Davide Pittioni intervista Raoul Kirchmayr, curatore – assieme al direttore Angela Felice – del recente convegno “Pasolini e il politico” organizzato dal Centro Studi Pasolini di Casarsa.
L’immersione nella propria epoca, come la chiami tu, la capacità di essere un protagonista, di esercitare una forza di attrazione, di essere efficaci nel proprio contesto sociale e politico da parte dell’intellettuale, tutto questo ha segnato un momento della storia culturale italiana ed europea che è tramontato con la fine della stagione dell’impegno. Se l’immergersi nelle acque torbide del proprio tempo è essere attuali, di certo è l’inattualità a fare la forza dei grandi autori: pensano con un altro ritmo rispetto a quello della loro epoca, sono dentro e fuori di essa, contemporaneamente. Sismografi sensibili, registrano i movimenti sotterranei del tempo, prima ancora che questi si rendano visibili. Ogni grande autore catalizza su di sé delle forze storiche invisibili e prova, rischiosamente, a darvi una forma. Se pensiamo a Pasolini, l’eccesso che caratterizza il suo stile (o i suoi stili, al plurale) corrisponde, credo, a questo movimento di messa-in-forma dell’invisibile. Inoltre, nel suo caso, c’era l’urgenza dovuta alla rapidità del cambiamento in atto. Paradossalmente, Pasolini era attuale in relazione alla dimensione invisibile della sua epoca, non per quella visibile. La dialettica tra attualità e inattualità può essere intesa come un rapporto mobile, differenziale, tra forza e forma, e ciò mi pare assai presente nella sua opera.
Tuttavia, bisogna fare attenzione a non bloccarsi in questo tipo di lettura di Pasolini, cioè al Pasolini “profetico” che annunzia una nuova, devastante epoca di miseria morale e culturale. Occorre cioè evitare di trovare, o di ritrovare, in Pasolini solo ciò che per noi è ora evidente, riconoscendo in lui la forza della sua lungimiranza. Sono questi i gesti che vanno nella direzione che suggerivi tu: un Pasolini buono come consolazione per comprendere un poco la barbarie del nostro tempo, un autore che può essere citato ma con uno sguardo rivolto al passato, mentre ciò che ci interessa, credo, è di mettere in discussione l’ordine attuale in questo paese e le tendenze antidemocratiche che cercano di affermarsi in ogni campo, riconoscendo così in Pasolini un grande predecessore nella battaglia culturale. Il Pasolini alla moda è un passe-partout da esibire, sebbene ancora con un po’ di circospezione, nei salotti e nei festival, sulle colonne della stampa e negli studi televisivi, a forza di citazioni sulla “mutazione antropologica” e sull’“apocalisse culturale”, sulla critica della “cultura di massa” e della televisione.
Pertanto il pericolo che tu affermi, quello dell’appropriazione del senso di un’opera e di una scomoda posizione politica e culturale, è tanto più reale quanto più si restituisce un’immagine oleografica e volutamente neutralizzata di uno scrittore o di un artista. Oggi assistiamo a una grande trasformazione della società dello spettacolo, la cui produzione fantasmagorica procede di pari passo all’appropriazione anche di ciò che intende opporsi a essa. Pasolini aveva ben messo in guardia di fronte a questa deriva, i cui effetti imponenti cominciamo forse solo oggi a poter registrare adeguatamente. Intendo con ciò gli effetti prodotti dai dispositivi spettacolarizzanti che sono entrati ovunque nella nostra vita, dandole forma e sottoponendola a nuove modalità di produzione-controllo che passano attraverso delle strategie di visibilità. Questi dispositivi sono in grado di neutralizzare grandemente le “cariche sovversive” – come dici – dei pensieri, riducendoli a slogan o a spot per un consumo culturale assai diffuso e alla moda presso settori di società che non tollerano ciò che non è anodino, plastico, liscio e, soprattutto, uniforme. Allora non si tratta di far emergere una dimensione critica – perché ciò tornerebbe al problema della visibilità e del suo controllo – ma di impiegare dei potenziali esistenti in nome di un’asperità che deve essere rivendicata nei gesti e nelle pratiche che siamo in grado di mettere all’opera. Quando il diktat della società dello spettacolo è la fruibilità generale, rivendicare al tempo stesso l’accesso al linguaggio e la difficoltà dell’abitare il linguaggio, l’esercizio del pensiero e la fatica di pensare sono di per sé un gesto critico che può essere appreso e ripetuto per opporsi alla pseudocultura che ci viene costantemente spacciata per “arte”, “pensiero”, “scienza”. Penso che una certa arte dello sviamento e della diversione possano contribuire a far inceppare i dispositivi di cattura spettacolarizzante. Ci sarebbe molto da dire su questo e sulle tecniche di mascheramento e di esposizione, di sabotaggio e di contro-produzione che potrebbero essere impiegate ovunque, perché che siamo tutti implicati in questa situazione. Per tornare a Pasolini, sono d’accordo sul fatto che occorra opporre resistenza alle celebrazioni, per rivendicare invece la necessità di leggerlo e studiarlo senza farne un’icona o un simbolo di appartenenza. Poi penso che sia stato un artista e uno scrittore talmente fuori dalla norma che si comprende anche per quale ragione si sia preferito dapprima ignorarlo, poi attaccarlo e insultarlo. A quarant’anni dalla morte atroce, si cerca di addomesticarne l’opera. Che, nonostante tutto, conserva quell’asperità di cui si diceva sopra.
Il convegno di Casarsa, dal titolo “Pasolini e il politico”, ha fatto lavorare assieme il poeta friulano e Michel Foucault. Proprio Pasolini parlò di “coraggio intellettuale della verità” (“Che cos’è questo golpe? Io so”, Corriere della Sera). Sembra di incontrare una stessa postura critica, un’affinità nello stare al mondo che li rende incredibilmente solidali. Cosa pensi di questa vicinanza?
Quanto a una “politica della liberazione”, come la chiami tu, allo stato attuale è difficile vederne i contorni e perfino identificarne i presupposti. Anzitutto perché non si intravvede un soggetto sociale, economico e politico in grado di avanzare un progetto credibile di alternativa di sistema, quindi perché la parola “liberazione” è al momento un significante usurato, a meno che la storia non ci metta nuovamente di fronte all’incombere di regimi dichiaratamente totalitari, che ne riattiverebbero fatalmente il senso. Il regime di tolleranza e controllo che caratterizza il nostro tempo, almeno nei paesi di cultura e tradizione occidentale, funziona grazie a dispositivi che implicano degli spazi di libertà individuale, ma già costituiti all’interno di spazi sociali quadrettati. Qui la tolleranza è molto grande e, in assenza di evidenti cornici discorsive, questi spazi danno l’impressione di non avere confini, quando invece il cadrillage sociale è l’elemento portante di un controllo sempre più efficace e capillare. Quanto alla possibilità di pensiero, sì, è esattamente ciò che occorre rivendicare, partendo però dall’affermazione di un’impossibilità, cioè che dobbiamo pensare l’impossibile affinché un avvenire sia possibile.
Oltre a questo, c’è da ricordare che l’accusa di conservatorismo rivolta a Pasolini si comprende a partire dalla confusione di piani che devono, invece, essere tenuti rigorosamente distinti, per comprenderne le implicazioni reciproche. I due piani sono quelli dell’opera poetica e dell’analisi sociale e politica. Il Pasolini poeta fa del ricorso alle immagini del passato, alla memoria dei luoghi, una fonte di ispirazione alla quale ritorna costantemente per catturare delle forze arcaiche. Il Pasolini analista guarda con occhio appassionato i mutamenti dell’epoca e si interroga su di essi. Ma sarebbe un errore trovare le risposte poste dal secondo nelle parole del primo. Sarebbe un errore e sarebbe ingiusto, tanto nei confronti del poeta, quanto nei confronti dell’analista. Chiaramente qui, a chi non vuole o non può comprendere, fa gioco la straordinaria capacità di Pasolini di impiegare linguaggi diversi, per non dire lingue diverse, lasciando così innumerevoli tessere che però compongono figure solo parzialmente sovrapponibili tra loro. L’aspetto “barocco” di Pasolini – oltre a un certo eccesso di cui abbiamo parlato prima – consiste in questa moltiplicazione dei piani del linguaggio, in questo sperimentalismo che brucia il tempo per un’esigenza di catturare una realtà che procede sempre più rapidamente. Di fronte alla rapidità del mutamento, Pasolini moltiplica gli sforzi linguistici, impiegando codici e tecniche diversi. La sua poliedricità è alla base delle difficoltà di lettura e interpretazione che la sua opera presenta. Da qui le possibili ambiguità circa il suo atteggiamento. Ma si tratta anche di saper leggere e comprendere ciò che ha scritto e detto letteralmente.Fa strano leggere oggi gli interventi di Pasolini dalle colonne del Corriere della Sera. Sembra ricordarci una perdita di cui oggi viviamo gli effetti devastanti: la mancanza di un discorso critico che trovi spazio e, oserei dire, consenso. Come si può superare una tale impasse culturale?Che ci sia in Italia un’assenza di discorso critico, ciò è vero solo in parte. La galassia del pensiero critico è molto ampia e variegata, il problema non sta nella vivacità – forse solo marginale e residuale, ma ben presente – di questo discorso nei settori della società che, per ragioni diverse, si trovano sottoposti a una violenza simbolica reale quale non si vedeva da tempo e che ha reso ancora più fragile una società, quella italiana, da tempo sottoposta a un processo di frantumazione e di isolamento delle sue componenti vive, costrette a ingaggiare una lotta per la conservazione dei legami sociali, per la tenuta delle istituzioni a ogni livello, per contrastare la preponderanza delle forze disgregatrici.
L’impasse culturale che tu segnali è l’impasse della cultura, direi. Intendo dire che l’impasse corrisponde alla difficile elaborazione di una cultura vivente, che sia in grado di confliggere – sugli odierni campi di lotta – per l’affermazione di un’alterità rispetto allo stato di cose attuale. Ciò cui penso e che mi piace prefigurare – perlomeno per sopportare questa lunga fase di regresso civile, economico e politico in cui siamo – è che questa cultura non potrà fare a meno dell’ironia, del paradosso, della distanza innanzitutto rispetto a se stessa, al contempo tragica – perché figlia delle grandi lacerazioni del Novecento – eppure esplosiva come lo può essere una risata o un fuoco d’artificio. Pertanto questa cultura non potrà fare a meno del discorso della psicanalisi come rivelatore delle dinamiche di appropriazione simbolica e di costruzione delle identità collettive, ma non potrà che essere una psicoanalisi che rifiuta di ergersi a consolidamento posticcio dell’identità, o a discorso edificante sul bisogno di ordine, ecc. Non potrà essere dunque una psicoanalisi che blandisce il sintomo cercando di sostituirvi un discorso di valore. I sintomi devono essere messi in scena, dove possono diventare così discorso eversore, nel senso del “girare nell’altro verso”. Torniamo così alla questione della “liberazione” che hai citato prima. C’è processo di emancipazione quando cominciamo a prendere le cose per un altro verso. Il che implica, talvolta, una certa dose di invenzione e di improvvisazione nel contesto simbolico e pratico in cui ci troviamo. Come ben sanno i musicisti che la praticano, per esempio i musicisti jazz, l’improvvisazione richiede un duro esercizio e una lunga preparazione, richiede cioè disciplina. E la disciplina fornisce le condizioni di possibilità per ciò che esula da essa: l’altro, il diverso, l’inaudito. Dovremmo poter pensare a una politica culturale – se non a una politica tout court – che sia in grado di inventare dei significanti resistenti all’usura, almeno per il tempo necessario a dare respiro a una battaglia di civiltà necessaria e urgente. Per questo occorre disciplina, ma pure forza di invenzione, anzitutto per denunciare uno dei più logori ma tuttora funzionanti arnesi dialettici con cui le forze reattive e conservative si riproducono: spacciarsi per il nuovo.