“Pasolini e de Martino”. Una ricerca di Giacomo Tinelli. Parte I

Pubblichiamo da oggi,  e poi per due uscite successive,  una ricerca di Giacomo Tinelli, incentrata sulle possibili confluenze e differenze tra il pensiero di Pasolini e quello del padre dell’etno-antropologia italiana,Ernesto de Martino, in particolare intorno al concetto di “crisi”. Lo studio riprende la tesi conseguita all’Università di  Bergamo (relatore il professor Daniele Giglioli), tesi alla quale Tinelli ha fatto seguire la Laurea in Lettere presso l’Università Roma3 (con un lavoro su Andrea Zanzotto, relatore il professor Ugo Fracassa) e di recente, nel 2017, il dottorato di ricerca presso l’Ateneo di Bologna con una tesi su  Walter Siti (relatrice la professoressa Donata Meneghelli.
Al centro degli interessi del giovane studioso, nato a Merate (Lecco) nel 1986,  è la rappresentazione del sé nel genere dell’autofiction e la categoria della “finta autobiografia”. Al suo attivo, inoltre, una curriculum già  ricco di esperienze e di studi: Tinelli, infatti, ha collaborato con il centro di 
Ideology Critique di Cardiff università, diretto da Fabio Vighi, con la rivista di letterature comparate «Between» e all’organizzazione del convegno Compalit, svoltosi a Bologna nel dicembre 2014. Durante gli ultimi cinque anni ha partecipato a diversi seminari sulla letteratura, tra cui il convegno Forma critica (2014, Università di Padova) e Italian Impegno (2015, University of Kent). Ha pubblicato, tra l’altro, Andrea Zanzotto. La tradizione, la lingua e il segnoin «Scaffale Aperto», anno IV, Aracne, Roma 2013; Realismo. Quale ritorno?, in Tecnologia, immaginazione e forme del narrare, ed. L. Esposito, E. Piga, A. Ruggiero, «Between», IV. 8 (2014); “Autofiction”: nevrosi autobiografica e debacle soggettiva, in «Il Verri», n. 64, giugno 2017, Milano.

Pasolini e de Martino
uno studio di Giacomo Tinelli
Introduzione e Capitolo primo

INTRODUZIONE

Il presente lavoro è un tentativo di considerare alcuni passaggi dell’opera di Pier Paolo Pasolini dal punto di vista antropologico, in particolare attraverso le teorie di Ernesto de Martino, uno dei personaggi più importanti dell’antropologia italiana.
A partire dall’osservazione dei contatti documentati tra Pasolini e de Martino, collocabili all’inizio degli anni Cinquanta attorno alle tematiche della cultura popolare, si cercherà di stabilire alcune prospettive da cui osservare l’opera pasoliniana con il metro delle teorie demartiniane, arrivando a toccare luoghi che non sono immediatamente riconducibili ad un contatto diretto tra i due, ma che sono comunque leggibili con gli strumenti antropologici. L’operazione avrà come scopo principale l’illuminazione dei discorsi pasoliniani con un taglio che tenti di far emergere la forte carica antropologica che essi custodiscono e che aggiunge valore alla già grande importanza civile e letteraria delle parole di Pasolini.
Lo stesso de Martino, nell’opera postuma La fine del mondo, riguardante il tema delle apocalissi culturali, scrive che  «[l]a varia esperienza dell’apocalisse nella letteratura e nelle arti figurative del mondo euroamericano negli ultimi quarant’anni, dovrebbe essere considerata in una prospettiva di sociologia del costume, cioè con l’intento di misurare la diffusione, la qualità, la motivazione di siffatto esperire»(1).
La lettura di queste parole fornisce l’occasione per osservare alcune questioni che chiariranno gli intenti del presente lavoro: in primo luogo noteremo che Pasolini, soprattutto attraverso gli scritti degli anni Settanta, qui oggetto principale del terzo capitolo, compie un’analisi della crisi culturale che è consonante con le parole di de Martino quando afferma che è necessario  «offrire il panorama [della crisi] in una prospettiva […] atta a individuare l’esatto significato dei sintomi, l’estensione del contagio, il condizionamento della malattia (2)». Secondariamente, rileveremo che le stesse opere di Pasolini sono considerabili come opere che fanno emergere  «la varia esperienza dell’apocalisse». Nello specifico, l’opera che verrà considerata qui, nel secondo capitolo, da questo punto di vista è Teorema.
Dunque pare emergere un Pasolini allo stesso tempo autore apocalittico, possibile oggetto degli studi letterario-sociologici che auspica de Martino, ma anche soggetto che in prima persona prende in carico alcune istanze dell’antropologo, analizzando secondo categorie sociologiche ed antropologiche diversi aspetti della crisi e delle opere letterarie che di essa sono manifestazione. A riprova di ciò, si badi agli Scritti corsari, che sono, oltre che un testo sui cambiamenti culturali e antropologici del costume italiano, nella seconda parte (Documenti e allegati), un saggio di critica che innesta alle questioni di commento letterario i temi antropologici e sociologici della prima parte del testo.
È da notare, come dato che incrementa il significato di queste pagine, che Pasolini non può aver letto le parole de La fine del mondo, poiché il volume è stato pubblicato due anni dopo la morte del poeta, nel 1977, ed è dunque da presupporre che le ragioni di questo atteggiamento non possano risiedere nella lettura del testo demartiniano, ma che risalgano alle proprie convinzioni ideologiche e letterarie. In un’intervista con Jean Duflot, Il sogno del centauro, Pasolini, dimostrando una forte consapevolezza della crisi, afferma: «[c]redo che ‘crisi ideologica’ sia un pleonasmo. L’ideologia che non mettesse in crisi non è ideologia(3)».  Pasolini è dunque poeta della crisi che riflette ed esplora la crisi, il luogo che rappresenta lo spazio d’incontro dei due intellettuali (4).
Si può allora parlare di due autori che individuano la crisi del mondo occidentale a due diversi livelli del sapere umanistico, che possono essere messi in comunicazione tra loro per tentare anzitutto di proseguire con un piccolo passo sulla via che de Martino ha metaforizzato attraverso la diagnosi e la cura di un medico al capezzale della cultura occidentale (5), cioè un cammino che provi a ipotizzare soluzioni a una crisi culturale che i due autori avevano già individuato durante il dopoguerra, e che oggi più che mai appare evidente nella società italiana.

Ernesto De Martino e Muzi Epifani in Lucania (1956)
Ernesto De Martino e Muzi Epifani in Lucania (1956)

CAPITOLO I: I contatti

1.1- Una breve collaborazione

Stando a quanto riportato nell’indice dei nomi contenuto nella raccolta delle lettere di Pier Paolo Pasolini effettuata da Nico Naldini (6), la quale abbraccia l’arco di anni che vanno dal 1940 al 1975, il nome di Ernesto de Martino compare solo tre volte e solo in lettere cronologicamente comprese tra il 31 agosto e il 30 novembre 1953. Ad una prima osservazione, il mero dato quantitativo e il breve arco temporale in cui s’inseriscono le citazioni dell’antropologo paiono lasciar intendere che tra i due intellettuali non sia lecito indagare un rapporto professionale duraturo, né tanto meno alcun rapporto amicale (7).
Occorre ad ogni modo verificare la qualità delle citazioni, ovvero che tipo di significato assumono tenendo conto sia della cornice  storica e culturale dell’epoca, sia, a un livello più ristretto, del contesto in cui si muove il poeta friulano.
In quei mesi Pasolini sta seguendo il Canzoniere Italiano, su proposta dell’editore Guanda che, immediatamente dopo l’uscita, nel dicembre del 1952, della Poesia dialettale, curata anch’essa da Pasolini, gli offre di curare un’antologia di poesia popolare. Pur mostrandosi scettico riguardo le modalità di lavoro indicate dall’editore, che proponeva Paolo Toschi come collaboratore specialistico da affiancare a Pasolini, egli accetta, viste le difficili condizioni economiche in cui versa a pochi anni dall’arrivo a Roma (8).
In Italia la vita culturale è mossa dalle forze dell’egemonia comunista, che in questi anni cerca di stimolare un discorso di cultura attento alla classe popolare, sull’onda dell’edizione di Einaudi dei Quaderni del carcere gramsciani. Si vedano, a conferma di ciò, le parole spese da Alberto Asor Rosa riguardo a questo periodo nell’enciclopedia letteraria Einaudi: «gli anni tra il ’51 e il ’56 sono gli anni in cui una politica culturale si dispiega più coerente ed organica nei confronti degli intellettuali, degli scrittori, degli artisti. Sono, anzi, […] [gli anni in cui] si verificò il rapporto più forte ed intenso tra movimenti spontanei e direzione organizzata (9)». È un periodo in cui si manifesta inoltre particolare fervore nelle ricerche sulla cultura popolare e sul folklore, di cui de Martino è pioniere con le sue ricerche sul campo in Basilicata.
Bastino queste poche indicazioni per comprendere come il vasto campo della cultura popolare costituiva in quegli anni un terreno fertile per l’incontro tra diverse discipline e scienze(10).
Veniamo dunque alle citazioni nelle lettere di Pasolini. La prima citazione di Ernesto de Martino, che compare affiancata a quella del già menzionato Paolo Toschi, è posta nella lettera datata 31 agosto 1953, indirizzata a Gianfranco D’Aronco, e si riferisce a un non meglio precisato «aiuto» (11) che Pasolini avrebbe dovuto ricevere dai due studiosi durante la stesura del Canzoniere Italiano (12). Ciò, oltre a segnalare un cambiamento del progetto editoriale di Guanda, che degrada Toschi da vero e proprio collaboratore a semplice «consulente», stimola a sondare l’opera compiuta del Canzoniere e a ricercarvi i contributi della collaborazione con l’antropologo.
Grazie alle indicazioni bibliografiche poste nelle ultime pagine del Canzoniere apprendiamo innanzitutto come cinque componimenti (i numeri 570, 571, 572, 573 e 576) che compaiono nella sezione dedicata alla Lucania siano trascelti dal materiale che confluirà in Note di viaggio(13), raccolto da de Martino nella sua prima ricerca sul campo. Si tratta di quattro canti dedicati al diffuso tema popolare della nascita sventurata e, ad apertura di un’autonoma sezione dedicata esclusivamente ai lamenti funebri lucani, una doglianza di una figlia per la morte del padre (14).
Se le tracce dell’apporto dei lavori di de Martino fossero tutte qui, sarebbe da postulare una semplice richiesta del poeta friulano di prendere visione dei materiali, nulla più che un semplice e formale contatto. Se le restanti citazioni dell’antropologo nella raccolta di lettere di Pasolini non riguardassero in alcun modo l’argomento della cultura popolare, né il Canzoniere Italiano, si potrebbe chiudere indicando rapidamente  i luoghi ed i riferimenti di esse.
Ma così non è, poiché il nome di de Martino, che compare nuovamente nella lettera del 18 ottobre 1953 ad Eugenio Cirese (15), segnala un’attenzione particolare del poeta, probabilmente dettata dalla contingenza del lavoro sulla poesia popolare, verso gli argomenti e le problematiche sollevate dalla rivista «La Lapa. Argomenti di storia e letteratura popolare», di cui Cirese è direttore. Pasolini afferma la propria speranza di veder sviluppato sulla rivista «il tema proposto da de Martino, e da lei [ovvero da Cirese] afferrato in tutta la sua importanza (16)», riferendosi alle questioni poste dalla lettera dell’antropologo pubblicata nel settembre del 1953 col nome Mondo popolare e cultura nazionale, riguardante la necessità di individuare un approccio teorico e metodologico che guidasse le indagini del redivivo interesse per la cultura popolare e per il folklore, onde evitare il rischio di una mera raccolta erudita e sterile di dati. Leggiamo le parole di Ernesto de Martino: «La sua idea [l’idea di Cirese] di un periodico sulla vita culturale tradizionale delle classi popolari è senza dubbio eccellente, soprattutto se il periodico non si limiterà alla sola raccolta di materiale folkloristico, ma agiterà anche problemi di orientamento e di metodo.  […] L’attuale risveglio di interessi per la vita culturale tradizionale delle classi popolari ha bisogno di essere ancora metodologicamente fondato, [se non vogliamo rischiare] di cadere nella sfera delle curiosità erudite, o anche di un romanticismo fuori stagione (17)».
Dunque, se Pasolini condivide la preoccupazione di metodo dell’antropologo, a maggior ragione non può non aver considerato il suggerimento che quest’ultimo colloca poche righe oltre: «a mio parere un certo ordine di ricerche non prende salde radici nella vita culturale di una nazione se non entra in dialogo con le sue migliori tradizioni culturali: ora a me sembra che se vogliamo fondare gli studi etnologici in Italia occorre farli dialogare con la tradizione De Sanctis – Croce – Gramsci, cioè con la nostra più recente tradizione storicista (18)». De Martino fissa dunque un punto di riferimento verso il quale porgere l’attenzione nell’ambito degli studi sulla cultura popolare.
Ricollegando il discorso a Pasolini, è interessante notare il fatto che tutta la parte teorica che precede la vera e propria antologia del Canzoniere sia effettivamente impostata su un orientamento metodologico di tipo storicista, come affiora dalle seguenti parole, in cui la storia ed il processo dialettico rappresentano il perno su cui si snoda il ragionamento intorno alla genesi della poesia popolare: «La poesia colta e la poesia popolare sono dunque dovute essenzialmente ad un solo tipo di cultura, ossia quello storico del mondo in evoluzione dialettica (19)». Inoltre scegliere di collocare il nome di Benedetto Croce e di una sua opera (Poesia popolare e poesia d’arte), pur con tutte le riserve del caso, come spunto iniziale di una premessa metodologica, cioè nel luogo in cui si manifesta più apertamente la prospettiva di un lavoro critico (20), può essere considerato un tributo al grande intellettuale abruzzese, ma rappresenta anche una dimostrazione che il suggerimento di Ernesto de Martino su «La Lapa» è stato raccolto e considerato.
Nella stessa introduzione al Canzoniere Italiano sono dedicate un paio di pagine anche alla figura di Antonio Gramsci che, come ricordiamo, era anch’esso uno dei riferimenti forti enunciati da de Martino sulla rivista diretta da Eugenio Cirese. Gramsci, preso in considerazione  soprattutto nelle pagine di Letteratura e vita nazionale e nell’interesse verso la letteratura d’appendice o verso il melodramma italiano, è considerato studioso di cultura popolare esclusivamente «in un’accezione che non è quella che interessa la poesia popolare di cui qui [nel Canzoniere Italiano] si tratta», cioè nell’accezione di «cultura di massa(21)». Solo in Osservazioni sul folclore Pasolini rintraccia alcune «pagine acutissime», che interessano il problema della genesi dei canti popolari: «Una divisione e distinzione dei canti formulata da Ermolao Rubieri: 1) i canti composti dal popolo per il popolo; 2)quelli composti per il popolo, ma non dal popolo; 3)quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati, perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire.
Mi pare che tutti i canti popolari si possano e si debbano ridurre a questa terza categoria, poiché ciò che contraddistingue il canto popolare […] è […] il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto con la società ufficiale(22)». È lampante la convergenza di queste parole con alcune convinzioni -già in parte citate in questa sede- sulla genesi storica e poetica della poesia popolare come prodotto dialettico di due culture storiche, la cultura delle classi dominanti e quella delle classi dominate, da cui deriva la proposta pasoliniana di affiancare alla distinzione linguistica tra poesia “alta” e poesia popolare anche una distinzione stilistica, che manifesta dunque «una attitudine psicologica ed estetica […] diversa [rispetto alla poesia ‘alta’]» (23), cioè, come affermava Gramsci, «il suo modo di concepire il mondo e la vita».

La tomba di Gramsci
La tomba di Gramsci

Non solo, dunque, è facilmente rilevabile la forte attenzione del poeta -nelle vesti di saggista- verso l’impostazione storicistica proposta da de Martino, ma è percepibile soprattutto un impegno per applicarne il metodo. Tuttavia questo sforzo, che ha trovato una realizzazione coerente nella macrocifra dell’introduzione al Canzoniere, pare perdere organicità se si passano al vaglio alcuni precisi momenti, in cui è smarrito il nucleo di gravità che ha condotto il discorso fino a quel passo. Un esempio significativo è rappresentato dalla descrizione dei dispositivi psicologici popolari che permettono alla dialettica tra cultura “alta” e cultura popolare di funzionare, di “fare cultura”, che permettono la discesa della cultura borghese e aristocratica tra gli strati più bassi della popolazione attraverso un meccanismo di assimilazione. Secondo Pasolini l’assimilazione avverrebbe «secondo una fenomenologia irrazionalistica, preistorica rispetto alla società quale si configura nella storia», grazie all’ «inettitudine al logico e allo sperimentale, [alla] confusione tra oggetto e semantema, [alla] predisposizione magico-superstiziosa nel conoscere (24)». Il passaggio è estremamente delicato, per ciò che a noi qui interessa, visto che coinvolge questioni che lo stesso Ernesto de Martino ha tenuto al centro del dibattito antropologico, soprattutto ne Il mondo magico: questioni che riguardano l’epistemologia in un mondo Altro dal nostro, ma soprattutto che ineriscono al concetto stesso di realtà.
De Martino sostiene, contrapponendosi a diversi studiosi (25), che un coerente metodo storicista non possa semplicisticamente presupporre nei popoli primitivi una forma mentis che si approccia diversamente alla realtà, la quale è unica, oggettiva e naturalisticamente osservabile, ma, al contrario, debba farsi carico di una revisione critica del concetto di realtà, che è storicamente determinato e, in quanto tale, relativo ad un determinato contesto storico: allorché, per esempio, Lévy-Bruhl parla di «impermeabilità all’esperienza» e di  «categoria affettiva del soprannaturale» nelle popolazioni primitive, de Martino afferma: «non si tratta di ‘impermeabilità all’esperienza’ da parte dei ‘primitivi’, ma di un’esperienza magica che rende possibili forme di realtà che non sono invece caratteristiche ed individuanti per la nostra esperienza culturale. Considerare come paradigmatico il rapporto presenza-mondo quale si manifesta nella nostra civiltà equivale ad assumere come una struttura metafisica della realtà ciò che è soltanto un risultato storico determinato (26)». È del tutto evidente come queste stesse ultime parole possano essere spese per contestare la visione pasoliniana di una forma mentis popolare.
Se si vuole chiarire maggiormente le motivazioni ed il grado di consapevolezza del poeta rispetto a queste antinomie, sarà necessario fare una chiosa che esula dal discorso prettamente filologico che qui si sta svolgendo per abbracciare alcune considerazioni sul modo di far poesia di Pasolini. L’antinomia, la contraddizione, l’ossimoro sono probabilmente i tratti più caratterizzanti della poesia pasoliniana, su cui si sono spese migliaia di pagine.
Franco Fortini definisce questo particolare stilema poetico una “sineciosi”, ossia «quella particolare sottospecie dell’oxymoron […] con la quale si affermano, d’uno stesso soggetto, due contrari […] e al suo più ricorrente stilema espressivo, la correzione aggettivale o avverbiale (27)». Essa può assumere termini molto differenti, ma sarà utile riportare due momenti poetici in cui la sineciosi compare in maniera da evidenziare due aspetti differenti che possono essere interessanti.
L’uno è presente nella poesia Callas, scritta durante il soggiorno in Turchia per le riprese di Medea, ed è significativo poiché mette in evidenza con parole inequivocabili la struttura della sineciosi, rappresentabile come una dialettica bloccata: «La tesi/ e l’antitesi convivono con la sintesi…(28)».
Un altro momento su cui focalizzare l’attenzione è la matrice poetica de Le ceneri di Gramsci, raccolta di poesie che comprende l’arco temporale degli anni tra il 1951 e il 1956, cioè pressappoco coincidente con quello di cui abbiamo fino ad ora discusso per individuare i rapporti tra Pasolini e de Martino. Vale la pena notare che in alcune pagine dedicate a Gramsci, in un periodo in cui sempre più l’ideologia marxista si manifesta negli scritti giornalistici, nelle iniziative del poeta la poesia mantiene quel nucleo di dialettica bloccata che impedisce di poter affermare che la Storia, intesa marxisticamente come sviluppo dialettico, emerga come processo dinamico in divenire.
L’attacco de Il canto popolare è uno dei luoghi più rappresentativi, da questo punto di vista, poiché la descrizione poetica resta sospesa tra storicità ed iconicità:

Improvviso il mille novecento
cinquanta due passa sull’Italia:
solo il popolo ne ha un sentimento
vero: mai tolto al tempo, non l’abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove –nuove al vecchio canto
a ripetere ingenuo quello che fu” (29).

Facilmente si noterà che gli elementi che suggeriscono un divenire temporale sono costantemente contraddetti da un elemento che blocca la dinamicità: il meccanismo della sineciosi è immediatamente distinguibile nel primo dei versi citati, in cui un intero anno, il 1952, passa in modo improvviso.
Approfondire ulteriormente la questione della sineciosi esulerebbe dal nostro discorso, e sarebbe inoltre superfluo, visto che già si è scritto molto (30). Basti dunque questa piccola chiosa a fugare i dubbi emersi, considerando l’antinomia come un tratto costitutivo fondante di Pasolini, una sorta di postulato imprescindibile con il quale chi si approccia al poeta friulano dovrà necessariamente fare i conti. Si consideri dunque il dialogo che artificialmente abbiamo voluto instaurare poco sopra tra de Martino e Pasolini come uno dei momenti che segnalano una rispondenza e una dialettica del pensiero dei due autori.

Queste poche osservazioni sulle pagine dell’introduzione al Canzoniere Italiano paiono essere molto più significative che non le dirette citazioni dell’antropologo nell’introduzione presa in esame, pur presenti in almeno due passaggi. Una prima volta Pasolini si riferisce ad «alcuni recenti saggi del de Martino (che avremo l’occasione di utilizzare in sede più particolare) (31)», in cui è da notare l’utilizzo del plurale «saggi» per riferirsi al materiale utilizzato in sede «particolare», laddove sappiamo bene che l’unico saggio esplicitamente utilizzato nell’intera opera del canzoniere è Note di viaggio. Ipotizziamo dunque che quel plurale sia segnalazione inconscia di un’attenzione estesa a tutto il lavoro di de Martino, verso il quale per di più Pasolini non risparmia elogi: egli è «un ricercatore non meramente tecnico», grazie al suo «marxismo, privo di nitore, ma anche di semplicismo» che  «si innesta sullo storicismo crociano […] con interessi un poco spuri, di provenienza freudiana (32)». Il riferimento al rifiuto da parte dell’antropologo della tecnica meramente descrittivista e naturalista di alcuni etnologi che operano sul campo deriva dalla conoscenza dell’opera demartiniana Naturalismo e storicismo nell’etnologia, peraltro citata in nota all’interno dello stesso passo considerato, nella quale de Martino dava vita ad una prima proposta di affiancamento alla ricerca etnologica di una filosofia storicista, che lo porrà sulla via di una collaborazione interdisciplinare che emerge soprattutto dalle ricerche che danno origine agli scritti che seguono Morte e pianto rituale, edito per la prima volta nel 1958.
L’altra citazione esplicita dell’antropologo napoletano è posta nella pagina dell’introduzione in cui si parla della «Cenerentola del Meridione popolare […], la Lucania», nella quale le prime ricerche sul campo generano «aria di vigilia» verso una conoscenza più approfondita del mondo popolare. Parallelamente all’indubbia consapevolezza dell’importanza delle ricerche pionieristiche di de Martino emerge però anche un’incomprensione di fondo verso le analisi dei referti folclorici e i fini che esse si pongono nell’ambito della disciplina antropologica: «Le pagine del de Martino -afferma Pasolini- non sono che appunti, per quanto preziosi, tendenti, poi, a generalizzare il problema del ‘referto’ lucano all’intera produzione folclorica come categoria. Pertanto molti problemi della poesia lucana restano non solo oscuri, ma nemmeno impostati: per es. il problema metrico… (33)». Affiora all’evidenza l’equivoco pasoliniano, causato forse da una deformazione professionale tendente a ricondurre tutto al livello estetico-letterario. Ma a de Martino non interessa la forma letteraria della «risoluzione lirica (34)» che prendono i sentimenti popolari, bensì la funzione storica che essa assume nel contesto di un certo «orizzonte di valori» di una comunità (35).

La terza ed ultima occasione in cui è possibile rinvenire il nome dell’antropologo nella raccolta delle lettere di Pasolini è nell’epistola del 30 novembre 1953, in cui il poeta friulano propone al destinatario Leonardo Sciascia di pubblicare sulla rivista da lui diretta, «Galleria», «un’inchiesta sulla “poesia popolare come cultura di massa”, con risposte di Cirese, Vann’Antò, De Martino, Sàntoli e Vidossi(36)». In seguito però l’inchiesta prevista per la pubblicazione verrà sostituita da «due paragrafi dell’Introduzione all’Antologia della poesia popolare (37)», pubblicati col nome Un paragrafo sulla poesia popolare (38). Al di là del cambiamento di programma è interessante notare come sia nel pezzo effettivamente pubblicato su «La Lapa», sia in quello pubblicato sul «Radiocorriere» cartaceo [che affiancava il pezzo d’inchiesta radiofonico, passato, secondo il palinsesto dello stesso «Radiocorriere», alle ore 22,05 del 29 dicembre 1953 sul “Terzo programma” della RAI (39)] torni quella concezione della psicologia popolare come forma mentis che poco ha a che fare con lo storicismo demartiniano (40), come si è già visto a proposito di alcuni passaggi ambigui dell’introduzione al Canzoniere.
Sarebbe interessante prendere visione anche dell’inchiesta radiofonica menzionata, senonché l’impossibile reperibilità ne impedisce una disamina che sarebbe fertile. Come già affermato, i dati oggettivi su cui si basano le considerazioni qui svolte non sono numericamente bastevoli a  consentire la postulazione di una collaborazione costante tra i due intellettuali, né si estendono su un arco cronologico sufficiente. Resta un’ipotesi perfino una cooperazione puntuale sui temi specifici del Canzoniere Italiano: nulla è in grado di dirci con sicurezza che Pasolini e de Martino si siano scambiati qualcosa di più che semplice materiale di ricerca. Nemmeno la segnalazione dell’aiuto da parte dell’antropologo nella già menzionata lettera del 31 agosto 1953 a Gianfranco D’Aronco vale come garanzia indubitabile di una sostanziale collaborazione, poiché questa non è documentabile in alcun modo. L’unica documentazione che testimonierebbe una collaborazione diretta è forse l’inchiesta Poesia popolare e cultura di massa, che però, come già detto, è impossibile da esaminare.
Dunque il limite oltre il quale sarà bene non sporgersi è quello di ammettere certamente un’attenzione da parte di Pasolini nei confronti di de Martino, che si concretizza sicuramente, oltre che nell’utilizzo della Note di viaggio per il lavoro sul Canzoniere italiano, come si è visto, anche in un costante interesse verso l’operato, gli interventi, gli scritti dell’antropologo.
Stando alle ricerche effettuate, non ci sono indizi di ulteriori collaborazioni o di contatti diretti tra il poeta e de Martino, nonostante altri riferimenti nelle opere di Pasolini facciano intendere che verso i temi e le metodologie antropologiche un suo forte interesse non sarà mai sopito: il valore dei rapporti che abbiamo individuato sta dunque soprattutto nell’aver contribuito a rendere accessibile al poeta friulano un approccio antropologico a temi verso i quali dimostrava interessi letterari, ideologici ed affettivi.

Pasolini (1958). Una foto di Cecilia Mangini
Pasolini (1958). Una foto di Cecilia Mangini

1.2- L’immagine reale

Nonostante la prudenza che fino ad ora ha vigilato sul presente lavoro e che induce a mitigare i facili entusiasmi che verrebbero da una collaborazione più corposa tra Pasolini e de Martino, non è indebito, uscendo dalle maglie rigide di un discorso strettamente filologico, un ragionamento che provi a rintracciare alcune rispondenze reciproche nel lavoro dei due intellettuali, le cui opere possono essere messe in relazione l’una con l’altra dando vita ad un dialogo che, oltre a restituire una sorta di “Spirito del tempo”, può aiutarci a ritrovare un orientamento nel periodo contemporaneo, in cui la sclerotizzazione e l’oblio della cultura popolare e l’eclissi dei meccanismi millenari attraverso i quali l’uomo si è sempre dato una cultura nella storia pongono una crisi non più eludibile, alla quale ci approcceremmo con minore angoscia se tenesimo presenti le voci che nel passato hanno lavorato attorno a questi meccanismi, quali quelle di de Martino e Pasolini.
Così pare che il convegno Pasolini/de Martino: science des gestes et danse des conflits, svoltosi tra il 17 ed il 20 febbraio 2010 all’Accademia di Francia di Roma su proposta del filosofo George Didi-Huberman, vada nella direzione qui indicata dell’instaurare un dialogo a posteriori, stimolando un confronto che forse riuscirà finalmente a rendere le dovute attenzioni alle relazioni tra i due intellettuali.
Lo spunto che genera il presente ragionamento sull’immagine nasce proprio dal primo incontro di questo convegno, in cui venivano accostati due video documentaristici, l’uno, La passione del grano di Nino del Frà (1960), di ascendenza demartiniana, l’altro, Sopralluoghi in Palestina (1963-1965), frutto di alcune riprese effettuate nella terra santa in vista del Vangelo secondo Matteo commentate da Pasolini.

Il cinema, come strumento d’indagine e d’arte, viene riscoperto durante il dopoguerra, negli anni in cui la volontà di raccontare la realtà, dopo il lungo periodo di mistificazione del regime fascista, porta all’ascesa del film neorealista e del cinema italiano a livello internazionale.
In quest’ampio panorama neorealista che comprende pellicole come Roma città aperta o Ladri di biciclette rientrano anche film di ambiente contadino, come La terra trema o Non c’è pace tra gli ulivi. Proprio i film neorealisti di argomento contadino sono oggetto di un articolo scritto da Ernesto de Martino, uscito sul numero 19 di «Filmcritica» del dicembre 1952, oggi reperibile nella raccolta di saggi Teorie del realismo (41) con il titolo Realismo e folklore nel cinema italiano. È un documento interessante nella misura in cui segnala almeno due fatti: un’attenzione particolare dell’antropologo verso il nuovo strumento filmico e le sue potenzialità di rappresentazione della realtà, soprattutto popolare; una prospettiva multidisciplinare, comprendente anche l’arte, che s’inserisce nell’ampio dibattito già citato sul rapporto tra intellettuali e popolo. L’auspicio alla collaborazione tra le discipline è espresso attraverso una critica alla rappresentazione comune stereotipante del mondo popolare contadino: «è senza dubbio assai difficile inserire organicamente in un racconto di ambiente contadino meridionale gli aspetti più salienti del dramma ideologico dei suoi protagonisti: sta comunque di fatto che questo dramma diventa irreale, è sfiorato e non penetrato, quando si omette ogni seria analisi preparatoria della vita culturale del mondo popolare, o quando ci si attiene ai suoi aspetti pittoreschi, strani, grotteschi o addirittura incomprensibili (42)».
Nel medesimo articolo de Martino sottolinea come «la tendenza realistica del cinema moderno» rientri nella «passione dominante della nostra epoca, cioè la passione verso un più ampio e profondo umanesimo, che includa nella sua attiva comprensione soprattutto il mondo degli oppressi, gli strati subalterni o strumentali della nostra società (43)». Con queste parole l’antropologo  mette in evidenza tutto il suo interesse verso quella ampia parte dei registi neorealisti che dedica il proprio lavoro al racconto di quegli strati sociali d’Italia esclusi dall’euforia del boom economico. C’è infatti tutta una schiera di registi che, sopperendo alla carenza di realtà dell’immagine che il nuovo potere neocapitalista dava dell’Italia, raccontano in diverse forme il lato oscuro dello splendente paese che diverrà famoso per la Dolce vita. In particolare i nomi di Vittorio De Seta, Luigi Di Gianni, Cecilia Mangini, Lino Del Frà stanno a ricordare che la collaborazione tra l’arte e la ricerca scientifica verso l’indagine della realtà si concretizza anche attraverso il canale del film documentario, con esiti apprezzabili anche dal punto di vista estetico: «per una ‘convergenza fra arti’ appaiono evidenti le frequenti collaborazioni tra poeti letterati e registi soprattutto nel campo del documentario. Dalla lettura dei testi che accompagnano i documentari o i cortometraggi traspare, infatti, la sensibilità di ogni poeta, il sublimare in forma di poesia immagini di cultura e modi di vita opposti a quelle dell’Italia che si avvia verso il boom (44)».
È dunque affermabile con sicurezza che l’auspicio di de Martino per un cinema che fosse anche e soprattutto strumento conoscitivo della realtà e pure dispositivo al servizio delle ricerche sul campo non resterà inascoltato.
L’esempio che qui risulta più pertinente, poiché indice di alcuni rapporti indiretti tra i due intellettuali, è il documentario Stendalì. Suonano ancora, realizzato da Cecilia Mangini nel 1960, a cui Pasolini collabora. Si tratta di un cortometraggio etnografico che mette in scena il cordoglio di alcune prefiche per la morte prematura di un giovane a Martano, piccolo paese nella Grecìa salentina, in provincia di Lecce, ed è, nelle stesse parole della regista, di forte ascendenza demartiniana, visto che l’antropologo rappresenta il catalizzatore dell’iniziativa cinematografica: «.. neanche avevamo finito di leggere [Morte e pianto rituale nel mondo antico] che Lino [Del Frà] e io eravamo già in viaggio per il Salento (45)».
Pasolini scrive il testo della lamentazione componendo un centone che, prestando fede alle note e notizie sui testi del  “Meridiano” che raccoglie i lavori di Pasolini per il cinema (46), ha come fonte G. Morosi, Studi sui dialetti greci della terra d’Otranto, Lecce 1870. Ne riportiamo interamente il testo:

Piangete, madri che avete figli,
piangete con tutto il vostro dolore,
che vi venga dalle foglie dell’anima
che vi abbandonano prima del tempo.
Viene la morte che non ci rispetta,
che ci ha tutti quanti segnati.

Piangete a lutto, tutti voi piccini,
piangete grandi, piangete ragazzi,
questo fiore ha perduto ogni forza
e aveva appena sedici anni.

Io ti aspetterò, io, o mio figliolo,
io ti aspetterò fino alle tre,
quando io vedrò che tu non vieni,
correrò a cercarti nell’orto e nel cortile.
Io ti aspetterò, io, o mio figliolo,
io ti aspetterò fino alle cinque,
quando io vedrò che tu non vieni
correrò a cercarti da tutti i parenti.
Io ti aspetterò, io, o mio figliolo,
io ti aspetterò fino alle nove,
quando vedrò che tu non vieni
io perderò ogni speranza,
e se vedrò che tu non vieni
e alle dieci non ti fai vedere,
alle dieci sarò divenuta terra,
terra, terra da seminarvi.
Io ti aspetterò, io, o mio figliolo,
io ti aspetterò fino all’anno,
e quando vedrò che tu non vieni
annerirò come fuliggine.

E tu, cuore arso, piangi, piangi,
urla sempre come un bue selvaggio
che al mondo hai perduto ogni luce.

Me l’avessi detto tu, figlio mio,
che tu stavi per partire,
ti avrei preparato un canestro
con tutta la tua roba.
Chi ti preparerà il vestito
quando verrà la domenica?
Nessuno di tutti che qui stanno.
Tu resterai solo.
Chi ti laverà la camicia, figlio mio?
Te la laverà la lapide e la terra.
E chi te la potrà stirare?
Te la stirerà la lapide e la terra.
Chi ti sveglierà, figlio mio,
quando il giorno sarà alto?
Là sotto è sempre un sonno,
sempre notte buia (47).

Si tratta di un lavoro filologico basato su alcune nenie raccolte a Zollino, a Martano e a Calimera, come si evince dalla disamina della raccolta Canti di pianto e d’amore dall’antico Salento (48). D’altra parte non è possibile circoscrivere un’area omogenea da cui il Poeta trae le fonti per il testo di Stendalì, visto che egli stesso, almeno cinque anni prima della realizzazione del cortometraggio, nell’introduzione al Canzoniere Italiano, ipotizza una monogenesi dei canti delle aree Grìche nel Sud Italia, segnalando la «strana coincidenza tra due canti greci di due paesi, Martano, qui nel Salento, e Bova, in Calabria, separati dall’intero meridione alloglotta e senza strade, e senza contatti di sorta tra loro per secoli (49)».
Al di là della questione filologica, è impressionante come il testo, per i personaggi che in esso compaiono, la madre e il figlioletto morto, e per il tema della morte prematura, invece che un rigoroso esito di una ricerca filologica, paia un componimento concepito e scritto dal pugno di Pasolini, che avrebbe potuto magari essere raccolto ne L’Usignolo della Chiesa Cattolica, se lo stile, troppo scarno e lontano dall’elegia, non impedisse questa attribuzione. La stessa Cecilia Mangini commenta in questo senso il testo preparato per Stendalì:  «…gli [a Pasolini] appartiene. Il ‘suo’ pianto funebre ha una tensione interna che sale a freccia fino alla fine. […] Sarà soltanto una mia fantasia, ma insieme alle donne del Salento Pier Paolo Pasolini ha pianto il dolore di sua madre (50)».
Il fatto che Ernesto de Martino abbia preso visione ed apprezzato il documentario Stendalì e che sull’onda dell’entusiasmo suscitatogli abbia suggerito le riprese de La passione del grano a Lino Del Fra, compagno di Cecilia Mangini (51), è ulteriore conferma del suo interesse verso il cinema e l’immagine.

Fotogramma da "Il Vangelo secondo Matteo" di Pier Paolo Pasolini
Fotogramma da “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini

Leggiamo alcune parole che de Martino scrive sulla rivista «Emilia» riguardo alla forma comunicativa delle ricerche etnografiche: «il documento reale è la canzone cantata in un certo ambiente e in un dato momento, cioè la canzone accompagnata da quel movimento scenico del pubblico che fa di ogni concreto atto di produzione culturale popolare un dramma sceneggiato vivente, una sorta di spontaneo teatro di massa. […] Ciò significa che il vero documento è quello che il folklorista riesce a cogliere in flagrante nel corso delle feste popolari […] e i mezzi tecnici più adeguati per fissare il documento sono […] il documento cinematografico, la registrazione fonografica, la relazione del folklorista ricavata su materiale stenografico, ecc… (52)». Tralasciando le questioni tecniche sulla necessità di un documentario che riduca il grado di finzione fino al livello zero della presa diretta dell’oggetto, emerge qui un chiaro interesse verso la dinamicità dell’immagine, che mostri il dramma umano in divenire, in cui «l’‘unità dinamica’ di gesto, parola e melopea» (53) riesca a cogliere la dimensione e la funzione storica di ciò che ritualmente si mette in scena. Il corpo in questo contesto è colto come «teatro primario di quella dialettica tra io e mondo, soggetto e cultura, che forse proprio qui, in questo luogo preciso, si spera di riuscire a cogliere, nel felice attimo aurorale in cui l’universalmente umano assumerebbe concreta forma storica (54)».
L’immagine realistica secondo de Martino ha dunque la necessità di essere un’immagine dinamica, dialettica, che non deve relegare il proprio oggetto in una dimensione astorica se vuole cogliere le funzioni antropologiche del rito, che sono poi quelle del mantenimento socializzato della presenza di fronte all’angoscia del divenire.
La concezione demartiniana del cinema è insomma molto lontana dalle realizzazioni cinematografiche di Pasolini, nelle quali influisce, al pari che nella poesia, quella forma dell’ossimoro che, si è visto,  Franco Fortini chiama sineciosi, che determina un blocco della corrispondenza tra immagine e realtà storica cui si riferisce la rappresentazione. Ne deriva che le immagini appaiono come fuori dal tempo, collocate in una dimensione che si potrebbe chiamare astorica. Citiamo dalle parole di Bernardo Bertolucci, assistente alla regia, che ricordano Pasolini alle prese con le scene di Accattone: «il suo riferimento non era il cinema, che conosceva poco, ma, lo dichiarò tante volte, i primitivi senesi e le pale d’altare (55)», un riferimento che ha forme iconiche, statiche, sacre, e che serve pertanto «a dare senso a un ordine visuale fondato nella metastoria (56)». Pietro Citati, a proposito di Pasolini, parla di un «piacere di essere profondamente, cupamente irrazionale, e lucidamente razionale.[…] Ma questa non può diventare una situazione drammatica: resta immobile, tanto le antitesi sono prestabilite (57)». Che poi è ciò che emerge in diversi termini nelle parole dello stesso regista quando parla di  «sacralità: frontalità. E quindi religione. […] Anche gli obbiettivi erano rigorosamente il 50 e il 75: obbiettivi che appesantiscono la materia, esaltano il tuttotondo, il chiaroscuro […] (58)».

Tra le concezioni dell’immagine e del corpo viene dunque a stabilirsi una fondamentale lontananza sul piano della storicità: troviamo da una parte de Martino con l’idea che l’immagine, se vuole centrare l’obbiettivo di descrivere la realtà, deve cogliere le funzionalità sociali del rito in una prospettiva interamente storica; dall’altra Pasolini, che tenta di raggiungere il medesimo obbiettivo spostando la rappresentazione su di un piano astorico.
Per cogliere le differenze fondamentali si potrà citare Clara Gallini, già stretta collaboratrice dell’antropologo, ora direttrice dell’archivio de Martino a Roma, laddove ragiona sulle differenze tra la concezione dell’immagine tra de Martino e Aby Warburg, autore del progetto rimasto incompiuto di Mnemosyne, sorta di atlante illustrato del pensiero occidentale: «per Warburg, a far problema costante è il rapporto tra gesto e icona: è lei, l’immagine, il mistero da inseguire incessantemente, in una ricerca che dilata a dismisura i confini del tempo e dello spazio, portandosi dietro l’infinitudine del mai definibile […].Per de Martino, non si tratta di fondare un’iconologia: semmai una scienza del rito. A far problema è dunque il rapporto tra gesto e rito: ma circoscrivibile alla specificità degli oggetti e degli ambiti culturali storicamente comparabili (59)». In questo caso sono parole che si riferiscono alla distanza che intercorre tra l’antropologo e lo storico dell’arte Warburg, ma che sarebbero altrettanto efficaci per differenziare Pasolini da de Martino nell’ambito della concezione dell’immagine come strumento d’indagine della realtà.
D’altra parte sono divergenze che andranno in buona misura ascritte alla diversità dei ruoli che i due studiosi ricoprono, e degli interessi, delle attenzioni che ne discendono. La cosa importante è che si consideri l’importanza anche di tali contatti indiretti , che hanno come luogo il cinema, per valutare i rapporti tra Pasolini e de Martino e il loro significato storico.

Capitolo Uno. Note

  1. E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino, p. 466.
  2. E. de Martino, La fine del mondo, cit., pag. 470.
  3. P. P. Pasolini, Scritti sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. de Laude, Mondadori, Milano, 1999, p. 1442.
  4. Si vedrà infatti che il primo incontro tra Pasolini e de Martino avverrà non a caso sul campo, allora fortemente in crisi-oggi del tutto scomparso, della cultura popolare.
  5. «L’impresa [di diagnosticare la malattia culturale occidentale] appare estremamente complessa […] per motivi profondi, e cioè che il medico al capezzale deve in questo caso controllare se lui stesso non patisce della stessa malattia del paziente», in E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 467.
  6. P. P. Pasolini, Lettere 1940-1954, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino, 1986.
  7. D’altro canto la più affidabile biografia di Pasolini (E. Siciliano, Vita di Pasolini, A. Mondadori, Milano, 2005) non parla né della collaborazione professionale, né di rapporti di amicizia tra Pasolini ed Ernesto de Martino.
  8. Cfr. lettera a Giacinto Spagnoletti, in Lettere 1940-1954, cit., p. 519.
  9. A. Asor Rosa, Gramscianesimo, Nazional-popolare, populismo, in AA. VV. Letteratura italiana, Einaudi, Torino 1982, p. 601. Cfr. l’intero capitolo.
  10. Lo stesso de Martino auspicava e in seguito praticava, al fine di studiare le manifestazioni della cultura popolare, una certa interdisciplinarità. Cfr. E. de Martino, Morte e pianto rituale, Boringhieri, Torino, 1975, p. VII e sgg.
  11. P. P. Pasolini, Lettere 1940-1954, cit., p. 595.
  12. Inizialmente, secondo la proposta di Guanda, l’ «aiuto» avrebbe dovuto essere una vera e propria collaborazione, di cui però Pasolini non si dimostrava molto entusiasta, come si comprende da una lettera a Spagnoletti del I° gennaio 1953: «adesso [cioè subito dopo la Poesia dialettale] Guanda mi propone la “Poesia popolare”: forse non ha torto né dal punto di vista commerciale né da quello culturale, ma io non sono molto entusiasta, perché dovrei farla assieme ad uno specialista (per es. il prof. Toschi)», in Ivi, p. 519. Non si fa menzione di Ernesto de Martino in questa lettera, né si può capire se il Toschi fosse l’unica collaborazione proposta da Guanda.
  13. E. de Martino, Note di viaggio, in «Nuovi Argomenti», I, 2, maggio-giugno, pp. 47-79.
  14. P. P. Pasolini, Canzoniere Italiano, cit., pp. 399, 400, 401, 402.
  15. P. P. Pasolini, Lettere 1940-1954, cit., p. 611.
  16. Ibidem.
  17. E. de Martino, Mondo popolare e cultura nazionale, in «La Lapa», I, 1953, p. 3.
  18. Ibidem.
  19. P. P. Pasolini, Canzoniere Italiano, Garzanti, Milano, 1992, pag. 53.
  20. Ivi., p. 11.
  21. P. P. Pasolini, Canzoniere Italiano, Garzanti, Milano, 1992, p. 32.
  22. A. Gramsci, Osservazioni sul folklore, cit. in P. P. Pasolini, Canzoniere Italiano, cit., p. 33.
  23. P. P. Pasolini, Canzoniere Italiano, cit., p. 53.
  24. P. P. Pasolini, Canzoniere Italiano, cit., p. 45.
  25. Cfr. E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, cap. 3, p. 168 e sgg. Cfr. in particolare le polemiche con  Frazer e con Lévy-Bruhl (ivi., pp. 203 e sgg.)
  26. Ivi, p. 205.
  27. Le poesie italiane di questi anni, in F. Fortini, Saggi Italiani 1, Garzanti, Milano, 1987, pp. 132-133.
  28. P. P. Pasolini, Medea, Garzanti, Milano, 1970, p. 133.
  29. P. P. Pasolini, Le poesie, Garzanti, Milano, 1975, p.17.
  30. Cfr. F. Fortini, Le poesie Italiane di questi anni, in Saggi italiani 1, cit., pagg. 132-149; cfr. anche Ferretti, L’universo orrendo, Editori Riuniti, Milano, 1978.
  31. P. P. Pasolini, Canzoniere Italiano, cit., p. 32.
  32. P. P. Pasolini, Canzoniere Italiano, cit., p. 32.
  33. Ivi., pp. 115-116.
  34. E. de Martino, Morte e pianto rituale, cit., p. 67.
  35. Cfr. E. de Martino, Note di viaggio, cit., p. 61: «Essi [gli uomini produttori della cultura popolare] sono impegnati a difendere la possibilità stessa dell’elementarmente umano: e questo impegno si riflette nella loro letteratura, e in genere nella loro vita culturale».
  36. P. P. Pasolini, Lettere 1940-1954, cit., p. 619.
  37. Ivi, p. 637.
  38. Cfr. P. P. Pasolini, Un paragrafo sulla poesia popolare, in «Galleria», anno IV, n° II, marzo-aprile 1954, pp. 111-117.
  39. «Radiocorriere», anno XXX, n° 52, 27 dicembre 1953- 2 gennaio 1954, p. 22.
  40. Per esempio: le «convenzioni stilistiche [popolari] […] vanno considerate in ultima istanza come prodotti di una psicologia […] diversa dalla psicologia storica, nostra, borghese» (in Un paragrafo sulla poesia popolare, cit, pag. 111); o ancora: nella produzione della cultura popolare contemporanea «la fenomenologia in essenza è probabilmente la stessa»  rispetto a quella di quattro secoli prima, poiché «le leggi psicologiche e stilistiche [sono] sostanzialmente immutate» (in P. P. Pasolini, Poesia popolare e “cultura di massa”, in «Radiocorriere», anno XXX, cit., p. 12).
  41. E. de Martino, Realismo e folklore nel cinema italiano, in AA. VV., Teorie del realismo, a cura di E. Bruno, Bulzoni, Roma, 1977.
  42. E. de Martino, Realismo e folklore nel cinema italiano, cit., p. 101.
  43. Ivi., pp. 99-100.
  44. M. Grasso, Stendalì-Canti e immagini della morte nella Grecìa salentina, Kurumuny, Calimera, 2005, p. 28.
  45. Ivi., p. 50.
  46. P. P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, Milano, 2001, p. 3169.
  47. P. P. Pasolini, Per il cinema, cit., pp. 2099-2100.
  48. B. Mortinaro (a cura di), Canti di pianto e d’amore dall’antico Salento, Bompiani, Milano, 2001.
  49. P. P. Pasolini, Canzoniere Italiano, cit., pp. 111, 112 n.
  50. C. Mangini, Il cinema e il mondo, in M. Grasso, Stendalì, cit, p. 53.
  51. Cfr. M. Grasso, Stendalì, cit., p. 52.
  52. C. Gallini, Percorsi, immagini, scritture, in I viaggi nel sud di Ernesto de Martino, a cura di C. Gallini e F. Faeta, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 14.
  53. Ivi, p. 39.
  54. C. Gallini, Introduzione a E. de Martino, La fine del Mondo, Einaudi, Torino, 1977, p.XXIII.
  55. B. Bertolucci, Il cavaliere della valle solitaria, in P. P. Pasolini, Per il cinema, cit., p. XVI.
  56. C. Gallini, Percorsi, immagini, scritture, cit., p. 26.
  57. P. Citati, Ritratto di Pasolini, in Il tè del cappellaio matto, Arnoldo Mondadori, Milano, 1972, pp. 225- 226.
  58. P. P. Pasolini, Per il cinema, cit., pp. 2768-2769. Ci si è qui riferiti maggiormente ad Accattone perché è il film più vicino temporalmente al periodo di tempo su cui ci siamo soffermati maggiormente in precedenza, ma le affermazioni sul suo cinema valgono, con le dovute differenze, anche per tutti gli altri film: la “tecnica sacrale” (in P. P. Pasolini, Per il cinema, cit., pp. 2768-2769) interviene a spostare su un piano oltre quello storico le pellicole che non hanno di per sé un carattere metastorico, come le tragedie o il Vangelo secondo Matteo.
  59. C. Gallini, Percorsi, immagini, scritture, cit., p. 43.