura dell’Università, la cultura ufficiale e codificata; contro i letterati di lingua italiana, che fin dal Cinquecento guardavano dall’alto al basso i “dialettali”, e contro i letterati di espressione friulana, che della loro piccola lingua facevano un uso prevalentemente vernacolo; e, più tardi, contro gli stessi regionalisti friulani, perché Pasolini chiedeva l’autonomia regionale per ragioni essenzialmente glottologiche (“non c’è nulla di più scientifico della glottologia”, scrisse), quindi non per affari o posti da occupare; e, ancora più tardi, contro la sinistra italiana, che si opponeva all’autonomia del Friuli.

Dando quindi alle stampe nel luglio del 1942 un esile libretto in trecento copie numerate, Pasolini compì un atto davvero rivoluzionario, che passò naturalmente inosservato, perché altri erano i problemi degni di attenzione in quel terzo anno di guerra. Pur essendo stato pubblicato in un momento particolarmente difficile, in piena guerra, il volumetto contenente le quattordici Poesie a Casarsa, diffuso dall’autore con felice scelta dei corrispondenti, attirò l’interesse di critici d’eccezione. Il più celebre fra essi, Gianfranco Contini, scrisse una recensione, pubblicata in Svizzera, sul “Corriere del Ticino” del 24 aprile 1943, che fu per Pasolini la corona d’alloro. Ecco l’incipit:

“Sembrerebbe un poeta dialettale, a prima vista, questo Pier Paolo Pasolini, per queste sue friulane “Poesie a Casarsa” (Bologna, Libreria Antiquaria Mario Landi), un librettino di neppur cinquanta pagine, compresa la non bella traduzione letterale che di quelle pagine occupa la metà inferiore. E tuttavia, se si ha indulgenza al gusto degli estremi e alla sensibilità del limite, in questo fascicoletto si scorgerà la prima accessione della letteratura “dialettale” all’aura della poesia d’oggi, e pertanto una modificazione in profondità di quell’attributo (…)”.

Contini capisce che Pasolini usa il friulano non come un dialetto, bensì come una lingua, e lo incorona poeta, per così dire, per quelle quattordici poesie in friulano, non per una raccolta in italiano!

La “piccola patria” come rifugio

La guerra nel frattempo continua, e coinvolge il giovane Pasolini per molte ragioni specifiche, che si aggiunsero naturalmente a quella di esservi immerso in quanto appartenente a una società direttamente belligerante. C’era, innanzi tutto, il padre, Carlo Alberto, ufficiale in Africa orientale, decorato e poi prigioniero degli inglesi. C’erano i suoi vent’anni, compiuti il 5 marzo 1942, che facevano di lui un maschio abile al servizio militare, sicché ai primi di luglio di quello stesso anno fu chiamato al campo di addestramento di Porretta Terme, per seguire un corso di tre settimane per allievi ufficiali. Ai primi di agosto con la madre e il fratello Guido si trasferisce a Casarsa: non per villeggiatura, come nelle estati dell’infanzia e dell’adolescenza, bensì per cercare un’esistenza più tranquilla e meno condizionata dai pericoli potenziali o reali del conflitto, che incombevano più sulle città che sui paesi di campagna. I soggiorni casarsesi nelle estati del 1941 e del 1942 avevano avuto l’effetto di far nascere in Pasolini uno sviscerato amore non solo per la “piccola patria” storico-linguistica, ma anche per quella concreta e viva minacciata dalla guerra nella sua esistenza e integrità, della quale si sentiva sempre più figlio.

Possiamo dire, in conclusione, che l’operazione poetico-filologica delle Poesie a Casarsa fece nascere in Pasolini l’autonomismo politico nell’estate del 1943.

In luglio, secondo la testimonianza di uno dei suoi più cari amici, Cesare Bortotto, preparò un appello da inviare ai podestà dei nostri Comuni per l’autonomia e la salvezza del Friuli, che poi non fu spedito perché cadde il fascismo e ci fu un breve intermezzo di ansiosa libertà.

E siccome, disse Badoglio, “la guerra continua”, Pasolini fu chiamato alle armi in agosto. Il primo di settembre è a Pisa, per frequentare il corso allievi ufficiali di complemento con il grado di caporale maggiore. L’8 settembre è a Livorno, dove il suo reparto, dopo un accenno di resistenza, viene catturato dai tedeschi. Pier Paolo e un suo compagno, approfittando del trambusto suscitato da un mitragliamento, si buttano in un fosso, dal quale riemergono dopo il passaggio della colonna dei prigionieri italiani, fuggendo poi a piedi per molti chilometri. Si rifugia infine a Casarsa, dove arriva rocambolescamente il 9 settembre.

La lingua come segno di autonomia

Ma dopo l’8 settembre 1943 non fu più possibile parlare di autonomia del Friuli perché si rischiava di avvalorare l’annessione al Reich del cosiddetto Adriatisches Küstenland: la fiamma della friulanità poteva essere tenuta accesa soltanto nelle file della Resistenza, dai reparti che combattevano “Pai nestris fogolârs”, e attorno alla “lum” della Filologica, che ardeva fin dal 1919. Ma se non era più possibile coltivare la lingua per creare la coscienza autonomistica, si poteva certo studiarla e alimentarla in senso letterario, e Pasolini, nell’aprile del 1944, creò lo “Stroligut di ca da l’aga”, seguito da un secondo fascicolo nell’agosto dello stesso anno. A guerra finita diede vita allo “Stroligut” n. 1 nel 1945, al n. 2 nel 1946 e, infine, al “Quaderno romanzo” nel 1947. L’ideologia di fondo che presiede alla compilazione di queste preziose rivistine è meravigliosamente espressa in un brano profetico, che inizia con le parole A vegnarà ben il dì che il Friùl si inecuarzarà di vei na storia, un passat, na tradision!  e termina con la famosa affermazione:  fevelà Furlan a voul disi fevelà Latin.

Eccolo, in traduzione:

“Verrà bene il giorno in cui il Friuli sarà cosciente di avere una storia, un passato, una tradizione! Intanto, paesani, persuadetevi di una cosa: il nostro dialetto friulano non ha nulla da invidiare a quello di Udine, di San Daniele o di Cividale […], nessuno è vero lo ha mai adoperato per scrivere, per esprimersi, per cantare; ma non possiamo pensare, per questo, che debba per sempre rimanere sotterrato nei vostri focolari, nei vostri campi, nei vostri stomaci. Quello al di là del fiume [il Tagliamento, l’acqua per eccellenza] non può vantarsi, a confronto con il nostro, di essere lingua, non dialetto, proprio perché, come dicevo, non ha mai prodotto un  grande scrittore. Tutte le parlate friulane, al di qua e al di là del fiume, dei monti e del piano, aspettano la stessa storia, aspettano che i Friulani si accorgano veramente di loro e le onorino come sono degne: parlare Friulano vuol dire parlare Latino”.

Pasolini con i suoi allievi
Pasolini con i suoi allievi
Academiuta di lenga furlana

La guerra, che ha costretto Pasolini a Versuta e tanti ragazzini del vicinato a non frequentare la scuola elementare o media per paura dei bombardamenti, ha creato le condizioni per la nascita di una scuola molto singolare. Pasolini e sua madre, infatti, fanno lezione ai ragazzini del vicinato, e  così Pier Paolo può scoprire le capacità poetiche dei giovanissimi parlanti in friulano: basta spiegare che cosa s’intenda per “poesia”, leggendo Pascoli, Ungaretti, Montale per distoglierli dalla tradizione zoruttiana.

Nacque allora l’idea di una piccola scuola di lingua e poesia, denominata Academiuta di lenga furlana, fondata a Versuta il 18 febbraio 1945, che assunse come simbolo un cespo di dolcetta o “ardilut”, come motto il broccardo “O cristian furlanut plen di vecia salut” e come lingua il friulano occidentale, in evidente contrapposizione alla Filologica e ai poeti della cosiddetta koinè.

“La nostra lingua poetica – scrisse nel manifesto pubblicato sullo “Stroligut” dell’agosto 1945 – è il Friulano occidentale, finora unicamente parlato; la terminazione del femminile in –a, certe influenze venete, lo differenziano da quella che si potrebbe considerare la “lingua” friulana se i suoi poeti non fossero soltanto dialettali. Nel nostro Friulano noi troviamo una vivezza, e una nudità, e una cristianità che possono riscattarlo dalla sua sconfortante preistoria poetica. Alle nostre fantasie letterarie è tuttavia necessaria una tradizione non unicamente orale. E questa non potrà essere la tradizione friulana, che, se ha qualche discreto poeta, è poi tutta vernacola, soprattutto nell’ottocento con la borghese “muse matarane” di Zorut. La nostra vera tradizione, dunque, andremo a cercarla là dove la storia sconsolante del Friuli l’ha disseccata, cioè il trecento. Quivi troveremo poco friulano [Piruz mio doz, Biello dumlo di valor…], ma tutta una tradizione romanza, donde doveva nascere quella friulana, che invece è rimasta sterile. Infine, la tradizione che naturalmente dovremo proseguire si trova nell’odierna letteratura francese ed italiana, che pare giunta ad un punto di estrema consunzione di quelle lingue; mentre la nostra può ancora contare su tutta la sua rustica e cristiana purezza”.

La tragedia di Porzùs

Proprio nel febbraio del 1945, a Porzùs e nel Bosco Romagno si stava consumando l’eccidio di partigiani osovani per mano di partigiani comunisti.Uno degli assassinati fu Guido Pasolini, accorso in aiuto dei compagni. Alla memoria del suo gesto il fratello  Pier Paolo dedicò versi appassionati: “(Ecco sulla porta Enea,/ Bolla, i mitra  appoggiati…/ Mi sporgo/ e guardo la china/ per dove ora è un anno/ Guido veniva quassù…)/ Guido, non salire./ Non ricordi più il tuo nome?/ Ermes, ritorna indietro,/ davanti c’è Porzus contro il cielo,/ ma voltati, e alle tue spalle/ vedrai la pianura tiepida di luci,/ tua madre lieta, i tuoi libri…/ Ermes ahi non salire/ spezza i passi che ti portano in alto,/ a Musi c’è la via del ritorno,/ a Porzus non c’è che azzurro”.

La tragedia di Porzùs causò non soltanto un immenso, opprimente dolore in Pier Paolo e nei suoi genitori, ma fu uno dei punti d’incomprensione e di attrito fra lo stesso Pier Paolo e il Partito Comunista Italiano, federazione di Udine, al quale si era iscritto nel 1946.

Scrisse su “Il Mattino del Popolo” l’8 febbraio 1948:

“I miei compagni comunisti farebbero bene, io credo, ad accettare la responsabilità, a prepararsi a scontare, dato che questo è l’unico modo per cancellare quella macchia rossa di sangue che è ben visibile sul rosso della loro bandiera … […]”.

Un militante così lucido nelle analisi e nelle accuse era sicuramente scomodo, talvolta imbarazzante, e dopo lo scandalo di Ramuscello nel 1949 il PCI non si lasciò sfuggire l’occasione per espellerlo.

L’estate del 1945

Nell’estate del ’45  Pasolini, pur oppresso dal dolore per l’assassinio del fratello a Porzùs, si dedicò alla preparazione de “Il Stroligut” n.1, che conteneva il manifesto di fondazione dell’ “Academiuta di lenga furlana”. Pasolini, attento lettore di “Libertà”, il quotidiano del Comitato di Liberazione Nazionale, fu colto probabilmente di sorpresa dai tre articoli di Tiziano Tessitori del 12, 13 e 14 luglio 1945, intitolati L’Autonomia regionale ed il Friuli, e all’ultimo momento (si ricordi che lo “Stroligut del 1945 è datato agosto) decise di aggiungere una nota, molto importante, al manifesto dell’ “Academiuta:

“Insieme al nostro disinteressatissimo e deciso amore per l’Italia, dichiariamo subito apertamente la nostra tendenza ad una parziale, o piuttosto ideale, autonomia della Piccola Patria. Intanto se non altro i nomi delle famiglie e dei luoghi friulani, dovrebbero tornare friulani”.

A noi, questa, sembra una risposta in tempo reale ai tre articoli pubblicati su “Libertà”, e anche alla nascita dell’ Associazione per l’autonomia regionale, fondata da Tessitori nell’osteria “Alla buona vite” (in via Treppo) di Udine il 29 luglio 1945.

Il Congresso della Filologica a San Daniele

Quello che si celebrò il 21 ottobre 1945 a  San Daniele, il primo dopo sette anni (il precedente era avvenuto a Palmanova nel 1938), fu  il Congresso che segnò l’ingresso di  Pier Paolo Pasolini nel Consiglio direttivo della Filologica (alla quale si era iscritto nel 1943), sicuramente su proposta di Ercole Carletti,  primo recensore in Italia della raccolta di  Poesie a Casarsa.

Durante il “gustà in companie” nella taverna del Teatro “Ciconi”, Pasolini  poté aggirarsi fra i tavoli a vendere i suoi “stroligùs”, che suscitarono nei più sorpresa e interesse. E Chino Ermacora lo additò, dicendo ad alta voce: “Guardatelo bene, perché quel giovane sarà un grande personaggio!”.

È certo che Tessitori, con il discorso tenuto ai congressisti, riuscì ad attirare Pasolini (che, come sappiamo, aveva già manifestato su “Il Stroligut” il suo autonomismo). Il giovane poeta casarsese si iscrisse, infatti, all’Associazione per l’autonomia friulana  il 30 ottobre 1945, e il 16 dicembre firmò la scheda di adesione dell’ “Academiuta di lenga furlana!

“Di bessoi” (da soli) o con il Veneto?

Tessitori era sicuro, dopo la sua elezione alla Costituente, che la riforma regionalista dello stato era certa e che il Friuli aveva molte probabilità di essere riconosciuto come ente regionale. Ma fra ottobre e novembre rialzarono in Friuli la testa i nemici dell’autonomia, ai quali Tessitori rispose in modo lapidario dalla pagine di “Libertà” il 24 novembre 1946; e a complicare le cose il 30 ottobre si aggiunse un ordine del giorno dei partiti di Pordenone, i quali auspicavano “la creazione di una regione veneta che comprenda tutte le terre e genti da Gorizia a Rovigo”.  Straordinaria fu la risposta di Pasolini su “Libertà” del 6 novembre 1946. Rileggiamola integralmente, con grande attenzione: negò che i pordenonesi fossero autentici friulani e il loro diritto a parlare a nome dei veri friulani della Destra Tagliamento. Perché? Perché non parlavano friulano.

 “Ora, tutto questo discorso può sembrare per lo meno insensato ai dirigenti dei Partiti pordenonesi,  (Sull’autonomia friulana, “Libertà” del 2 novembre); ma io li prego di credere che non si tratta di astrattezze: non c’è nulla di più scientifico della glottologia”.

Il Movimento Popolare Friulano

 Il 15 dicembre 1946, per le edizioni della Camera di Commercio di Udine,  fu stampato un opuscolo di un centinaio di pagine, intitolato “La Regione del Friuli”, che accoglieva i contributi di un folto gruppo di studiosi costituitisi in comitato sotto gli auspici della Società Filologica Friulana subito dopo il Congresso di Spilimbergo. Numerosi e illustri i nomi, e fra essi c’è quello del prof. Pier Paolo Pasolini, che insegnava nella Scuola media di Valvasone.  Non sappiamo quale possa essere stato il contributo di Pasolini, perché il suo nome non figura in calce a alcuno dei saggi contenuti nel volumetto.

 L’opuscolo ottenne l’effetto sperato fra i membri della II Sottocommissione, ai quali fu prontamente recapitato: nella seduta del 18 dicembre essi decisero 17 a 10 (contrari socialisti e comunisti) di concedere al Friuli l’autonomia regionale, con Udine capitale. La regione, senza il Mandamento di Portogruaro, doveva tuttavia accogliere le terre non friulane assegnate all’Italia dal trattato di pace, e per questo l’onorevole Uberti propose di chiamarla Friuli-Venezia Giulia. Ma per il voto della Sottocommissione la Regione fu chiamata “Giulio-Friulana” denominazione che, scrisse Pasolini su “Libertà” il 26 gennaio 1947, “è veramente di pessimo gusto, se non altro linguistico”!

La formula, ambigua e insoddisfacente, lasciava comunque aperta la questione dello statuto, cioè, in pratica, la risposta alla domanda: “Quale (e quanta) autonomia?”.

Gli autonomisti più trepidi avvertivano la necessità di dare sostegno all’idea autonomistica affiancando alla languente associazione di Tessitori un movimento organizzato anche sul territorio, e così nacque nei primi giorni del 1947 il  “Movimento popolare friulano per l’autonomia regionale”. Pasolini, pur essendo vicino al Partito Comunista fin dal 1946, secondo la testimonianza di suo cugino Nico Naldini, fu uno dei fondatori, con Luigi Ciceri, Gianfranco D’Aronco, Chino Ermacora e pochi altri.

L’antiautonomismo comunista

Pasolini, come spesso gli capitò nella vita, si trovò a essere all’opposizione negli stessi gruppi in cui sceglieva di militare: nella Filologica per il vernacolismo zoruttiano; nell’Associazione di Tessitori perché non dava sufficiente importanza alla glottologia; nel Partito Comunista Italiano perché era contrario all’autonomia regionale friulana. Ciò dipendeva sicuramente dalle sue superiori capacità dialettiche e critiche, e vale certo la pena di soffermarsi a rileggere un brano illuminante.

 Ecco quanto scrisse su “Il Mattino del Popolo” il 28 febbraio 1948 in prima pagina:

 “… io volevo dare alla questione in carattere antiprovinciale, antinazionalistico e tutto logico e funzionale, osservandolo dall’angolo visuale della Sinistra; e proprio non capivo come mai comunisti e socialisti fossero così sordi al problema […]. A me sembrava però che il fatto che la D.C. fosse autonomista non fosse una ragione sufficiente per essere antiautonomisti, e che se proprio era necessario contrapporsi alla D.C. questo doveva essere fatto sul piano dell’autonomia, col portare una diversa interpretazione dello stesso concetto. Tanto più che era estremamente prevedibile che gli autonomisti avrebbero avuto partita vinta alla Costituente”.

“Il Stroligut” – agosto 1945
“Il Stroligut” – agosto 1945
Il friulano come lingua politica

I partiti italiani adoperavano sempre e soltanto l’italiano nelle loro pubblicazioni, nei comizi, nella propaganda, nelle polemiche, anche quando si rivolgevano a persone, soprattutto nei paesi, che conoscevano soltanto il friulano, e gli autonomisti si comportavano allo stesso modo.  Contro un simile andazzo reagì don Giuseppe Marchetti, che nel febbraio 1946 fondò il settimanale “Patrie dal Friûl”, scritto integralmente in friulano.

Anche Pasolini  iniziò a usare il friulano per una corrosiva critica politica e sociale su manifesti scritti a mano, che affiggeva sotto la loggia di San Giovanni di Casarsa. Accadeva così che i fedeli, all’uscita dalla messa della domenica, potevano leggere una contropredica, scritta nella loro stessa parlata.

 Questo il testo de “Il Diaul e l’aga santa”:

“A disin che il Diaul al s’ciampi da l’aga santa. Pobèn, alora a voul disi che nualtris comunis’c i no zin tant d’acordu cul Diaul se quant ch’a ni àn batiàs i no sin s’ciampàs al Infier. I sin restàs ta chistu mond, magari cussì no, e ades i procuran di imparà e di insegnaighi a chei altris a menà il mus pa la glas.”

[Trad: Il diavolo e l’acqua santa. Dicono che il Diavolo fugga dall’acqua santa. Bene, allora vuol dire che noi comunisti non andiamo tanto d’accordo col Diavolo se, quando ci hanno battezzati, non siamo fuggiti all’Inferno. Siamo rimasti in questo mondo, purtroppo, e ora cerchiamo di imparare e di insegnare agli altri a condurre l’asino sul ghiaccio.]

Ed ecco, per concludere, “La cuarduta dal bo”:

“Un al passava pa la strada e al à jodut un contadin ch’al menava un bo cu na pissula cuarduta, e al è fermàt a domandaighi: “Sint, se il bo al fos a conosensa da la so fuarsa, i podaressistu menalu al masèl cu na pissula cuarduta?” – “No di sigur!”. “Ben, cussì nualtris puarès: i sin coma il bo, i vin na gran fuarsa e a ni menin cu na cuarduta al masèl”.

[Trad: La cordicella del bue. Uno passava per la strada e vide un contadino che portava un bue con una piccola corda, e si è fermato a chiedergli: “Senti, se il bue conoscesse la sua forza, potresti portarlo al macello con una piccola corda?”- “No certamente!”. “Bene, così è per noi poveretti: siamo come il bue, abbiamo una grande forza e ci portano con una cordicella al macello”.]

 Erano, queste, le controprediche di un comunista che si muoveva in una maggioranza cattolica. E rapide crebbero la sua popolarità e la sua carriera: iscritto al Partito Comunista nel 1947, nel 1948 divenne segretario della Sezione di San Giovanni di Casarsa; nel 1949 fu relatore al primo Congresso della Federazione comunista di Pordenone e nel maggio dello stesso anno fu delegato del PCI al Congresso della Pace a Parigi. La conversione al comunismo non impedisce all’intellettuale borghese di continuare a battersi per l’autonomia regionale friulana. Egli è anzi convinto che l’autonomia regionale del Friuli acquista la sua giusta dimensione solo se osservata “dall’angolo visuale della Sinistra”.E in un esemplare saggio intitolato Il Friuli autonomo, scrisse:

“Il Friuli è sul punto, ora, di passare dall’essere al dover essere; e questo senza tradire la sua naturalezza, (la naturalezza, per intenderci, dei gelsi, delle acque), senza rifiutarsi alla sua imperfezione vitale”.

Il friulano, la lingua della libertà e dell’autonomia

 Pasolini concluse la sua esperienza di autonomista teorico e militante nei primi mesi del 1948.  Due furono gli eventi del 1949: la pubblicazione di Dov’è la mia patria, una raccolta di poesie in dodici varietà friulane e venete, e lo scandalo di Ramuscello.

Il libretto, illustrato con disegni di Giuseppe Zigaina, è davvero straordinario, perché definisce la “patria” in senso glottologico, appunto. Lo scandalo di Ramuscello scatenò una vera catastrofe: “… allontanato dalla scuola e dall’affetto dei suoi allievi, – scrive il cugino Nico Naldini – espulso dal PCI in seno al quale aveva iniziato una carriera di militante tra le più promettenti; emarginato dalla cultura regionale, che per anni si era appassionato a provocare con l’ambizione di divenirne la guida”,  il 28 gennaio 1950, assieme alla madre, prese il treno per Roma per un distacco definitivo, cantato nello straziante Conzeit:

“Romai essi lontàns a val,/ Friùl, essi scunussùs. A par/ il timp dal nustri amòur un mar/ lustri e muart./ In ta la lus la to part/ a è finida, no ài scur tal sen/ par tignì la to ombrena.”

 Sembravano recisi, nei primi anni Cinquanta, anche gli amorosi legami con la lingua friulana, ma, quando nel 1953 Luigi Ciceri pubblicò a Tricesimo Tal còur di un frut, e nel 1954 uscì per Sansoni  a Firenze La meglio gioventù, tutti capirono che Pasolini era ormai indelebilmente friulano. Vennero poi i “Quadri friulani” ne Le ceneri di Gramsci (1957), Il sogno di una cosa (1962) e le Poesie dimenticate, ancora concesse a Ciceri per le edizioni della Società Filologica Friulana (1965).  Sembrò allora che Pasolini avesse esaurito le perle dello scrigno. Ma improvvisamente il friulano, nei foschi “anni di piombo”, gli riapparve come la lingua dell’autonomia di pensiero e della libertà espressiva, e colse in contropiede l’intera Italia “pensante” pubblicando su “La Stampa” del 16 dicembre 1973 la poesia  Agli studenti greci, in un fiato: i primi ventisei versi in friulano, i rimanenti ventidue in italiano. Era la prima delle poesie “italo-friulane”, raccolte poi in Tetro entusiasmo, che contengono messaggi profetici in lingue antiche.

Ecco un passo de La recessione:

“Li pìssulis fabrichis tal pì bièl/ di un prat verd ta la curva/ di un flun, tal còur di un veciu/ bosc di roris, a si sdrumaràn// un puc par sera, murèt par murèt/ lamiera par lamiera”.

 Nel 1975 Einaudi pubblicò La nuova gioventù, il suo canto del cigno. Oggi, riguardando la sua straordinaria esistenza, si può ben comprendere il giudizio espresso da Franco Brevini, il quale scrisse che non si può comprendere Pasolini senza conoscere il suo apprendistato friulano.