Padre Fantuzzi, in quali aspetti, in particolare, risiedono le ragioni della bellezza del Vangelo secondo Matteo di Pasolini?
“Si tratta di un film unico nel suo genere per più di un motivo. Innanzitutto la fedeltà filologica al testo biblico. Nella miriade di film girati su Gesù, spesso troviamo opere che scadono facilmente in un certo manierismo, nell’oleografia e nell’agiografia. Invece Pasolini ha puntato tutto sull’essenzialità, un’asciuttezza stilistica che si pone nella scia delle sacre rappresentazioni popolari, in cui l’altro protagonista, accanto a Cristo, è il popolo cristiano, la coralità dei fedeli. Pasolini instaura, inoltre, un rapporto fecondo con la tradizione iconografica dell’arte religiosa, un rapporto sottolineato e amplificato dalla scelta delle musiche, Bach soprattutto, per la colonna sonora”.
Come si è posto personalmente Pasolini di fronte al soggetto sacro?
“Pasolini ripeteva di essere ateo, ma il livello raggiunto dal suo film non si spiega senza una profonda partecipazione emotiva al tema. A me sembra che è come se Pasolini si fosse identificato, a un certo grado, con il testo stesso del Vangelo di Matteo, che egli ha tradotto in immagini, in quello che chiamava ‘cinema di poesia’”.
Che effetto le fa rivederlo oggi, cinquant’anni dopo?
“Quando lo vidi la prima volta, nel 1964, da seminarista, fu per me una sorpresa. Nel corso degli anni ogni volta che l’ho rivisto, questa sorpresa non è diminuita”.
Lei ha frequentato a lungo Pasolini. Come l’ha incontrato?
“L’ho incontrato per la prima volta nel 1965. Allora ero un giovane studente di teologia, ero entrato nella Compagnia di Gesù 10 anni prima e incominciavo a interessarmi di cinema. Avendo visto Il Vangelo secondo Matteo, c’era qualcosa che non mi tornava: Pasolini infatti si definiva ateo e materialista, mentre io da quella pellicola avevo ricevuto una forte impressione a livello non solo artistico ma anche spirituale. Così mi feci presentare a Pasolini e iniziò una serie di incontri in cui parlavamo di letteratura, di cinema, ma anche di religione”.
Che tipo di religiosità era la sua?
“La prima cosa che devo riconoscere è il fatto che egli dimostrò sempre una grande solidarietà nei confronti della mia vocazione religiosa. Quelli erano gli anni del post Concilio, in cui si verificò un vertiginoso calo delle vocazioni, oltre alla fuoriuscita di seminaristi e anche sacerdoti. Il ’68 fece il resto. Presso noi religiosi si sentiva parlare spesso di ‘crisi di identità’. Ebbene, su questi argomenti Pasolini con me non ebbe mai una parola meno che delicata. Anzi, potrei dire che alla mia vocazione religiosa ha giovato più la frequentazione di Pasolini che certe lezioni accademiche alla Gregoriana. Nei confronti di papa Paolo VI nutriva sentimenti di rispetto e simpatia. Nella sua opera, del resto, non mancano i segni di un forte senso del sacro, di un umanesimo cristiano che era stato una componente fondamentale nella sua educazione. La sua religiosità si esprimeva anche nella vita. Era una persona estremamente generosa, che senz’altro ha donato più di quanto abbia ricevuto”.