In ricordo di Biagio Marin a 30 anni dalla morte, di Paolo Medeossi

Il giornalista Paolo Medeossi ha steso un efficace ricordo del poeta dell’isola di Grado, Biagio Marin, nella ricorrenza dei trent’anni dalla morte, avvenuta il 24 dicembre 1985. E’ noto che Marin fu in confidenza con Pasolini che ne apprezzò i versi gradesi fin dall’ ampio saggio posto in apertura del volume La poesia dialettale del Novecento (1952), valorizzandone anche in seguito l’aspirazione all’assolutezza attraverso l’estrema selettività linguistica e la ripresa, solo apparentemente senza evoluzione, di pochi oggetti, colori ed elementi  della natura dal marcato carattere astratto e contemplativo (af). 

Marin, il poeta che cercava il respiro dell’eterno
di Paolo Medeossi

http://messaggeroveneto.gelocal.it – 24 dicembre 2015

“Cavo de nenbo”, testa di temporale, lo chiamava in dialetto gradese l’amatissima nonna Tonia che gli aveva fatto da mamma dopo che, bambino, era rimasto orfano. Un carattere tempestoso, imprevedibile, lo accompagnò in un’esistenza inquieta e vibrante, come dice di lui la biografa Edda Serra, che aggiunge: è vissuto in una condizione di innamoramento perenne. Aspetti che contrastano con il piccolo mondo antico divenuto palcoscenico di una vicenda significativa e decisiva per la cultura del Novecento in questo lembo d’Italia sospeso su problemi sociali e politici spesso incomprensibili a chi arriva da altre zone.
Biagio Marin, il poeta di Grado, l’autore de I canti dell’isola, il polemista, l’anticlericale laico sostenuto da una intensa fede religiosa, l’amico di Prezzolini, di Pasolini e di tutti i protagonisti attraverso i quali è nata la grande letteratura triestina, ha segnato un’epoca come pochi altri e per questo è necessario e giusto ricordarlo oggi, 24 dicembre, vigilia di Natale, a 30 anni dalla scomparsa, avvenuta nel 1985, quando alle due del mattino il suo respiro di novantaquattrenne si spense per sempre, confondendosi con quello del mare sotto le finestre della casetta dove era tornato ad abitare nel 1969, alla fine del periodo più bello, trascorso a Trieste.

Pasolini e Biagio Marin
Pasolini e Biagio Marin

«Il mondo poetico di Marin è quasi sincrono al mondo già così poetico di Grado. A pensarli insieme non si differenziano, tanto la pagina traspare nella realtà», disse Pier Paolo Pasolini che all’amico, tramite un nutrito carteggio, confidava i pensieri reconditi: «Se fosse per me, farei la vita di Dino Campana». E Marin, con il tono del fratello anziano, consigliava prudenza: «Stai attento, certamente ti attendono a qualche varco. Girano strane storielle a tuo riguardo, e tutte tendenti a diffamarti. Stai attento Pier Paolo».
Tutta la vicenda di Marin fu accompagnata da eccezionali incontri e amicizie, dandogli anche per questo un posto centrale nella storia della letteratura di confine. Ruolo inatteso per quel ragazzo sveglio, ammaliato dal fascino femminile, nato il 29 giugno 1891, figlio di Antonio Marin, gestore a Grado dell’osteria “Tre corone”, il che garantiva un po’ di benessere rispetto alla miseria dei pescatori. Per tale motivo, Biagio poté studiare al famoso Staatsgymnasium di Gorizia, dove la sua formazione fece passi da gigante entrando in contatto con personaggi citatissimi nei romanzi di Claudio Magris, come Enrico Mreule, Ervino Pocar, Nino Paternolli, i quali gli parlarono di Carlo Michelstaedter. Amicizie estese poi a Firenze, dove gli italiani residenti in territorio austriaco potevano studiare per un anno. In riva all’Arno, Marin conobbe poeti e scrittori del gruppo “La Voce” e gli intellettuali irredentisti.
Nel dicembre del 1911, nella trattoria degli studenti, grazie a Giani Stuparich, entrò in confidenza con un giovane alto, dai baffi biondi, Scipio Slataper. Quest’ultimo e il “vociano” Giuseppe Prezzolini divennero gli amici più sinceri per il ragazzo di Grado che poi si trasferí a Vienna a proseguire gli studi, allievo del glottologo Carlo Battisti che lo incoraggiò a scrivere in dialetto.
Il 1912 fu un anno strepitoso quanto a esordi: in pochi mesi vennero pubblicati Il mio Carso di Scipio Slataper, la silloge Con i miei occhi, Trieste e una donna di Umberto Saba, il Piccolo canzoniere di Virgilio Giotti, mentre Marin debuttava con Fiuri de tapo, raccolta stampata dall’editore Giovanni Paternolli di Gorizia. Un’epoca in cui a Trieste si sviluppava l’amicizia tra due personaggi ancora sconosciuti, incontratisi per caso, James Joyce e Italo Svevo. Nomi che evocano tutti assieme quel periodo, facendo capire quanto sia alla base di una civiltà quasi inafferrabile nella sua complessità.
La storia di “Biaseto” (così Marin era noto sull’isola) è inquieta anche sotto l’aspetto personale. Sposa una ragazza conosciuta a Firenze, Pina Marini. Si laurea in filosofia a Roma con Giovanni Gentile. Dal matrimonio nascono quattro figli, di cui uno solo maschio, l’amatissimo Falco, il ragazzo in cui rivede Scipio Slataper, l’amico morto durante la guerra da volontario. Ma anche Falco è atteso da un tragico destino: militare in Slovenia, è ucciso in uno scontro con i partigiani il 25 luglio 1943, giorno in cui cade il fascismo.
Per mantenere la folta famiglia, Marin fece l’insegnante a Gorizia, poi venne assunto a Grado come direttore dell’Azienda dei Bagni (si chiamava proprio così), aderì anche al partito fascista, ma essendone poi espulso. Fu perseguitato con sette processi in cui invano si cercò di condannarlo. Alla fine si arrese e se ne andò a Trieste, dove rimase per 30 anni fino alla pensione. Tra i lavori svolti, anche quello di bibliotecario per le Assicurazioni Generali. Intrattenne sempre buoni rapporti con il Friuli, soprattutto con Chino Ermacora e Lelo Cjanton della Filologica.
La fama di poeta comincia a diffondersi dal 1951 con un’opera monumentale, I canti dell’isola, e il premio Barbarani, che richiama anche l’attenzione di Pasolini. Da cantore di Grado diventa sempre più cantore della vita, rappresentativo non di un mondo provinciale, bensì della cultura italiana del secolo, come espressione di una regione uscita dalle tragedie di due guerre. Il ritorno nell’isola ripropone però il difficile dialogo con la sua gente. In una poesia dice: «Stanco de solitae / l’omo ha batuo ala porta / de dute le contrae / de la so zente morta». In questa fiaba lirica racconta dunque la condizione del poeta, che affronta strade sconosciute se vuole spezzare il cerchio che lo tiene prigioniero.
L’opera di “Biaseto”, come sostiene Elvio Guagnini, non si configura quale una generica raccolta di liriche o un canzoniere di tipo petrarchesco, ma piuttosto come un giornale di viaggio, un archivio, un diario, dove trovare la straordinaria voce di uno scrittore europeo, italiano, gradese che ha cercato il respiro dell’eterno, la via della verità (la persuasione citata da Michelstaedter) e il senso di un universo mai scoperto prima, dicendo di sé: «Me so el specio terso d’un fondào. Me so el vento».