Intervista a David Grieco, regista de “La macchinazione”

Il nuovo film di David Grieco su Pasolini 
di Beatrice Fiorentino

www.ilpiccolo.gelocal .it – 7 luglio 2015

Il primo incontro di David Grieco con Pier Paolo Pasolini, amico di famiglia, avvenne quand’era soltanto un ragazzino. A sedici anni lo scrittore e regista friulano lo scelse per una parte in Teorema scritta apposta per lui, ma in quell’occasione Grieco realizzò che la recitazione non era la sua vocazione e gli chiese di cancellare quel ruolo. Tra i due fu l’inizio di una lunga e profonda amicizia. Basti pensare che, quel 2 novembre 1975, quasi quarant’anni fa, all’Idroscalo, Grieco fu tra i primi a raggiungere il luogo in cui fu trovato il corpo senza vita di Pasolini, insieme al medico legale Faustino Durante. Oggi, il giornalista, saggista e sceneggiatore, a undici anni dalla sua prima regia (Evilenko), sente di non potersi sottrarre alla responsabilità di raccontare il “suo” Pasolini, provando a dare un corpo unico a tutto ciò che su di lui, negli anni, è stato detto e scritto. Uscirà a metà ottobre il suo film, La macchinazione, ma forse lo vedremo prima al Festival di Venezia, o a Toronto, o a San Sebastian. Aspettando l’esito delle selezioni festivaliere, dal 27 agosto si potrà leggere un libro dallo stesso titolo, edito da Rizzoli. Un libro «che inizia dove finisce il film – spiega l’autore – e in qualche modo lo completa».

Qual è stato il suo rapporto con Pasolini?
Ho avuto la fortuna di conoscerlo quand’ero ragazzino e con lui ho instaurato un rapporto maturato negli anni. Pier Paolo ha avuto un peso sulla mia crescita. Era come un fratello, un padre, un amico. Un riferimento. Lui per me era un esempio e io ero un ragazzino. Un ragazzino che per una serie di coincidenze faceva l’attore senza nessuna convinzione. Ero un attore pessimo, ma per un puro discorso morfologico, per la mia faccia, mi si sono presentate delle occasioni che nella Roma di allora pochissimi attori hanno avuto. Che non fossi un attore mi sono accorto proprio con Pasolini, in Teorema. Lui aveva scritto un ruolo per me, ma io gettai la maschera e dopo il primo giorno di riprese gli dissi che non mi sentivo all’altezza. Amavo il cinema ma probabilmente dovevo collocarmi altrove, dall’altra parte.

E dopo quell’esperienza?
Siamo sempre rimasti amici, anche quando sono cresciuto. Inoltre c’era un aspetto in me che lo affascinava. Il fatto che, pur provenendo da una famiglia borghese, fossi cresciuto in mezzo alla strada. Gli piaceva questa mia “doppia identità”. Lui che amava quel mondo di borgata, avendolo raccontato come nessun altro, parlando con Sergio Citti e Ninetto Davoli diceva: “Certo che David è strano. A volte sembra un principino, poi lo vedo insieme a voi e parla esattamente la vostra stessa lingua, nello stesso modo, con gli stessi gesti”, e loro rispondevano: “Sì, lui è uno di noi”. Poi io ho fatto il giornalista, e il legame è diventato più complesso e profondo. Scrivevo per “l’Unità” e quindi ero anche un iscritto al Pci. Con il Pci Pasolini aveva un rapporto molto conflittuale ma anche passionale. Lui cominciò a scrivere per il “Corriere della Sera” e ci capitava di discutere dei suoi articoli da giornalista a giornalista. Io lo punzecchiavo, riportando anche un po’ un pensiero diffuso tra i colleghi. Gli dicevo: “Tu puoi permetterti di scrivere quello che scrivi, e anche in modo apodittico, solo perché sei Pasolini. Se lo fa un altro, lo licenziano in tronco o gli arriva una tempesta di querele”. E lui mi rispondeva: “No, ma io le prove le cerco”. La metteva su questo piano: come giornalista era libero non perché si chiamasse Pier Paolo Pasolini, ma perché a differenza di altri giornalisti, non aveva un editore che lo condizionava o ne dettava l’orientamento.

Il suo lavoro di giornalista, le ultime inchieste, i celebri articoli sul Corriere (“Io so”) hanno avuto un peso sulla sua morte?
Negli ultimi due anni Pasolini si era appassionato a questo mestiere, aveva capito che forse questa era la sua missione: smascherare tutto quello che accadeva nell’ombra in quegli anni nel nostro Paese. Dopo il ’68 in Italia è successo veramente di tutto, lui che disponeva di strumenti culturali straordinari ha portato avanti molti rivoli d’indagine. Rileggere i suoi scritti degli ultimi mesi fa impressione. Un uomo che scrive sul giornale “bisogna processare la Democrazia Cristiana perché ha ceduto la sovranità nazionale di questo paese a una forza straniera, perché in nome di questo sono stati commessi crimini spaventosi e perché se noi non ricostruiamo la nostra storia non ci sarà un futuro” …. Sono tutte cose con cui facciamo i conti oggi. Oltre agli articoli per il “Corriere”, c’era il romanzo a cui stava lavorando, Petrolio. Un libro veramente strano perché non è né un’opera letteraria e neppure un’opera giornalistica: cercava una chiave che forse non aveva ancora trovato. La versione integrale di Petrolio contiene più appunti che pagine finite, stava cercando un linguaggio che letterariamente non esisteva ancora, forse non esiste ancora. Certo, queste sue indagini lo appassionavano e hanno condizionato moltissimo quello che gli è accaduto negli ultimi due anni.

Chi ha ucciso Pasolini?
Pasolini è stato ammazzato da quelli che hanno fatto tutto quello che è stato fatto dal ’69 in poi in questo paese: le stragi, la strategia della tensione, gli omicidi politici, le bombe sui treni, la stazione di Bologna, Piazza della Loggia, eccetera. L’organizzazione era molto vasta e quindi non parlo materialmente delle stesse persone. È un’organizzazione che nasce all’alba della Liberazione, quando gli americani arrivano in Italia, l’esercito tedesco è in rotta e loro già stanno pensando a come fronteggiare il nemico sovietico. Si crea uno Stay Behind che in Italia si chiama Gladio, organizzazione clandestina ma fino a un certo punto perché in America è pienamente nota ed è presente in tutti i rapporti della Cia al congresso americano. Serve a fare qualsiasi cosa purché il comunismo non si espanda e non prenda piede nella parte occidentale o meridionale d’Europa. Qualunque mezzo è lecito.

Cosa racconta il suo film La macchinazione? E perché ha sentito di doverlo girare?
Nel film racconto gli ultimi tre mesi della vita di Pasolini, dal 15 giugno fino alla notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975. Mi sono occupato di Pasolini per moltissimo tempo. Ho scritto la memoria civile al processo Pelosi, con Laura Betti abbiamo costituito il Fondo Pasolini, ho viaggiato per anni portando delle testimonianze anche all’estero. Dopo trent’anni ho detto basta, era una continua celebrazione dolorosa. Ma la scintilla è scattata quando Canal +, con cui ho lavorato per anni, mi chiese di scrivere assieme ad Abel Ferrara la sceneggiatura per il suo film su Pasolini. Non amando Ferrara come regista, non ne avevo molta voglia, ma ho comunque fatto un tentativo presto abbandonato perché mi ha sconvolto il suo approccio. Però questa idea è diventata sempre più ingombrante e allora mi sono detto che forse, volendo provare a fare qualcosa per restituire a Pasolini ciò che mi ha dato, probabilmente avrei dovuto fare un film.

Massimo Ranieri
Massimo Ranieri

Massimo Ranieri interpreta Pasolini. Ha sentito il peso del ruolo?
Altroché. L’ho coinvolto ancor prima di scrivere la sceneggiatura, ho pensato che non potesse essere che lui. Per somiglianza fisica, ma non solo. Siamo molto amici, inoltre penso che sia il migliore attore della sua generazione.  Sono andato a casa sua per spiegargli il progetto e lui mi ha detto che era terrorizzato. Gli ho risposto: “Anch’io! È perfetto! Guai se non fosse così, questo non è un film qualsiasi, in questo film ci lasciamo la pelle …”. Dopo qualche giorno mi ha detto di sì.