1974. PPP e lo psicoanalista Elvio Fachinelli in contatto, di Dario Borso

«Dall’età dell’innocenza siamo passati all’età della corruzione», affermava Pier Paolo Pasolini in un’intervista del 1973. Una dicotomia efficace, ma semplicistica. Così almeno apparve al grande psicoanalista Elvio Fachinelli, che allora gli scrisse una lettera. Tra lui e il poeta corsaro poteva dunque avviarsi un fertile dialogo, ma l’isolamento pasoliniano ebbe la meglio.
Per i tipi di DeriveApprodi  arriva ora in libreria la raccolta di scritti Al cuore delle cose, che edita la quasi totalità dei testi di Fachinelli,  di tenore variamente politico, consegnati alla carta stampata (quotidiani, settimanali, riviste): sessanta scritti (dall’articolo al saggio, dal diario alla conferenza) di cui cinquanta erano praticamente introvabili, mentre i restanti dieci sono comparsi in antologie ormai non più in commercio. Rivolta studentesca, lotte operaie, speranze e accelerazioni negli anni Sessanta; terrorismo, derive autoritarie, progetti di autonomia, delusioni e tracolli nei Settanta; riflusso edonistico, innovazioni tecnologiche e nuove forme di sopravvivenza negli Ottanta: questi fondamentalmente i temi trattati, con un approccio per chiavi e spie assolutamente inedite, per brevi rilievi sismografici che segnalano una realtà in continuo movimento. Non quindi storia, e men che meno enciclopedia:  piuttosto un mosaico formato dallo sguardo obliquo di uno straordinario psicanalista, che della psicoanalisi e di Sigmund Freud ha adottato la capacità di cogliere i particolari illuminanti, gli imprestiti delle esperienze altrui, le persistenze di uno stile nell’alternarsi dei periodi, qui di tre decenni.
Per l’occasione di questa uscita editoriale il curatore Dario Borso ha rispolverato l’episodio in cui nel 1974  lo psicoanalista Fachinelli entrò in contatto dialettico con  Pasolini, senza che tuttavia il dialogo tra i due conoscesse un successivo sviluppo significativo. Riprendiamo la notizia da www.vita.it del marzo 2016, insieme ad un riconoscente  ritratto di Fachinelli  firmato da Marco Dotti.

Un tentativo di dialogo: Fachinelli e Pasolini nel 1974
di Dario Borso 

www.vita.it – marzo 2016

L’11 gennaio 1974 lo psicoanalista Elvio Fachinelli scrisse una lettera a Pier Paolo Pasolini dopo aver letto sull’”Espresso”  il resoconto di una polemica con Edoardo Sanguineti, che iniziava con brani del pasoliniano Sfida ai dirigenti della televisione [poi in Scritti corsari con il titolo Acculturazione e acculturazione, ndr.] apparso sul “Corriere della Sera” del 9 dicembre precedente: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta […] Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata […] Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana […] Fino a pochi anni fa, [i sottoproletari] rispettavano la cultura,[…] erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. […] Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale».
Il giornalista citava poi altri bani della replica sanguinetiana apparsa su “Paese Sera” del 27 dicembre [con l’articolo La bisaccia del mendicante, ndr.]: «Sono proprio dei cafoni, i sottoproletari dei nostri tempi! Perduta la splendida “rozzezza” di un tempo, non hanno più soggezione per il latinorum del signor curato… Felici gli analfabeti d’una volta che erano analfabeti veri, interi, tutti come si deve, tutti con il “mistero”, zitti, ordinati e contenti, con l’Eiar e il Dopolavoro… Marx però era stato assai poco sensibile alla “irripetibile bellezza contadina”, la quale aveva anzi sbugiardato come “sfruttamento mascherato di illusioni religiose e politiche”».
Infine, riportava un’esternazione di Pasolini: «Il fascismo non disponeva altro che della Chiesa, della retorica e delle squadre d’azione, per piegare al suo volere il popolo italiano… Ma questi qui hanno la televisione, che raggiunge tutti. Cosa ne sa Sanguineti, vissuto tra il salotto e la scuola, della vita popolare? Lo sapevamo gente come me, Penna, Comisso, esplosi fuori dal bozzolo borghese, esclusi, reietti, costretti a non vivere se non confusi dentro il popolo, nascosti dentro la sua oscura, anonima protezione. Sì, la vita popolare d’allora era più felice, perché così appartata che neppure il fascismo riusciva del tutto a contaminarla».

"Il Corriere della Sera" con l'articolo corsaro di Pasolini "Sfida ai dirigenti della televisione" (1974)
“Il Corriere della Sera” con l’articolo di Pasolini “Sfida ai dirigenti della televisione” (9 dicembre 1973)

Fachinelli dal canto suo esordisce: «Non leggendo “Paese Sera”, non conosco il pezzo di Sanguineti, ma dalla citazione mi pare un modesto esercizio ortodosso marxista di un professore tranquillamente incattedrato e tranquillamente picì, di cui forse potranno piacere la malignità e la bravura letteraria, ma che rimane del tutto estraneo alle ragioni che motivano la passione e l’urgenza dei suoi interventi di questo periodo. Lei ha le antenne per accorgersi dei mutamenti in corso, Sanguineti no».
E aggiunge: «E’ un po’ quello che è successo nel ’68: la rabbia che gli studenti provocavano in lei era chiarissima partecipazione, mentre le fredde e molto ortodosse osservazioni di Sanguineti erano già allora coerenti con il suo attuale presente» (il riferimento, oltre all’arcinota Il PCI agli studenti!!  dove Pasolini nel maggio 1968 difendeva i poliziotti, è alla coeva Rivolta e rivoluzione, dove Sanguineti su “Quindici” definiva gli studenti «anime belle» contrapponendo loro la linea Marx-Lenin-Mao).
Qui Fachinelli cambia registro, per riferirsi a un’intervista sul «Giorno» del 29 dicembre 1973 (non ripresa nei “Meridiani” Mondadori), dove Pasolini affermava: «Dall’età dell’innocenza siamo passati all’età della corruzione […]. E’ stata la civiltà dei consumi, un fatto senza precedenti nella storia dell’uomo. Tutto è cominciato verso la metà degli anni Sessanta, la contestazione del ’68 oggi appare come l’ultimo sprazzo di vitalità, un movimento collettivo millenaristico. Si è chiusa l’epoca di quel mondo antico e barbarico che amavo […] il centro ha raggiunto la periferia e si è insediato in essa, nella sua anima, con la televisione e la moda. La periferia è andata verso il centro grazie alle strade e alla motorizzazione. […] sarei contento, disposto a rinunciare a qualunque cosa per il reimbarbarimento del mondo: un mondo in cui valga la pena di lottare. Oggi per chi lotti se il popolo non esiste più?».
Fachinelli nella lettera commenta: «Mi chiedo se l’isolamento in cui si viene a trovare non si leghi a quella dicotomia che lei stabilisce tra “innocenza” e “corruzione”, con nostalgia della prima e rifiuto della seconda. Non le sembra che, parlando di innocenza, Lei metta in atto una idealizzazione, e che questa le sia possibile solo staccandosi, considerandosi staccato da quella “barbarie” e dalle sue vicissitudini? Ora, il movimento che ha portato il ragazzo di borgata al centro della città è lo stesso che ha portato lei all’uso del cinema, della tv, della provocazione culturale… Si potrebbe quindi vedere, nel suo rifiuto della “corruzione”, come un implicito giudizio negativo, in nome di quelle esigenze profonde riposte nella “innocenza”, di tutta una serie di attività, sue e di altri, connesse alla “civiltà dei consumi”. Scoprire in sé, per così dire, una zona di futilità distruttiva».
Una specie di affabile «Conosci te stesso», che ventilava però una messa in mora delle dicotomie pasoliniane, con tanto di bibliografia, se la lettera conclude annunciando l’invio del Bambino dalle uova d’oro, raccolta in uscita per Feltrinelli: «Troverà dentro questo libro, e di questo sono sicuro, in particolare nelle note, qualcosa della sua insoddisfazione e delle sue tragiche domande di questo periodo».
Le note, risalenti all’estate 1973, erano sei per una dozzina di pagine in tutto. La prima e più lunga segnalava nel presente «uno smantellamento del super-io civile, con emersione in primo piano di pulsioni sessuali e aggressive precedentemente rimosse o sublimate. Indice di questa situazione sarebbero, da un lato, la permissività sessuale, intesa come esplicazione di attività sessuali non segnate, o meno segnate, da senso di colpa, e, dall’altro, una riappropriazione di aggressività da parte dei singoli o dei gruppi, fuori del “monopolio” tradizionale finora esercitato dagli Stati».
Rispetto a ciò, Fachinelli ipotizza: «Se la psicoanalisi ufficiale avesse tenuto presente questa possibilità di “astuzia” da parte di Eros, avrebbe evitato di ricadere nella riprovazione “scientifica” dei nuovi, informi comportamenti emergenti nei singoli e nei gruppi, che le è stata propria, e che l’ha di fatto accomunata alla saggistica del rimpianto, di qualsivoglia intonazione». Ma al contempo avverte che «la pulsione di morte esprime in Freud qualcosa di più profondo e radicale, un pericolo più grande che egli ha chiamato “tendenza a dissolvere le unità organiche, vitali, create da Eros, e a ridurle allo stato primevo, inorganico”».
Che il rinvio fachinelliano alle note contenesse un velato de te fabula narratur?
Chissà … Certo è che Pasolini, le avesse lette o meno, pur mantenendo nei mesi successivi un rapporto con lo psicoanalista, mai vi farà riferimento.

Elvio Fachinelli e Jacques Lacan
Elvio Fachinelli e Jacques Lacan

Non si ridicolizza il reale. La lezione di Elvio Fachinelli
di Marco Dotti

Una psicoanalisi della domanda e non della risposta. Fu questa la lezione di Elvio Fachinelli, lo psicoanalista scomparso nel 1989, che nell’Italia vedeva una «tragedia continua, alla quale manca sempre l’ultimo atto». Oggi, una raccolta dei suoi interventi e dei suoi articoli sulla realtà italiana rilancia la questione: siamo sempre il Paese delle chiacchiere e delle lacrime o sappiamo andare oltre?

Il 21 dicembre 1989, un giovedì, a Milano, moriva Elvio Fachinelli. In quelle ore, in un altrove che credevamo non ci riguardasse troppo ma coglieva forse meglio e certo più di tanti scenari il cuore infinitamente nero del nostro tempo che proprio Fachinelli aveva saputo indagare con il rigore eccentrico del flâneur, Nicolae Ceausescu, uno di quei piccoli uomini senza rigore e senza smalto che talvolta fanno la storia, si affacciava dal suo palazzo presidenziale e ripeteva una menzogna di lungo corso.
Nelle parole pronunciate in quello che fu il suo ultimo discorso pubblico, il conducător mostrava un misto di incredulità e disprezzo. Incredulità rispetto ai fatti di Timişoara, alle rivolte, ai minatori, allo sgomento per la “necessaria” repressione. Disprezzo per una realtà che non solo gli era sfuggita di mano, ma proprio non vedeva più, continuando imperterrito a parlare di «società plurilateralmente sviluppata» e di «splendore del socialismo romeno». Il giorno dopo, di quello splendore e di quello “sviluppo onnilaterale” sarebbe rimasta solo la polvere. Il ritorno all’ordine non aveva avuto luogo. E noi, scomparso Fachinelli, avevamo uno sguardo in meno per cogliere ciò che davvero stava mutando fuori, dentro e persino oltre di noi.
Elvio Fachinelli era nato a Luserna,in Trentino, nel dicembre di sessantun anni prima. Aveva trascorso gli anni dell’infanzia a Melun, una cinquantina di chilometri da Parigi, dove si erano trasferiti i genitori – il padre era impegnato nel settore edile -, si era laureato in medicina a Pavia, specializzato all’Ospedale Maggiore di Milano dove conobbe Enzo Morpurgo. Cominciò a lavorare presso una casa di cura (tra i suoi colleghi figurava anche Franco Fornari) e infine fu avviato all’analisi da Cesare Musatti.
«Probabilmente, con i criteri attuali», osserverà Fachinelli, «sarebbe giudicata un’analisi selvaggia, come del resto le analisi fatte dalle prime generazioni di psicoanalisti. Eppure secondo me è stata una buona analisi: ho ricevuto sorprese, e questo per me è fondamentale in ogni analisi. Ho imparato e mi sono anche divertito». Servirebbe tutta un’archeologia di quegli incontri e di quei, topologicamente parlando, “divertimenti” per capire il “dopo” di una delle teste più lucide e attive dell’altra cultura, quella né contro per posa, né dentro per vocazione. Semplicemente diretta al cuore delle cose.
Confliggere – ma su questo si è detto e scritto tanto – non sarebbe mai stato “il” problema per Fachinelli che, editore, redattore, parte attiva di imprese al limite dell’utopia (ricordiamo l’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano, aperto il 12 gennaio del 1970), non è stata figura di second’ordine nel panorama culturale italiano. Né apocalittico, né integrato, Fachinelli mostrava una modalità atipica ma non esclusiva di venire ai ferri corti con le cose. Toccare il loro cuore era ben più necessario che colpire retoricamente al cuore un Moloch di per sé senza cuore.
Il “dopo”, a partire dal 1967, ci consegna un Fachinelli già co-curatore della Traumdeutung freudiana per il primo volume delle Opere edite da Boringhieri. Ma a Fachinelli, nel 1965 divenuto membro della Società Psicoanalitica italiana e avviatosi alla professione di analista, non bastava l’interpretazione dei sogni. Bisognava muovere anche da un’altra urgenza: interpretare i segni. Soprattutto quando scendono in strada. Soprattutto quando, più che i sogni, sono gli incubi a coprire con la loro ombra quella “cosa” che – dopo il diluvio lacaniano – abbiamo persino timore di pronunciare: il reale.
All’inizio del suo lavoro, Freud pose non a caso un esergo virgiliano tratto dall’Eneide, esergo che sarà sempre molto caro a Elvio Fachinelli che lo riprenderà in una memorabile puntata di “Fuori Orario” dove, nonostante la malattia avanzasse, continuò a tenere una rubrica fissa:

Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo”.
[Se non posso piegare le potenze del cielo, muoverò quelle dell’inferno].

In qualche modo, il rapporto col concreto e con la realtà. Il reale, fantasma che troppi, con l’alibi di Lacan, hanno teso a ridicolizzare, era tenuto in massimo conto da Fachinelli, che al corteggiatissimo Jacques Lacan conosciuto a Roma e frequentato a Milano oppose un gran rifiuto, quando il 30 marzo del 1974 rifiutò l’investitura a presiedere la sezione italiana dell’École freudienne.
«L’incubo è reale, questa volta, ed è qui la sua importanza collettiva», scriveva Fachinelli in un testo pubblicato su “L’Espresso il 7 novembre del 1971 con il titolo Ritorno all’ordine. Parlava di un caso di cronaca, uno di quei faits divers che di lì a poco avrebbero invaso spazio e campo del sociale tutto, per non parlare del politico allora ritenuto autonomo da quel sociale. Parlava Fachinelli – ma senza la fredda anatomia del semiologo – della scomparsa di tre bambine a Marsala. Una di essere venne ritrovata morta alcuni giorni dopo, uccisa dallo zio. Ma questo si seppe solo fuori tempo massimo, dopo l’ennesima caccia al mostro. Dentro quel testo – ma si potrebbe dire in quasi tutti i sessantun articoli, interventi e microsaggi raccolti in volume – c’è già tutto.
Quante volte l’abbiamo sentito dire? Eppure è così e c’è da rabbrividire se confrontiamo i predicozzi degli “psicotutto” da tastiera con i testi raccolti in Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989), edito da DeriveApprodi per la cura minuziosa di Dario Borso, che in tre pagine di introduzione riesce a spiegarci Fachinelli più e meglio di tanto inchiostro e parole spesi in forma agiografica su di lui. Articoli brevi e lunghi, interventi e interviste spesso introvabili.
Ritagli di giornale che si rianimano in un’inedita e attuale cornice di senso, ben oltre l’esperienza della rivista “L’Erba voglio”, fondamentale certo ma non esclusiva del suo lavoro.
Il lavoro di collazione di Dario Borso è discreto, non straripante come si conviene al filologo e alla vecchia talpa che riaffiora a prender aria solo dopo tanto scavo, e proprio per questo ancora più utile se, come si spera, finirà tra le mani anche di lettori che di quei “formidabili anni” non sono reduci ma, tutt’al più, “prodotti”. Se accogliamo l’intuizione del curatore, secondo cui il paziente più complicato dell’analista Fachinelli «fu l’Italia, e il trattamento più lungo fu della realtà italiana», dobbiamo anche aggiungere che Fachinelli fugge sempre dalla boria sociologica e si concentra su fatti “grandi” ma con attenzione al minuto, al linguaggio, alle piccole crepe nella grande muraglia.
Borso parla non a caso di una psicoanalisi della domanda, invece che della risposta e di uno sguardo obliquo, appreso da Musatti e da Freud. Dell’Italia, «quasi fosse un quadro, seppe cogliere i particolari illuminanti, gli imprestiti da esperienze altrui, le persistenze di uno stile nell’alternarsi dei periodi: tre decenni tondi, che nella sua attività giornalistica sezionò e ricompose con sapiente tempestività». Un’attività giornalistica, disseminata non solo sulle riviste ma su quotidiani – “Il Corriere della Sera, “Il Giorno – su temi “caldi” come il terrorismo, Mao, le nuove droghe, la vita nelle metropoli, la mutazione dei cristianismi. Memorabile un suo ritratto, datato 1985, di Roberto Formigoni dove coglie sul nascere il “nuovo che avanza” e che, dopo il 1989, si sarebbe affermato a pieno titolo nelle coscienze e in un immaginario antropologicamente mutato e sradicato persino nelle dinamiche del suo perenne mutamento.
Torniamo all’articolo pubblicato dall’”Espresso”. Fachinelli parla di un fenomeno che potrebbe essere dell’oggi, perché sempre l’oggi è la risultante di un processo di media o lunga durata. Se nella sfera pubblica ha spazio solo «chi lacrima e chi sanguina», come ebbe a dire un noto impresario brianzolo che di lì a poco sarebbe passato dalla speculazione edilizia a quella sull’immaginario e infine a una politica degna di Ubu, i nostri incubi privatissimi rischiano di assumere importanza collettiva e diventare tragicamente reale.
Fatti su fatti, ma che cosa accade se ogni fatto – è questa la cronaca? – si inserisce  «in una serie di altri fatti (politici, sociali, morali) che hanno in comune una sola cosa, ma essenziale: la circostanza di non avere soluzione, di non trovare sbocco?». Viviamo – e non da ora – «tragedie in cui manca sempre l’ultimo atto». Incubi dove l’intensità della partecipazione collettiva consuma ogni desiderio. Che fare? Siamo a un bivio. Oggi più di ieri, e sono passati 45 anni.
Da una parte, scriveva Fachinelli a proposito dei fattacci di Marsala, «ci si libera dall’incubo e si va verso una realtà accettabile. Questo vuol dire, per esempio, affrontare di petto quella serie di problemi collegati che si chiamano educazione sessuale, controllo delle nascite, liberazione della donna, critica pratica dell’istituzione familiare. È la strada meno probabile.
L’altra è stare nell’incubo e vederlo progressivamente crescere e proliferare dentro la vita collettiva e dentro ogni individuo». Diagnosi impeccabile sul corpo di un’Italia malata. La cronicità del suo male, i tempi lunghi dello snervamento nulla tolgono alla lucidità attualissima delle diagnosi di Fachinelli. Nella miseria di chierici asserviti al selfie, tutt’al più la confermano.

[info_box title=”Elvio Fachinelli” image=”” animate=””](Luserna, 29 dicembre 1928-Milano, 21 dicembre 1989) è stato uno psichiatra e psicoanalista italiano.
Laureatosi in medicina a Pavia nel 1952, dove fu alunno del Collegio Cairoli, si specializzò in neuropsichiatria a Milano nel 1961 con una tesi sul test di Rorschach nei pazienti fobici e ossessivi. Entrato a far parte della Società Psicoanalitica Italiana nel 1966, dopo un training analitico con Cesare Musatti, collaborò per oltre vent’anni con importanti riviste del settore come “Il corpo”, “Quaderni Piacentini”, “Quindici”. Forse il suo più importante contributo alla psicologia, in particolare infantile, è stata la promozione della cosiddetta pedagogia non autoritaria, estrinsecatasi anche con la creazione di progetti pratici, come un asilo autogestito nella zona di Porta Ticinese a Milano.
Tra i promotori di un convegno sulle esperienze non autoritarie nella scuola, da questo trasse lo spunto per la fondazione, assieme a Lea Melandri, della rivista (e casa editrice collegata) “L’erba voglio” (1971-1977). Nella sua carriera ha inoltre collaborato alla divulgazione dell’opera di Sigmund Freud, curando la traduzione di alcune delle sue opere più importanti. Luserna, sua città natale, gli ha intitolato la biblioteca locale, dove sono raccolte le sue carte. Le sue opere sono in ristampa presso Adelphi, a cura della figlia Giuditta Fachinelli. (Fonte wikipedia)[/info_box]

*Foto in copertina: © Marisa Rastellini, 1962