“Decameron” secondo Boccaccio e PPP, di Fabio Benincasa

Un’analisi di Fabio Benincasa (Indiana University)  sulle relazioni intertestuali e comparative tra Boccaccio e Pasolini, sullo spunto di metodo offerto dal saggio di Simone Villani, Il Decameron allo specchio. Il film di Pasolini come saggio sull’opera di Boccaccio ( Donzelli, 2004).

di  Fabio Benincasa

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La più recente tendenza critica, affrontando comparativamente testi e media differenti, non si muove all’interno delle singole testualità, per raffrontarle in un successivo momento di analisi, ma si concentra piuttosto direttamente sulla relazione che può scaturire tra diversi ambiti testuali. La relazione a questo punto diventa una zona neutra nella quale due ambiti si possono incontrare al di là delle differenti pratiche linguistiche che li informano, costituendo il punto di partenza per un’analisi da subito comparativa e intertestuale.
II saggio di Simone Villani, Il Decameron allo specchio, edito per i tipi della Donzelli, sembra confermare una simile impostazione. Il libro, strutturato in dieci parti, come le giornate del Decameron, affronta l’incontro fra il classico medievale di Giovanni Boccaccio e la riscrittura filmica realizzata da Pier Paolo Pasolini nel 1971. Al centro del libro si trova l’idea che Pasolini ha realizzato la sua pellicola organizzandola come un vero e proprio saggio reinterpretativo del Decameron. La narrazione cinematografica, con le sue peculiarità, consente di fornire nuova vita al testo boccacciano, ponendolo non come semplice oggetto di analisi, ma come prodotto contemporaneo, proprio perché la costruzione drammaturgica e l’evoluzione concettuale che innerva le novelle pasoliniane altro non è che un modo di tradurre la complessa architettura delle giornate del libro in un’opera audio-visiva.
Villani ritiene che Pasolini veda in Boccaccio prima di tutto il grande narratore, colui che dentro le griglie della cornice e delle giornate sa fare esplodere tutte le variabili possibili di un intreccio. Nel momento in cui Pasolini si pone come interprete in un diverso medium di Boccaccio, il regista si trasforma in una sorta di ermeneuta narrativo e le differenze di approccio, che la narrazione cinematografica necessariamente pone all’autore rispetto alla narrazione in prosa letteraria, asseconda la possibilità del regista di variare sul tema, ferma restando l’attitudine a costruire un intreccio. Al centro del saggio troviamo dunque la relazione che si istituisce fra due narrazioni di diverso tipo: la membrana osmotica che unisce e al contempo separa il testo boccacciano e il testo filmico è costituita dalla sceneggiatura.
La prima novella scelta da Pasolini, quella di Andreuccio da Perugia, mostra chiaramente come il regista friulano riscriva Boccaccio semplificandone la struttura, soprattutto, usando le parole di Villani, “calmierando l’andamento tumultuosamente oscillatorio del tracciato narrativo in favore di un procedere più disteso”. Questo “calmierare” è appunto la via maestra prescelta dal regista per passare, attraverso il filtro della sceneggiatura, da una modalità di rappresentazione ad un’altra. Tuttavia la reinterpretazione pasoliniana in quanto tale non nega il testo originario: anzi lo integra con l’intenzione di vivificarlo, offrendolo in tutta la sua contemporaneità agli sguardi degli spettatori contemporanei. Non è un caso che Villani leghi alla figura del candido Andreuccio pasoliniano quella di Guido Cavalcanti con il suo balzo ad un tempo fisiologico e letterario (il motto d’arguzia).
Rendere vive e immediate, tramite la narrazione filmica, figure come Andreuccio e Guido vuol dire rendere odierno il tessuto esperienziale dell’uomo del Decameron ed esaltarlo in chiave contemporanea. Andreuccio è un uomo metastorico, come fu, secondo Pasolini, il soggetto medievale di Boccaccio che all’inizio dell’epopea cittadina e borghese ha ancora un suo grado di candore nell’approccio all’esperienza della vita. In questo il Pasolini intellettuale e artista vuole rispecchiarsi completamente nell’intellettuale Boccaccio che si abbandona al flusso narrativo del mondo.
La semplificazione non è l’unica tecnica pasoliniana analizzata e in tutto il saggio sono più volte elencate le differenti strategie testuali adoperate dall’autore, tramite le quali Pasolini rimpagina le novelle, offrendo una serie di interpretazione personali e originali che oltrepassano la semplice filologia della lettura boccacciana. A questo proposito diventa fondamentale analizzare le due novelle che funzionano da cornici per l’intero film: quella di Ser Ciappelletto e quella di Giotto. Non volendo ricorrere ad un elemento meta-rappresentativo esplicito di ambiente cortese, come il giardino dove i giovani e le fanciulle si raccontano le loro storie, Pasolini decide di trovare all’interno stesso del materiale narrato le due storie cardine che devono incorniciare concettualmente due metà del film. Entrambe le storie hanno a che fare con la rappresentazione.

Pasolini-Decameron-in-evidenza
La vicenda di Ciappelletto non si incentra sul tema di un uomo che non si pente, come Don Giovanni, ma al contrario si rovescia in una paradossale opera di elevazione che vede il protagonista diventare veramente il sant’uomo che simula di essere per il suo ignaro confessore. La seconda novella-cornice, in piena dinamica rappresentativa, ha come protagonista un artista, Giotto, interpretato non a caso da Pasolini stesso. Ciappelletto e Giotto hanno funzioni diverse: il primo è comunque un personaggio che interagisce con gli altri; invece, interpretando Giotto, Pasolini arriva alla piena autoriflessività dell’opera. Villani ci ricorda come il progetto pasoliniano originale non fosse “bipolare,” ma “tripolare,” con una terza parte modellata sulla storia di Chichibio. Ebbene l’episodio di Giotto, uomo che sogna un’opera come talmente bella da non poterla realizzare, che osserva la vita, ma non vi si mischia, impedisce all’autoregista di chiudere in maniera univoca il suo prodotto.
La nostalgia per una società ormai già svanita e fuori dalla storia, come quella del medioevo del Decameron, diventa pertanto l’evocazione di un universo mitico e preistorico destinato a rimanere fantasmatico. Per questo motivo a Pasolini non resta che reinventarlo di continuo nelle successive costruzioni narrative che finiranno per costituire la famosa Trilogia della Vita. Nel film, dunque, la narrazione boccacciana trova secondo Pasolini il suo sbocco novecentesco: l’opera aperta.