Pasolini secondo Carlo Sgorlon

L’11 febbraio 2014 Mario Fertilio ha commentato sul “Corriere della Sera” i retroscena del romanzo inedito Nel segno del fuoco, che il suo autore, il noto romanziere friulano  Carlo Sgorlon scomparso nel 2009, scrisse nel 1975 all’indomani della morte di Pasolini, su sollecitazione accorata del poeta Biagio Marin. Ne uscì una scrittura febbrile, concitata e metaforica, quasi Sgorlon avesse assorbito l’io di Pasolini o si fosse immedesimato in lui, risolvendone la mente sulfurea sulla pagina. Quello stile, diverso dal tono meditato e fluido per cui lo scrittore riceveva consensi e premi, suscitò non poche perplessità nell’editore Mondadori, di cui Sgorlon era un autore di punta. Il romanzo finì dunque nel cassetto e, mentre molti ne reclamano ora l’edizione completa, resta “a testimonianza –ha scritto Fertilio -, unica probabilmente, di ciò che ha significato essere scrittori, nella carne e nel sangue, al crepuscolo del Novecento”.
Su questo inedito e sull’incrocio tra i due scrittori, tra consonanze e divergenze, pubblichiamo due interventi apparsi nel febbraio 2014.

Carlo Sgorlon
Carlo Sgorlon

di Angela Felice
www.ilgazzettino.it – 12 febbraio 2014

 Tra Pasolini e Carlo Sgorlon e è difficile immaginare due mondi più agli  antipodi. Esaltato, il primo, dall’ansia di sperimentare tutto e il suo contrario e in tutti i generi, con rigore e insieme passione, sulla spinta di  una “vitalità”, anche contraddittoria e narcisistica, che poi un’oscura pulsione di morte rendeva “disperata” e, con gli anni, sempre più incupita. Incline, il secondo, alla meditazione pacata e alla felicità narrativa di un’appartata “penna d’oro”, sensibile alla dimensione mitica e sacrale della realtà.
Eppure, come per una interlocuzione a distanza, il rapporto tra i due ci fu. Il 19 agosto 1973, Pasolini recensì Il trono di legno, non senza perplessità critica per il tono “in falsetto” che ne avrebbe compromesso la pagina. A sua volta Sgorlon non smise di confrontarsi con il geniale conterraneo che –scrisse nel 1980- voleva “essere Dio” e perciò poteva suscitare un groviglio di reazioni: ammirazione stupefatta quanto irritazione. Se ne interessò fin dal settembre 1967, agli Incontri mitteleuropei di Gorizia, e anzi infranse allora il muro di silenzio, ancora opposto a Pier Paolo da gran parte della cultura friulana, e ne valorizzò l’affresco del Sogno di una cosa. Con puntuale costanza continuò a scriverne dopo la traumatica cesura dell’assassinio del poeta, fonte di una debordante fortuna postuma, ma spesso mitizzante e vampiresca, contro cui Sgorlon non mancò di prendere posizione: ora verso la vulgata corrente del Pasolini “profeta”, ora verso la stessa tesi di Zigaina, fascinosa quanto indimostrata, sull’autosacrificio voluto dall’autore “alchimista”.
Ma che il fantasma di Pier Paolo, con il suo volto meduseo, inquietasse la sensibilità di Sgorlon è comprovato ora anche dal romanzo inedito Nel segno del fuoco, anticipato dal “Corriere” per le pagine finali. Di quella scrittura, in realtà, si sapeva. Per primo ne pubblicò il capitolo iniziale, dal titolo La città, lo studioso Giampaolo Borghello, in coda al saggio Un labirinto pronto ad inghiottirci: Sgorlon legge Pasolini, edito da Forum nel 2009 entro una miscellanea in ricordo di Teresa Ferro.
Mimetizzato sotto il nome di Oreste, vi campeggia un Pasolini senza pace sotto il “sole africano”, quasi assediato dalle Furie come l’eroe greco, attratto dal fascino di un’”anticittà sotterranea” da cui proviene “l’ansimare misterioso di animali addormentati”. Gli stessi che alla fine, dopo essersi scatenati in “mostri” e mentre il poeta agonizza, si riconvertono in “angeli mansueti”, di nuovo assopiti nei loro angoli bui. Da auspicare che ora il romanzo integrale sia dato alle stampe. Per completare il panorama dell’opera di Sgorlon con il nuovo capitolo di un’ispirazione perturbata. Per arricchire di un altro riverbero lo specchio da cui il mistero di Pasolini continua a interrogarci. Inesauribile, pare, anche alle soglie del Duemila.

 di Mario Brandolin
www.messaggeroveneto.it – 13 febbraio 2014

 È bastato un articolo, importante, sul “Corriere della Sera”, La passione di Pasolini secondo Sgorlon, firmato da Dario Fertilio, perché si riaccendessero i fari su questi due grandi friulani protagonisti della letteratura italiana novecentesca. Un’attenzione che «nasce– racconta la vedova di Sgorlon, Edda Agarinis – dal semplice fatto che in una recente pubblicazione della Biblioteca Joppi di Udine, Carlo Sgorlon scrittore friulano, curata dal direttore Romano Vecchiet e che io ho inviato ad alcuni amici ed estimatori di Sgorlon, tra i diversi saggi sulla sua opera, c’è uno in particolare, Un labirinto pronto a inghiottirci: Sgorlon legge Pasolini, di Giampaolo Borghello, che analizza i rapporti tra i due scrittori, in appendice all quale è pubblicato il primo capitolo de Nel segno del fuoco, il romanzo che Carlo, sollecitato da Biagio Marin, dedicò alla figura di Pasolini, subito dopo il suo assassinio». Un romanzo rimasto inedito per volontà del suo autore, dopo che la Mondadori aveva espresso alcune perplessità, «perché – ancora Edda Sgorlon – Carlo non amava ritoccare le sue creature, preferiva lasciarle andare, metterle da parte, anche buttarle. Tanto, diceva, ne ho molte altre che mi attendono. E come Nel segno del fuoco, sono molti infatti i libri che Carlo non ha voluto pubblicare o sono ancora inediti». «Sgorlon considerava Pasolini alla pari di molti altri importanti scrittori italiani di cui si occupava nelle sue recensioni o nei suoi scritti di critica letteraria», taglia corto Edda, quando le chiediamo che tipo di rapporto c’era, se c’era, tra Pasolini e suo marito o di raccontarci come egli reagì alla notizia della morte o alla richiesta di Marin.
Dice a sua volta Giampaolo Borghello. «Io ho letto solo alcuni capitoli e non sono in grado di dare il quadro generale. Posso dire soltanto che il suo protagonista ha poco o nulla a che spartire con Pasolini, nonostante come lui sia travolto da quella esasperata vitalità che Sgorlon ammirava in Pasolini. E soprattutto non è omosessuale, il che sposta di molto la prospettiva. Cosa che, credo, sia stata all’origine delle perplessità della Mondadori». Ma allora perché parlarne, visto che lo stesso Sgorlon accettò di buon grado la non pubblicazione? «Penso che l’interesse suscitato dall’articolo del “Corriere “dipenda dal fatto che riesce difficile immaginare una qualche relazione o consonanza tra i due. Che oggettivamente non ci fu. Tra l’altro si videro una volta soltanto e di sfuggita e Pasolini parlò di Sgorlon in una sola occasione, recensendone non benissimo, ma secondo me neanche malissimo Il trono di legno». Invece Sgorlon, che era un critico letterario raffinato, di Pasolini si occupò a più riprese, e non solo dopo la morte, dando anche giudizi molto equilibrati. «In particolare – dice Borghello – Sgorlon dà il giusto risalto alla sete sterminata di vita che informò tutta l’attività artistica di Pasolini e alla sua capacità di leggere in profondità la realtà e il degrado che stava investendo la società italiana. Quanto alla friulanità di Pasolini, Sgorlon propone un preciso quadro dell’ampia attività letteraria di Pasolini in Friuli (poesia, prosa, teatro) sottolineando il valore di rottura dell’esperienza pasoliniana rispetto alla chiusa tradizione imperante. Lo stesso dramma della diversità è letto da Sgorlon anche in relazione al rapporto spezzato con il mondo friulano-materno, tra fedeltà e rifiuto». A questo punto manca solo la pubblicazione di questo Sgorlon inedito, magari  in un Meridiano Mondadori che, come sottolinea Borghello, riporterebbe la dovuta attenzione su un protagonista del Novecento italiano.

[idea]Info[/idea]

Carlo Sgorlon nacque il 26 luglio 1930 a Cassacco, paese di neanche tremila abitanti a tredici chilometri da Udine, in un Friuli di cui, come si legge nel sito ufficiale,  “scrittore e narratore. Fino alle scuole medie visse in campagna, assimilando le “conoscenze fondamentali del mondo” dai contadini e limitandosi ad andare in città solo per sostenere gli esami di idoneità. A diciotto anni vinse il concorso per entrare nella Scuola Normale Superiore di Pisa dove studiò lettere, avendo già ben chiaro l’intento di fare il narratore. Poi cominciò a insegnare nelle scuole superiori e si sposò con Edda Agarinis, maestra elementare.
In quegli stessi anni iniziò a scrivere, bocciando ogni tentativo almeno fino a Il vento nel vigneto, del 1960, rifatto dieci anni dopo in friulano (Prime di sere), che ebbe ben 17 edizioni. Dopo alcune storie legate a “tematiche contemporanee” tra angoscia e nevrosi, arrivò La Luna color ametista (1970), romanzo che rivelò la tendenza di Sgorlon a muoversi verso i temi corali e collettivi che caratterizzeranno la sua scrittura successiva.
Prima ci fu la scelta di dedicarsi a “storie di famiglie, di paesi, di piccoli popoli, spesso sfortunati e tartassati dalla storia, a cominciare dal suo, quello friulano”. Poi venne la riscoperta del mito, “favola eternamente valida che si ripropone con significati sempre nuovi”. Rielaborando e attingendo da queste nuove ispirazioni Sgorlon scrisse Il trono di legno (1973), favola contadina e avventurosa con tonalità epiche e leggendarie. Con questo romanzo, che ebbe 26 edizioni e stravinse il Premio Campiello, conquistò una consistente notorietà nazionale.
“Il suo modello era un vecchio patriarca, Pietro: un friulano che era stato emigrante in tutto il mondo e tutta la vita aveva trasformato in mito e favola”, si legge ancora sul sito nelle pagine dedicate alla sua opera. L’epica, l’amore eterno e profondo, le saghe di famiglie, di lavoratori e contadini, diventano i protagonisti dei suoi libri. “In Friuli non molti se ne sono accorti, ma Sgorlon è il primo scrittore totalmente friulano che abbia tentato di costruire un vasto ciclo epico attraverso i momenti eminenti, spesso tragici, della storia del suo popolo”, è scritto con una punta di rammarico. L’autore ha raccontato nel tempo e nei romanzi le invasioni, le sventure, la tragedia del Vajont del 1963 e il terremoto del 1976, le guerre e le emigrazioni, i rapporti con i popoli vicini e le minoranze che vivono in Friuli, terra di frontiera. Ma anche la visione magica e religiosa di questa regione, aspetto che lo ha avvicinato al “realismo magico” di Garcia Marquez, da lui tanto amato e difeso.
Con i suoi romanzi, racconti e fiabe – tradotti in decine di lingue, tra cui il cinese – ha vinto più di quaranta premi letterari, compresi due Supercampiello, lo Strega, il Nonino. Tra le sue opere ricordiamo La regina di Saba (1975), Gli dei torneranno (1977), La carrozza di rame (1979) in cui si parla del devastante terremoto del 1976, La conchiglia di Anataj (1983) che gli valse il secondo SuperCampiello, L’armata dei fiumi perduti (1985, 25 ristampe) con cui vinse lo Strega, L’ultima valle (1987) sulla costruzione della diga del Vajont e sulla distruzione dei paesi di Erto, Casso e Longarone. Sono del 1990 La fontana di Lorena e La tribù per arrivare due anni dopo a La foiba grande sugli eccidi di massa in Friuli, cui segue Il regno dell’uomo (1994) e quindi La malga di Sir (1997) incentrato sullo scontro di Porzûs. Del 1998 è Il processo di Tolosa seguito da Il filo di seta (1999),  in cui si racconta la vicenda incredibile degli itinerari di Odorico da Pordenone. L’ultima produzione è nell’ordine: La tredicesima notte(2001), L’uomo di Praga (2003), Le sorelle boreali (2004) e Il velo di Maya (2006).
Il suo ultimo libro, La penna d’oro (Morganti, 2008), è un’ironica e disincantata autobiografia. Sgorlon si presta a raccontarsi parlando della sua vita, della poetica e dei suoi rapporti con il mondo letterario, spesso difficili, confessando l’amarezza per il suo isolamento dagli altri scrittori. Ribadisce la radicata convinzione che l’uomo possa “percorrere il proprio cammino muovendosi su due piani di esistenza paralleli: quello della realtà e quello del fantastico”. La penna d’oro, dono prezioso ricevuto nell’infanzia, è il simbolo della sua esistenza, oggetto mitico che ha influenzato il suo destino di uomo e scrittore.