Martedì 8 marzo 2016 alle 10.30, nella Sala Conferenze della Biblioteca Nazionale di Roma, ci sarà l’incontro-proiezione Dalla borgata al laboratorio di scrittura, con la regista Cecilia Mangini, la prima donna a girare documentari nel dopoguerra.
È stata in grado dar vita ad alcune tra le più belle immagini dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, mettendo in evidenza quella fase di passaggio del Paese che, a poco a poco, si allontanava anche dal fascismo verso un’organizzazione industriale. La sua macchina da presa ha esplorato l’Italia volgendo spesso lo sguardo al Sud, soprattutto alla Puglia e al Salento, alla ricerca dei rituali di una cultura antica che andava scomparendo, travolta dalle veloci trasformazioni imposte dal boom economico. Oltre a Pier Paolo Pasolini, il percorso di Cecilia Mangini ha incrociato figure del calibro di Vittorio De Seta, Gianfranco Mingozzi, Vasco Pratolini, Florestano Vancini. Nel 2014, è tornata dietro la macchina da presa scrivendo e dirigendo, insieme a Mariangela Barbanente, il documentario In viaggio con Cecilia, film on the road che si svolge tra Taranto e Brindisi, un documentario di riflessione e d’inchiesta. Un ritorno in quel Sud che Cecilia Mangini aveva raccontato nei suoi precedenti lavori.
Nel lontano 1958, la giovane regista filmò un gruppo di ragazzini romani che vagavano per le strade e chiese la collaborazione di Pier Paolo Pasolini: «Io non ero nessuno, avevo solo firmato qualche fotografia, ma nonostante tutto Pasolini ha accettato». Ciò portò a un sodalizio artistico che proseguirà per i successivi quattro anni, fino al 1962. Il documentario in questione è Ignoti alla città, cortometraggio in Technicolor che, per vendetta contro Pasolini, fu censurato dal ministro Tambroni con l’accusa di istigazione all’immoralità: il pretesto fu fornito dal fatto che nel film tre di quei ragazzini commettono un piccolo furto. Con la sceneggiatura e regia di Cecilia Mangini, il commento di Pasolini, in un certo qual modo, corrisponde ad una sorta di versione documentaristica del suo romanzo Ragazzi di vita, pubblicato da Garzanti nel 1955, e, come racconta la stessa Mangini, «chi avrebbe potuto, se non lui in persona, dare voce a quelle immagini?» Voce che certamente è «un grande valore aggiunto».
Il secondo documentario è Stendalì. Suonano ancora (1960), il cui soggetto è tratto da Morte e pianto rituale di Ernesto De Martino, su testi originali di Pier Paolo Pasolini. Il corto è incentrato su un suggestivo canto sacro funebre delle donne di Martano, in Salento, le quali parlano un dialetto greco. Pasolini creò quel canto funebre tratto da diversi testi greci.
Il terzo e ultimo corto è La canta delle marane (1961), che vede di nuovo protagonisti dei ragazzini che fanno il bagno, inizialmente scherzando e giocando, poi con grande malinconia: il bagno è un «momento ludico ma anche di protesta», di protesta contro il mondo: «ci era piaciuto farne dei ribelli, a Pasolini sarebbe piaciuto». Il commento di Pasolini, tratto da una poesia della raccolta La religione del mio tempo, si associa alla musica di Egisto Macchi.
La marana, un torrente affluente del Tevere, dove l’intero documentario fu girato in 35 mm, si trovava sotto ponte Mammolo, al di là del raccordo anulare di Roma, a circa trecento metri dalla seconda casa romana di Pasolini, il quale, prima di trasferirsi nel quartiere Monteverde (dal ’54 al ’63) e poi all’Eur (dal ’63 al ‘75), visse in via Giovanni Tagliere, in zona ponte Mammolo, vicinissimo al carcere di Rebibbia, tra il ’51 e il ’53.