“L’ultimo fuoco” di Pasolini. Un saggio di Elio Goka

Per  gentile concessione dell’autore Elio Goka, pubblichiamo il recente contributo dal titolo L’ultimo fuoco, a breve in uscita per la rivista online “milena.com”. L’articolo, dall’impianto speculativo, è tratto da un segmento seminariale, a cura dello stesso Goka, già proposto all’interno della maratona letteraria “Notte Pasolini” – Atto primo (31 ottobre 2014 al Teatro Ghirelli di Salerno), e ora è steso anche come uno dei tasselli del percorso di approfondimenti propedeutici all’Atto secondo del progetto “Notte Pasolini”, in programma l’8 maggio 2015, sempre a Salerno, presso il Teatro Ateneo dell’Università egli Studi.

L’ultimo fuoco
di Elio Goka

Le vicende letterarie quasi sempre sono destinate a transiti esistenziali che il tempo traduce in forme di passioni. Le vite plurime, che si nascondono dietro la sacralità di chi, paradossalmente, presta il fianco a lunghi e sofferenti momenti di profanazione, maturano in stadi di riflessione affidati al rischio, per cui verbalizzarle, semmai possibile, vuol dire approssimare il pathos dell’osservatore a quello di coloro che, come il Poeta, hanno rivolto l’esito del loro mandato letterario anche all’avvenire.
I martirii delle esperienze letterarie siedono sghembi in mezzo al corso del tempo. La loro è parola diagonale. A quelli, come al Poeta, è capitato in sorte (la sorte di Pier Paolo Pasolini assume tratti tremendamente originali, come in ogni martirio) di subire questo martirio, tanto loro malgrado, quanto, probabilmente, inconsapevolmente perseguito. Di essere, come lui stesso diceva, “vittima della celebrità, di un certo tipo di celebrità, come l’altra faccia della persecuzione”. Alcune spiritualità sembrano quasi votarsi a questo rischio, in nome, come nel caso di Pasolini, di una forma missionaria ed esplorativa delle vicende umane, in certi (non così rari) frangenti persino coincidenti con quelle letterarie, fino ad affidarsi, in maniera completa,  a quelle stesse vicende, alle loro reazioni e ai loro responsi.
Pasolini una volta ha dichiarato: “Sono direttamente interessato a quelli che sono i cambiamenti storici. Tutte le sere, tutte le notti, la mia vita consiste nell’avere rapporti diretti con tutta questa gente che io vedo sta cambiando. Tutto questo fa parte della mia vita intima, della mia vita privata, della mia vita quotidiana. È un problema mio”.
La sua parola ha avuto inizio, poi fine, poi di nuovo inizio, senza soluzioni di continuità, senza interruzioni e senza reclami alla compiutezza, con l’impiego assoluto e indiscriminato del sentimento poetico, impiegato linguisticamente, secondo sua stessa ammissione, nei suoi registri teatrali, poetici e narrativi.
In una sua poesia, La realtà, Pasolini scrive:

Oh, fine pratico della mia poesia!
Per esso non so vincere l’ingenuità
che mi toglie prestigio, per esso la mia

lingua si crepa nell’ansietà
che io devo soffocare parlando.
Cerco, nel mio cuore, solo ciò che ha!

 La sua parola è laboriosa, essa mai tace, laddove si verificano brutali e ambigue disfide tra il pensiero diffuso e quello ingombrante della misura contestatrice, in piena applicazione secondo il metodo dell’intelligenza poetica, sull’osservazione accorta e disperata delle “masse” che, nel caso del Poeta, potrebbero meglio essere definite come moltitudini, visto il volume di attraversamenti raggiunto dalle capacità del suo sguardo, in costante osservazione su ampie frazioni di umanità, dentro e fuori dal suo topico territoriale, grazie pure alle sue doti di comparatore culturale.
Nel saggio-questionario Marxismo e Cristianesimo Pasolini afferma, per fornire un punto storico da individuare, onde, poi, esprimere un’idea più universale, che “è stato durante il periodo stalinista che certi moralisti di partito non facevano altro che accusare e dire: «Tu sei un umanitario, tu sei un populista!» Ma non ci dobbiamo vergognare di queste nostre origini”. È quasi doveroso, per Pasolini, conoscere i fondamenti delle nostre origini storiche, affinché sia più chiaro quello che ha dato i natali alla nostra cultura e che ha inevitabilmente formato le nostre personalità.
“Queste istanze cristiane” sono equivalenti, e altrettanto profonde, a quelle che accompagnano le lotte operaie ispirate al Marxismo. Tutto questo è rivisitabile, interpretabile, in un forte senso anche metaforico e simbolico. E non soltanto questo Cristianesimo, ma alla base c’è una forte religiosità, respinta – paradosso creato ad hoc dal potere- dagli stessi che avrebbero dovuto proteggerla, “cacciata dalla porta” e rientrata “dalla finestra”.
“Duemila anni non sono nulla. Noi crediamo che duemila anni siano una cifra enorme. Ci sembra che 80 generazioni sii perdano  nella notte dei tempi. In realtà nella storia globale dell’umanità  duemila anni  non sono proprio nulla”. Questa forte religiosità di fondo fa sì che essa stessa non venga espulsa, non venga definitivamente cacciata dai luoghi più profondi dell’animo umano. Anche se questo sentimento religioso esce disgregato dalle transizioni delle religioni (non della religiosità), nessuno potrà mai denegare un elemento religioso del nostro rapporto con il prossimo.
La parola civile di Pasolini non vuole andare incontro alla distruzione. Tutto il contrario. Lui stesso, attraverso le parole del corvo di Uccellacci e Uccellini, confida nel futuro che vedrà qualcuno “prendere la sua bandiera per portarla avanti”.

Nel Dialogo di un fisico e di un metafisico, all’interno delle Operette morali, Giacomo Leopardi rappresenta un intenso confronto tra queste due figure così apparentemente antitetiche. Esse discutono sull’immortalità, sulla ricerca della ricetta per la conquista della gloria o dell’attesa che qualcuno scovi il metodo per vivere felicemente, partendo dalla consapevolezza dei propri inganni e passando per quelli delle masse popolari (si potrebbe, a questo punto, sperimentare un’ipotetica riconduzione al concetto di moltitudine) e per le stesse illusioni popolari, in fondo senza far altro che ingannarsi, irrimediabilmente, perché molto di fallace e di erroneo può provenire da quelle riflessioni e dalle sperimentazioni intellettuali e politiche.
“Così credono gli uomini, pensando che i colori siano qualità degli oggetti, quando invece non sono degli oggetti, ma della luce”, scrive Leopardi. E il dialogo prosegue discutendo dell’amore, della vita e della morte, fino all’unica conclusione salvifica per l’animo umano, che, a dispetto di quell’antica tradizione dei barbari di accantonare sassi scuri per i giorni tristi e pochi sassi chiari per quelli felici, riesce a scovare un qualche genere di conforto anche davanti all’idea che tutto un giorno si diriga verso la fine assoluta. Come conclude Leopardi, “la vita in fondo deve essere viva, per evitare che la morte la superi inevitabilmente di pregio”.
Tutto questo potrebbe determinare l’azione perpetua del trasferimento di un sentimento, che passa, a mo’ di testimone spirituale, dalla “fine” di un uomo al “principio” di un altro uomo, come il testamento profondamente percepibile dalle consegne generazionali e dalla sensibilità umana. È questo l’ultimo fuoco.
È il rapporto ultimo, la soluzione che mette in contatto le solitudini, gli spazi morali ed emotivi esclusivi che non aspirano, perché non ne hanno bisogno, a confinarsi soltanto entro regioni dolorose, dotate, così, di quella primordiale saggezza che le guida tanto verso l’angoscia quanto verso la grazia. “Le magnifiche sorti e progressive”, come scrive Leopardi proprio nella Ginestra o il Fiore del Deserto.

Così ha agito Pasolini, fino all’ultimo dei suoi giorni, addirittura fino allo sconfortato, meditato, intelligente, cosciente, fondo di passione, perché le masse, anzi, le moltitudini, come da lui temuto, avevano fallito e lui le aveva viste fallire, sentendole fallire già prima di iniziare a esplorarle. Una forma di professione civile del Cristianesimo. Leopardi ha avuto la sua “infelicità”, Pasolini ha avuto la sua “inciviltà”, forse, chissà, con un intimo monito riservato solo a se stesso, affidandosi, come del resto è avvenuto, proprio a quelle sensibilità individuali destinate a fungere da rara trasversalità generazionale indipendentemente dai passaggi epocali. Destino dei poeti, quello di finire dentro le destinazioni morali riservate alle sensibilità individuali. Come ha scritto Shakespeare in uno dei suoi sonetti d’amore, “l’amor tuo resti a me, l’usarne a loro”.
Ecco che ci si trova davanti a un disincanto di natura paradossalmente onirica, di un Pasolini “innamorato” perché sereno dentro la scoperta per cui la forma più alta dell’amore non conosce e non si riserva oggetto. L’Amore ama l’indiscriminato, generandosi da se stesso, nel passo solitario verso la conquista di un sentimento informale, identitario sì, ma vivibile in ogni epoca, in ogni tempo. Tutto questo non può che costare prezzi altissimi, talvolta oltre ogni immaginazione per chi affronta le peripezie che una simile presa di coscienza impone.

Performance "Intellettuale" di Fabio Mauri (1975)
Performance “Intellettuale” di Fabio Mauri (1975)

Nel monologo di Julian, in Porcile (Pasolini stesso, dopo l’uscita del film, ha poi ammesso di riconoscersi in molti tratti di Julian) si ascolta:

Che cosa immensa e curiosa il mio amore.
Non posso dirti chi amo;
ma non è questo che interessa. Mai,
oggetto di passione amorosa è stato così infimo
(per dir poco). Ciò che conta
sono i suoi fenomeni; la profonda deformazione
che esso ha causato in me – che non è degenerazione,
sia chiaro; perché se così fosse, tu l’avresti compreso.
[…]  Non si è spento
niente, nella mia vita  (lo dico senza orgoglio,
ma con stupore […]. Ora, Questi fenomeni, sono così belli,
così esaltanti …
Una cosa veramente unica.
Da non potermene mai  un istante liberare,
neanche dal pensiero. Non è una cosa che capita,
nascendo, vivendo:no.
[…]
I fenomeni che questo amore produce in me
si possono riassumerei in uno solo: una grazia,
che, sia pure come una peste, mi ha colpito.
Non stupirti , dunque, se accanto all’angoscia
c’è una continua, infinita allegria.
[…] Non è da meravigliarsi se, durante le notte,
ho quindi terribili incubi. Ma sono essi
la cosa più sincera della mia vita.
Non ho altro modo per affrontare la verità.
Ho sognato poche notti fa
che ero per una strada buia,
piena di pozzanghere […].  Ed ecco che sull’orlo dell’ultima
di queste pozzanghere, c’è un maiale, un maialino …
Io mi avvicino a lui, come per prenderlo e toccarlo.
Ed esso, allegro, mi morde. Il suo morso mi strappa
quattro dita della mano destra, che però restano attaccate
e non sanguinano, come se fossero di gomma …
Io giro con queste dita penzolanti,
sconvolto da quel morso.
Una vocazione al martirio?
Chissà mai qual è la verità dei sogni
oltre a quella di renderci ansiosi della verità.

Davanti all’impossibilità di raggiungere una tale piena consapevolezza di sé, esiste, però, almeno per chi è disposto a sottoporvisi, una specie di quota morale salvifica. Una possibilità, che per gli scrittori di una certa temperie letteraria, nasce ai lumi fiochi di tante notti insonni, e che è il ritrovamento, non soltanto per gli scrittori, ma per ogni personalità votata all’esplorazione spirituale (un processo che probabilmente supera il dato culturale), del possedimento di un sentimento del sensibile che aiuti a sopportare tanto le inquietudini individuali quanto quelle collettive. Ma tutto questo si approssima, rifugiandovisi per poi svanirvi, dentro la parola “fine”. Probabilmente è qui che il mistero traccia la linea di confine del luogo massimo, ai bordi di questa ricerca e di questa scoperta dell’azione sensibile. Ed è con la fine che si paga tutto, ed è proprio con la parola fine che Pasolini ha dovuto fare i conti.
A proposito della parola fine, della scomparsa e della sensibilità, nello Zibaldone Leopardi scrive che “ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, una commozione, una malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre, soprattutto se questa cosa è stata del suo tempo e a lui familiare. Qualunque cosa, qualunque cosa soggetta a finire, anche odiosa, anche molesta. E se questa cosa ci ha procurato fatiche, la consolazione è che ci ha forse aiutati a conseguire uno scopo. Solo per la noia non possiamo dolerci che essa sia finita. Allora la ragione di questi sentimenti è l’infinito che contiene l’idea di una cosa terminata, forse compiuta, al di là della quale non vi è più nulla. Una cosa terminata per sempre, e che non tornerà mai più”. Il più tremendo, il più disperato e il più intenso degli inni alla vita.
Pasolini ha scritto che “bisogna bruciare per arrivare consumati all’ultimo fuoco”. Nella combustione potrebbe sopravvivere quell’istante dove il principio e la fine vanno cercandosi.

[idea]Nota redazionale[/idea]
La poesia La realtà compare nella raccolta Poesia in forma di rosa (Garzanti, Milano 1964), ora in P.P.Pasolini, Tutte le poesie, I, a cura di W. Siti, “Meridiani” Mondadori, Milano 2003, pp. 1109-1123.

Il saggio Marxismo e Cristianesimo, già testo di una conferenza tenuta a Brescia il 13 dicembre 1964, uscì come Supplemento a “L’eco di Brescia” il 18 dicembre 1964, ora in P.P.Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, “Meridiani” Mondadori, Milano 1999, pp. 786-824.

 Il monologo di Julian nella tragedia in versi Porcile è in P.P.Pasolini, Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, “Meridiani” Mondadori, Milano 2001, pp. 622-627.