Laura Betti voce di “Marilyn” di PPP. Il ricordo di Luigi Cinque

«A trionfare è una ragazza bionda, (…), infante, asessuale e provocante; che è evidentemente fuori dal gioco letterario e politico (è un’attrice, mettiamo), e quindi interviene in quel gioco con la più sfrenata libertà, una libertà addirittura blasfema, scatologica, offensiva, ma intelligente».  
Con queste splendide e acute parole [P.P.Pasolini, L’ultimo poeta espressionista (1963), in Per il cinema, a cura di W. Siti e F.Zabagli, II, “ Meridiani” Mondadori, Milano 2001, p. 2651] Pasolini descrive Laura Betti, che ha diretto in cinque film e nell’unica sua regia teatrale, Orgia (1968). Per lei, musa-amica di una vita e poi paladina impetuosa e generosa nel difendere e divulgare la figura e l’opera del poeta assassinato,  Pasolini  ha scritto anche testi per canzoni, come quelle per il recital Giro a vuoto, in cui si trovano la Ballata del suicidio, Cristo al Mandrione, Valzer della toppa e Macrì Teresa detta Pazzia. Nella terza edizione di quello spettacolo (1963) comparve anche Marilyn, una magnifica poesia scritta da Pasolini in occasione della morte di Marilyn Monroe e poi inserita anche nei materiali del documentario La rabbia (1963).
Dopo l’originario accompagnamento musicale di Marcello Panni, la canzone ha conosciuto una nuova veste sonora firmata dal musicista e videomaker Luigi Cinque, con cui la stessa Betti collaborò in fase di registrazione (1995), mentre era impegnata anche nella regia teatrale e  televisiva curata da Mario Martone dello spettacolo
Una disperata vitalità.
Su “Nazione indiana” dell’11 giugno 2015, il maestro Cinque ha rievocato quella esperienza, tributando un omaggio retrospettivo alla personalità e all’arte della “giaguara”, capace con lo strumento di una straordinaria voce primaria di ricavare dal profondo di sé non solo sonorità aggressive o ironiche, ma anche la tenera fragilità di un io femminile, come la Monroe dei versi di Pasolini, sfruttato e distrutto dalla macchina dello star system che dapprima l’aveva elevata a diva.

Quando registrammo la “Marilyn” di PPP con Laura Betti
di Luigi Cinque

www.nazioneindiana.com – 11 giugno 2015

La generale di Una disperata vitalità di PPP era già iniziata. La prima sensazione, quando entrai in teatro, camminando nel buio lungo la parete, fu la precisione con cui Laura, tra versi e canzoni, attraversava il testo. Era in scena da sola, coraggiosamente obesa, tirata, livida, sotto quegli occhi e il nasino dispettoso da bambolotta. Tre quattro persone in platea con il regista Mario Martone. Rimango in piedi.
Che Laura fosse soprattutto la sua voce, lo sapevo già. L’avevo conosciuta, dal vivo, molti anni prima, frequentando alla Sapienza un corso di cinema e letteratura tenuto da PPP. In una delle quattro straordinarie lezioni lei era venuta a leggere e cantare dei versi. Lo stesso PPP ne aveva esaltato le doti di interprete. Ma provo lo stesso fastidio di allora quando esibisce quella risata sguaiata romanesca da straniera, da emiliana, un po’ forzata, in quel suo cantare certe volte alla maniera della Ferri cogliendone solo ingenuamente il verso senza andare al profondo della tuttità romana, di quell’insieme inimitabile di“altoalto e bassobasso” che è la canzone popolare ebreo/romanesca. Ora avrei voluto dirle: «guarda che “la Toppa” o lo sai cantà o non la sai cantà! Inutile che ce fai… e poi te manca la periferia, che voi capì dar salotto de nonna» (così Laura chiamava Moravia, me lo aveva detto Carmen, sua organizzatrice dello spettacolo e nostra comune amica ).
Mi siedo in platea. In terza fila a destra del palco. Lei è un tutt’uno con quel leggio ancora troppo alto, e grande, da direttore d’orchestra, e l’insieme, da giù, con le sbavature di luci ancora da sistemare, dà l’idea di una botte scura al centro del palco con sopra una faccia e i capelli annodati in un ciuffo in su che «facevano pensare allo spruzzo di una balena o al pennacchio di un ananas psicotico» ( sto citando a memoria il particolare dal romanzo di Emanuele Trevi Qualcosa di scritto ⌊uscito nel 2012, ndr⌋). Sono previste le riprese televisive. L’aiuto regista le chiede, in una pausa, se si terrà così i capelli o magari avrà un cappellino di qualche colore.
«No tesoro…proprio così…biondo mignotta…», gli risponde dal palco, e si morde sul labbro una risata infame. Laura non lo sopporta, mi dice Carmen. E guai a cadere nelle sue grinfie. Poteva essere terribile. Sapevo anche questo. Riprende a provare.
Nel canto, meglio ancora, nel recitarcantato, nello sprechgesang, la sua voce, giocava in casa, aveva un’intonazione naturalmente perfetta. Sembrava esserci nata in quell’ espressionismo popolare. Riempiva la parola di straordinarie microintonazioni. Nessuna ansia dello scorrere del tempo musicale. Le bastava parlare per esserci, in musica s’intende. Respirare per prendere il tempo. Le grandi voci sono grandi per questo, perché danno l’idea di parlare mentre cantano e modulano.
Laura con la sua voce, rauca, fumosa, budellare, gelida, razionalBrecthiana, mirava direttamente al cuore e questo era anche dovuto al fatto che, avrei dedotto più tardi, era perfettamente – “cattivamente” – onesta con se stessa e con gli altri. La voce recitarcantante non perdona. E’ un elemento di rilevazione primario. Ti espone. Non ti permette di fare alcuna poesia, racconto, canzone, senza un rapporto risolto con te stesso, quantomeno con la tua di verità. Non giudica. Ti fotografa e stampa fuori come una vecchia Polaroid. Se l’anima esiste è certamente nel suono della voce. I civilissimi aborigeni australiani, quelli che inventavano il boomerang quando noi eravamo alla ben più terrena e violenta ruota, sostengono che se fai perfettamente il verso di una rana o altro animale sei quell’animale.
Comunque nel nostro caso non c’era bisogno di cercare chissà quale animale. Laura era Laura perché faceva la voce di Laura. Per questo comunicava quel senso di precisione. Tranne, ripeto, per quell’accentazzo romanesco che assumeva in alcune canzoni e che la rendevano ridicola; che, come diceva PPP, la inchiodavano «alla qualità di fossile con la sua maschera inalterabile di pupattola bionda…a mostrare il sadismo di una provinciale che giunta al Centro dove abitano gli idoli si traveste goffamente da nativa per mitizzarli, profanarli e dissacrarli meglio».
A metà della filata Laura si ferma. Ha bisogno di una pausa. La segretaria di produzione annuncia a tutti i trenta minuti. Carmen mi accompagna nel camerino. Dobbiamo accordarci per la Marilyn di PPP da musicare e registrare per una compilation di canzoni pasoliniane in occasione del ventennale del suo assassinio.
Si sta cambiando abito. Faticosamente. Ci fa entrare. Ha un problema con il vestito. L’elastico, credo. Guardo altrove. Scruto un palazzo antico che si vede dalla finestrella. Alla fine si accende una sigaretta e mi dice «ciao».
Credo che con lei valesse una specie di energia animale immediata per cui: o come se ci si fosse sempre conosciuti oppure…oppure niente. Detestava qualsiasi tipo di presentazione. Nel caso, poteva reagire anche male. Mi accoglie come uno che conosceva. Non so. Fu molto gentile con me. Una questione di odori oppure che la musica la intimidiva. Ovviamente non ci fu modo di parlare del lavoro. Avrei capito a breve che non ne voleva sapere. Restammo d’accordo che con Carmen saremmo passati da lei in via di Montoro vicino Campo de Fiori. Faccio per uscire. «Pier Paolo amava molto questa poesia», mi dice. Già, Pier Paolo. C’è una sottile linea di confine a Roma oltre la quale puoi ancora trovare quelli che parlano del poeta chiamandolo Pier Paolo e non Pasolini. Dacia, Piera, i Citti, Ninetto e qualcun altro. Nel tempo mi è capitato di incontrarli. Di sentirli che lo chiamavano così. Segnavano un appartenenza. Un codice. Ma Laura quel nome lo pronunciava in un modo “più” speciale. Assoluto. Primitivo. Infantile. Esclusivo.

Laura Betti e Pasolini (1969). Foto di Elisabetta Catalano
Laura Betti e Pasolini (1969). Foto di Elisabetta Catalano

Due giorni dopo mi presentai a casa sua. In via di Montoro, Campo de Fiori. Avevo preparato uno schema. Un primo aleatorio nel quale accogliere il testo e la voce a suo piacere. Dovevo solo verificare con lei un paio di appuntamenti sonori, del tipo: incontrarci tutti al riff e fare insieme quel pezzo di melodia in quattro che avevo pensato. Ho con me nello zaino una tastierina giocattolo. Tanto per non dover cantare. E pure il sax, il soprano. Non c’è l’ascensore o non lo trovo. Faccio le scale a piedi. Appena arrivato, sulla porta, Carmen mi chiede sorridendo: «Sai fare le iniezioni?» «Beh, Sì!», dico. Entra in scena Laura, non mi saluta, ha una vestaglia da basso impero Mogul, fiori blu su fondo rosa. Mi dice: «non sarai una fighetta che s’impressiona e sviene?».
Mi indica una busta di plastica poggiata sullo sgabello. Dentro due siringhe e una dose di penicillina gigante. Mi lavo le mani. Preparo il tutto. Siamo ancora nell’ingresso. Ho la siringa pronta in mano e lo zaino ancora in spalla. Confesso subito che non mi viene bene a fare le iniezioni in piedi. Preferisco il paziente sdraiato. Laura si avvia verso una stanzetta con un letto singolo. « Perfetto – dico –… e se poi abbassi un po’…».
Lei si stende e mi dice serissima: «Non è che me te voi fà…?» La pugnalo con la siringa.
Passiamo la serata di giugno in terrazza. Mi piaceva moltissimo quella terrazza, così non tanto grande. Fuori da ogni sguardo. Siamo a un centinaio di metri in linea d’aria dal fiume. Decine e decine di gabbiani entrano ed escono nel cono dell’interno condominio, silenzioso, mezzo deserto/barocco e mezzo abitato, galleggiano in cima, perlustrano con un’occhiata e riprendono l’onda gridando.
C’è un vino bianco di marca e un piatto raffinato di pesce e pasta fredda. Non parliamo ovviamente del brano da registrare. Si capisce che non c’è nessuna intenzione di farlo. Anche per un fatto artistico, mettiamola così. Come si suole, diciamo, tra improvvisatori. Dico l’improvvisazione come l’arte sublime della performance. La poetica del mettere le mani sulla materia in tempo reale. Laura ne fa un breve accenno. Colgo al volo. Da qui il discorso devia, un po’ tra l’altro, ma non tanto, quando parte con tutta la sua vestaglia in una risata secca. Ce l’ha con i poeti stonati che leggono le loro poesie con «quella bocca che sembra un culetto e gli occhi sulla pagina scritta e mai a fuoco con il microfono». E se poi c’è la musica e il ritmo la cosa si fa persino imbarazzante. «Non lo sanno, le zoccolette, che la poesia si fa con le orecchie? Che l’intonazione è tutto per un poeta. Fuori e dentro. E poi non hanno un briciolo di rabbia, solo la posa dei leccaculo, questo sì». Qualche tempo prima, l’avevano portata a un premio di poesia. Quell’avanguardia vecchia che si sa con Pier Paolo ce l’aveva a morte. Un astio, in molti casi, ingiustificato, da far pensare che non gli perdonavano il successo e la vitalità, che non sapevano davvero cosa voleva dire essere «un gatto bruciato vivo, pestato dal copertone di un autotreno…ma almeno con sei delle sue sette vite davanti». Il bello è che quelli odiavano pure Sandro Penna che non si può dire avesse tutto questo seguito popolare.
E a proposito ci racconta della Morante (che invece ne capiva tanto, dice ) che una sera a casa, sentendo un gran rumore di clacson e torme urlanti slogan incomprensibili ché forse la Roma aveva vinto il derby, commentò dicendo: «Deve essere perché Sandro Penna ha preso il premio Strega e lo stanno festeggiando… ».
Infine qualcosa me la dice a proposito della Marilyn. Capisco che lei ama questo testo. Aggiunge: «Che non si perda mai un lontano odore di jazz. Ma nello stesso tempo sarebbe ridicolo farne un brano jazz. Tutto solo sulla sfumatura…sulle intenzioni…niente accordini e terzinati pùmpapa pùmpapa… niente fighettate da solisti».
Non volle ovviamente sapere la formazione che avrei portato in sala. Meglio così. Non avrei saputo cosa rispondere. La registrazione era fissata al giovedì della settimana dopo. Le parti erano pronte. Ma servivano a poco, c’era invece da organizzare più che altro un’emozione discreta e univoca che fosse in grado di contenere la “belva”. Chiamai tre vecchi amici con grande esperienza di real time, come si dice, di interplay che poi in ultima analisi vuol dire di sana capacità di ascolto ancor prima che di emissione di suono. Danilo Rea al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabbasso, Massimo Coen al violino.
Il giovedì di registrazione cominciò con una pièce teatrale di gesti e rumori degna del miglior Beckett. Siamo in una via del quartiere Prati. Una traversa tra due arterie cittadine. Un via decisamente stretta considerando che ci passa il bus. Il portone di un palazzo di solido stile umbertino che dà in un ampio cortile circolare con diverse saracinesche aperte e vetrine con attività varie. Ricordo un parrucchiere per signora. Giù in fondo, al centro, proprio di fronte al portone, l’ingresso dello studio di registrazione. Noi, da buoni turnisti, eravamo già lì con i nostri strumenti. Alle dieci Laura era in forte ritardo. Apparve dopo mezz’ora. La vedemmo entrare nel cortile, gelida, gli occhialoni da sole tondi e grandi, livida, con le labbra serrate, un borsone portatutto con dentro sicuramente la bomba, una camiciona celeste che la conteneva alla meglio. Non aveva tempo di salutare. Si ferma davanti al produttore ch’era lì con noi. Lo brucia con uno sguardo e platealmente fa cadere la chiave dell’auto dentro una grata ch’era sotto i nostri piedi. La cosa sul principio non ci impressionò, ma subito dopo percepimmo che la signora aveva parcheggiato in seconda fila e la sua Golf già bloccava l’autobus e una fila infinita di automobili.
Furono momenti di panico. Laura se ne frega. Nessuno osa parlarle. Entra in sala, chiede al fonico qual è il suo microfono e si siede in postazione. Fuori arriva trafelato il portiere dello stabile armato di una grossa barra di ferro. Insieme al produttore (reo di aver dimenticato di andare a prendere la furiosa a casa, da qui la punizione ) e altri tre o quattro, riescono a sollevare la grata. Siamo invasi dal suono di un’orchestra di clacson. Massimo il violinista mi dice che è il miglior Cage che abbia mai ascoltato. Il gruppetto infine raccoglie nel secco di fogliame e carte la chiave. E sarà il produttore stesso che rischia la vita (per espiare evidentemente!) uscendo a spostare la Golf tra una folla di automobilisti e passeggeri inferociti. Entrammo e ci mettemmo ai nostri posti. Dopotutto la furiosa aveva ragione. Quel suo special di teatro del dispetto era l’unica possibile reazione verso l’insensibilità e grossolanità, mista a finta gentilezza, del produttore. Si capiva da lontano che quello era al posto sbagliato. Che era il tipo di persona che, anche inconsapevolmente, impedisce che si stabilisca un patto importante tra artisti e pubblico.
In sala, Laura parlava solo con me. Quando ci mettemmo le cuffie e tutti ci ascoltavamo in interfonico, mi toccò la ridicola parte di tradurre dall’italiano all’italiano le sue indicazioni. Non conosceva il pezzo. Alla fine chiese solo di avere gli attacchi chiari. Si era improvvisamente ammorbidita. Ora, la furiosa era a suo agio. Attentissima. In grado di cogliere ogni spostamento di intonazione e ritmo. Ubbidiente al flusso di note. Reattiva.
Dopo una prima passata per regolare meglio gli ascolti registrammo l’unica versione del brano. Un solo take. Laura era della vecchia scuola. Del tempo in cui il nastro era prezioso. Nessun vezzo, si usava così. Si riascoltava e se non andava si cancellava e se ne faceva un altro. Comunque lei approvò già il primo e per noi andava bene.
Ho riascoltato diverse volte la Marilyn. C’è qualcosa di intrigante nella dinamica parola suono. Un piccolo teatro nascosto. Laura comincia stranamente con un’intonazione separata che la pone, in disparte, con un’altra impedenza elettrica, in altorilievo rispetto alle costellazioni sonore che componiamo via via. Si mantiene sempre una terza minore sotto il galleggiamento atonale del brano. Lo fa per istinto, si capisce. Per pigrizia, forse. O per mantenere dispettosamente la sua di intonazione. Si contrappone. Brechtianamente si estrania. Ma nello stesso tempo depensa. Esce dalla ragione di interprete. Si fa medium. Laura non credo lo sapesse (non faceva parte del suo bagaglio ), ma fanno lo stesso i cantanti di Druphad, l’antichissimo e straordinario canto sanscrito indiano. Riescono a giocare con la vibrazione molecolare della base uscendo e rientrando dalla consonanza e regolando in questo modo, tra intonazione e disintonazione, l’effetto drammatico della voce e, di conseguenza, il rilievo poetico della parola.
Laura era, da questo punto di vista, una sorta di modello originale e non aveva niente da invidiare, nell’essenza vocale, a Carmelo Bene, per esempio, e alla “carmelobenica” del tempo. Aggiungo, faceva istintivamente, e con l’esperienza straordinaria che aveva, quel che altri coprivano, velavano, vestivano, machistamente, di superbe e fumose teorie prima di rivelarsi. La sua vocalità riusciva ad essere esibizione, aggressione e dall’altro interiorità manifestata: andava dall’interiore all’esteriore legando continuamente due esistenze. In questo senso, per dirla proprio alla Bene, Laura era il capolavoro. Così grossa e sformata ormai era una piccola Marilyn.
Nella seconda strofa si avvicina sempre più all’intonazione complessiva degli strumenti. Entra più dentro. Cessa di essere un altorilievo. E diventa soprattutto una voce ritmica. Il tutto dentro un normale parlato. Gioca naturalmente, al servizio dell’insieme e delle parole soprattutto, sul battere e levare, dialogando magistralmente con il basso e il pianoforte. Nelle sfumature dunque. In una condizione non assertiva. Per frammenti che sono piccole implosioni di jazz, webernismo, oral poetry. E’ straordinario infine come nella terza strofa faccia suo l’andamento swing del basso pur restando tranquillamente nel testo. In realtà, in apparente monotonia, Laura, sotto, canta continuamente qualcosa e in questo senso, rifacendomi a Paul Zunthor e il suo bel saggio La presenza della voce, dico che la vocalità della Betti, in questo piccolo brano, è parola senza parole, ha un tratto sciamanico. Una voce che le parole vengono ad abitare, ma che veramente non parla e non pensa, ma ripercorre e fa sopravvivere la memoria della primaria mancanza sensoriale in ognuno di noi. 

Marilyn Monroe
Marilyn Monroe

Marilyn
di Pier Paolo Pasolini

Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro ai fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,
e si mette addosso le loro sciarpette,
tocca non vista i loro libri, i loro coltellini,

tu sorellina più piccola,
quella bellezza l’avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.
Sparì, come un pulviscolo d’oro.

Il mondo te l’ha insegnata.
Così la tua bellezza divenne sua.

Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una  bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre così facilmente nudo.
E per questo era bellezza, la stessa
che hanno le dolci mendicanti di colore,
le zingare, le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Roma.
Sparì come una colombella d’oro.
Il mondo te l’ha insegnata,
e così la tua bellezza non fu più bellezza.

Ma tu continuavi ad essere bambina,
sciocca come l’antichità, crudele come il futuro,
e fra te e la tua bellezza posseduta dal potere
si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente.
Te la portavi sempre dentro, come un sorriso tra le lacrime,
impudica per passività, indecente per obbedienza.
L’obbedienza richiede troppe lacrime inghiottite,
il darsi agli altri,
troppi allegri sguardi, che chiedono la loro pietà!
Sparì, come una bianca ombra d’oro.

La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne così un male.

Ora i fratelli maggiori finalmente si voltano,
smettono per un momento i loro maledetti giochi,
escono dalla loro inesorabile distrazione,
e si chiedono: «È possibile che Marilyn,
la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?»
Ora sei tu, la prima, tu sorella più piccola,
quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,
sei tu la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte.
(in Tutte le poesie, a cura di W. Siti, II, “Meridiani” Mondadori, Milano 2003, pp. 1322-1323)

[info_box title=”Luigi Cinque” image=”” animate=””]musicista e regista italiano, studia composizione con Daniele Paris (Conservatorio Luciano Refice di Frosinone) e composizione elettronica con Franco Evangelisti (Conservatorio di S. Cecilia Roma). Si specializza a Siena con Luciano Berio e si diploma in Clarinetto (Conservatorio de L’Aquila 1984). All’Università (Laurea in Filosofia Estetica e Storia del Teatro 1976) segue a lungo i corsi di Cinema e Letteratura ed ha tra i suoi maestri (1974) Pier Paolo Pasolini. Nel 1973 entra a far parte del “Canzoniere del Lazio”, gruppo storico di “cross over” tra musica popolare, jazz, moderna. Negli anni Ottanta lavora spesso come musicista con il teatro di ricerca e la nuova danza, collaborando tra gli altri con Carlo Quartucci, Pina Bausch, Jannis Kounellis, Renato Mambor. Come strumentista e compositore è presente nei più importanti festival continentali di musica contemporanea. Studia nel 1987 tecniche e interpretazione del Raga presso il “Performing Art Institut”  Indu University di Varanasi (India). Trova successivamente una propria identità artistica e una personale cifra musicale e scenica negli anni Novanta arrivando a definire una sua musica e una scrittura “ transgenica e postcontaminata” in cui sono presenti radici etniche, jazz, elettronica, poesia, rock e musica contemporanea. Organizza una sua speciale formazione l’”Hypertext O’rchestra” che vede in scena, tra gli altri, personaggi della musica internazionale come Jivan Gasparyan, Paolo Fresu, Badara Seck, Danilo Rea, Alex Balanescu, Petra Magoni, Fratelli Mancuso, Armandinho, Efren Lopez, Raiz, Gian Luigi Trovesi, Carlo Rizzo, Lucilla Galeazzi, Urna Chaktar Tugky, Sal Bonafede, Ralph Towner,Patrizio Fariselli, BNET HOUARYAT. Nel 2002 pubblica l’album Tangerine Cafè giudicato dalla critica miglior disco europeo di World Music e segnalato anche dalla rivista “Roots” come miglior lavoro discografico dell’anno. Fonda nel 1997 e dirige fino al 2007 con altri il Festival della parola roma poesia e collabora ‘in concerto’ con numerosi poeti e scrittori tra i quali John Giorno, Paco Taibo II, Lello Voce, Aldo Nove, Vidiadhar S. Naipaul, Umberto Eco, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Achille Bonito Oliva, Valerio Magrelli. E’ cn Mauro Pagani in concert al Live8 di Roma nel Luglio 2005. È direttore artistico dell’Etichetta indipendente “Officina Mediterraneo/MRF5”, centro di produzioni ed edizioni multicodice. Come regista e videomaker ha diretto più di dieci documentari ed è Premio Regia 1994 al Festival di Salerno con l’Opera dei canti e dei cunti prodotta da RAI International. Come saggista ha pubblicato il libro Kunzertu.La musica in Italia (Longanesi 1977). Suo il romanzo la banda dell’idiota” ( ed. Stampa Alternativa 1977). Collabora periodicamente con testate nazionali e internazionali e riviste di cultura.
Docente a contratto  di Storia della Musica presso l’Università La Sapienza di Roma dal 2002 al 2007 e presso l’Università per stranieri (Unistrasi) di Siena nel 2007/8, nel 2010 inizia la preparazione del film Transeuropae Hotel, una produzione italo-brasiliana in collaborazione con Sicilia Film Commission, MiBact e Istituto Luce, una storia di musica, di scienza e “scomparizioni” per un percorso tra pensiero magico e pensiero razionale. Conclude nell’estate 2012 il film Transeuropae Hotel già selezionato in concorso al Festival du Cinema du Monde di Montreal sezione “Focus on the world”, Festival du cinema Italienne de Annecy, Terra di cinema (cinema italienne ) Amiens, Sudestival 2013, Copenaghen International Cinema Festival, Washington maggio 2013.Il film vince nel 2013 l’Award come miglior lungometraggio Italiano al RIFF ( Roma Indipendent Film Festival ).
Nell’autunno 2012 dirige a Tripoli in Libia il primo concerto della nuova pace con l’orchestra classica tradizionale di Tripoli e i solisti Maria Pia De Vito, Sal Bonafede, Lucilla Galeazzi, Gabriele Mirabassi. È presente, nel giugno 2013, come poeta performer al Festival Mondiale di Poesia di Caracas.
Nel 2014 scrive e dirige Il Jazz visto dalla luna con Mimmo Cuticchio, Gabriele Mirabassi, Balanescu Quartet, Lazy Film, Patrizio Fariselli.
(fonte, con tagli, wikipedia)[/info_box]