Periferie di città e di vita, di Paolo Coretti

Immancabile il riferimento a Pasolini, quando si parla delle periferie delle città, grumi  di umanità viva, imperfetta, disordinata e libera. O anche luoghi non borghesi di accoglienza al femminile, come dice l’architetto udinese Paolo Coretti, che in periferia e nato e chi di periferia è intriso. Ne pubblichiamo un toccante scritto, che forse sarebbe piaciuto a Pasolini, cantore innamorato di borgate polverose, povere, affaticate e vitali.

 di  Paolo Coretti
www.ilquotidianofvg.it – 11 dicembre 2014

 

 

A me piace la periferia. Perché è una parte di città al femminile.
Certo, è figlia del centro, ma del centro non condivide che poche cose e, soprattutto, non ne apprezza la rozza e autoritaria mascolinità. Qualsiasi centro, infatti, appesantito sempre più di frequente dall’aggettivo storico, è statico. Tutt’al più è impegnato nella conservazione dei propri paesaggi. Ingessato nel moralistico rispetto della storia ad ogni costo. E’ privo di qualsiasi voglia di trasformare e di trasformarsi. Impaurito da tutte quelle novità che potrebbero ridurre la sua capacità attrattiva. Che potrebbero intaccare quel catalogo di ricordi che costituiscono il suo carattere primario: le medaglie, più o meno meritate, cucite sulla sua ormai logora giacca. Qualsiasi centro, poi, è vecchio e, come tutti i vecchi, viene protetto dal dinamismo rotante dei mezzi meccanici, dal frastuono delle musiche ribelli, dai gesti – solo apparentemente insensati – delle architetture gridate e dissonanti. E’ sterile. Perché non ha figli che si rincorrono lungo le proprie strade. Non ha gente che mangia, che ride e fa l’amore dietro le finestre delle sue case. Non ha luce né stelle per orientare il rientro degli ubriachi, stanchi di vino, di sole e di lavoro.Il centro è falso, perché si imbelletta in modo ruffiano ma limita i suoi trucchi alle sole facciate e nasconde i malanni e i peccati negli umidi recessi dei deserti cortili.
Ed è anche borghese. Quante volte abbiamo sentito illustrare con pompa la goffa teoria sulla necessità di trasformare la piazza dei mercati contadini in un nuovo salotto! Nel salotto di una gigantesca casa senza cucina, in una scena di improbabili orgiastiche sagre dal copione monotono e consumato, con un proclama teso a rinvigorire una realtà che non c’è e che, forse, non è mai esistita.
Mi piace la periferia perché è il contrario di tutte queste cose. Perché è giovane. Incerta. Spesso senza riferimenti che non siano il vivere e il generarsi. Perché è ruvida e antipatica come un adolescente, quando si esprime con i suoi edifici imperfetti e disubbidienti. Ma anche tenera e dolce nell’occupare timidamente gli spazi tra i campi ed è commovente quando con i suoi poveri muri – per fortuna ancora privi di storia – è capace di far sognare la gente ed è capace di dare loro una speranza di una vita civile, moderna e felice.
Mi piace la periferia perché è madre. Perché ospita tutti. Perché odora ancora di cibo e di domestici richiami. Perché la domenica non muore di noiosa stanchezza ma frigge di vita nei campetti di calcio rimediati tra i condomini, negli orti coltivati in memoria del lavoro nella campagna, nei cortili bagnati dallo shampoo per le autovetture, sui sagrati e nei baretti dove si amoreggia prima di sfrecciare via verso un’altra città con chiassosissime e contente motociclette.
Mi piace la periferia anche per i nomi con i quali distingue le sue strade. Perché, non barbosissimi come quelli delle strade del centro, alludono ad altri luoghi. A volte luoghi di altri continenti, ma anche a fiori, a montagne, a itinerari e a direzioni immaginarie, che lasciano spesso la porta aperta al sogno.
Mi piace la periferia per la sua architettura, più libera di esprimersi di tantissime altre, perché i padroni del piano hanno fissato per lei gabbie meno feroci e maggiori gradi di libertà. Perché è sempre possibile correggere le cose fatte, sostituirle a mano a mano che invecchiano e che diventano stonate, raddensarle e diradarle,magari aggiornandole, cambiandone i caratteri, gli stili espressivi, le forme e i colori. Perché le costruzioni, tutte diverse e tra loro giustapposte in un ingenuo disordine, costituiscono una sorta di nuovo e speciale concetto di armonia e di equilibrio. Ma anche perché, in periferia,convivono tutti i gangli dell’organismo città: la città per vivere e per lavorare. La città della salute ma anche quella del culto dei morti, la città delle attività sportive e quella dello studio.

Pasolini durante le riprese di "Accattone" (1961)
Pasolini durante le riprese di “Accattone” (1961)

Mi piace la periferia quando viene raccontata. Mi piace quando Sironi la rappresenta immobile e quasi monumentale e nello stesso tempo plastica, dinamica e misteriosamente compressa.Quando Pasolini ne descrive la parte proletaria e muscolare, dando onore e dignità alla sua polvere e al suo sudore. Mi piace quella triste, grigia e ripetitiva di Dino Buzzati che la pone a far da scena alla storia di un irripetibile amore o quella, coloratissima e forzatamente felice di Haring, di Basquiat e dei loro amici con lo spray protestatario e facile.
Mi piace la periferia, perché sono nato a quattro passi da piazzale Cella [è una piazza defilata a sud di Udine, ndr] e quando, nei miei giochi di bande, abitavo le case e i cortili di quella terra, mi piaceva accorgermi della città che si trasformava. Di giorno in giorno vedevo cambiare il paesaggio. Vedevo costruire case ed asfaltare strade. Vedevo arrivare famiglie con bambini straniti. Vedevo aprire negozi e piantare alberi. Accendere insegne e riempire parcheggi. Ho scritto queste righe qualche anno fa e dopo quel tempo è piovuto molto. La periferia è forse più povera ma come me – che di periferia sono fatto – oggi ha le scarpe piene d’acqua, il cappotto sdrucito ma ancora le tasche piene di stelle.