Qui di seguito il secondo capitolo della ricerca dedicata da Giacomo Tinelli all’indagine sulle convergenze possibili tra Pasolini e l’antropologo Ernesto de Martino. Indagata secondo i paradigmi demartiniani sulla crisi della “presenza” è l’opera di Pasolini Teorema, libro e film, che per Tinelli si presta a essere letta come esemplare dimostrazione della dissoluzione etica del mondo borghese.
Pasolini e de Martino
una ricerca di Giacomo Tinelli
Parte seconda
CAPITOLO II: La crisi dell’ethos del trascendimento in Teorema
Pasolini, lo si è già visto, è sempre stato attento al tema gramsciano del ruolo che gli intellettuali svolgono in una società, a cominciare dagli articoli raccolti in Saggi sparsi (60), che risalgono agli ultimi anni del regime fascista, passando per i Dialoghi con Pasolini su «Vie Nuove» (61), fino alla rubrica Il Caos sulla rivista «Tempo» (62)e, più in giù, agli articoli degli Scritti corsari e delle Lettere luterane (63). L’arco di tempo che va dal 1964 al 1968 costituisce da questo punto di vista un periodo di svolta, in cui l’autore abbandona gli intenti manifestati in precedenza di un dialogo con la base militante comunista e ormai, nell’Italia che corre sulla via di un rapido sviluppo, considerati velleitari, per tentare di allargare il bacino degli ascoltatori. Le critiche al mondo contemporaneo si fanno decisamente meno ortodosse, perdendo in gran parte l’elemento del rigore ideologico e marxista e assumendo come argomentazioni degli elementi simbolici, nei quali cioè prevale il ragionamento basato su fattori estetici e personali.
Per comprendere meglio cosa significhi per Pasolini questo cambiamento di prospettiva, prestiamo attenzione ad alcune parole del primo intervento nella rubrica Il caos, uscita tra il 1968 e il 1970 sulla rivista «Tempo»: «spesso parlerò con violenza contro la borghesia: anzi, sarà questo il tema centrale del mio discorso settimanale. […][P]er borghesia non intendo tanto una classe sociale quanto una vera e propria malattia. Una malattia molto contagiosa: tanto è vero che essa ha contagiato quasi tutti coloro che la combattono: dagli operai settentrionali, agli operai immigrati dal Sud, ai borghesi all’opposizione, ai “soli” (come sono io). […] [L]a storia della borghesia -attraverso una società tecnologica che né Marx né Lenin potevano prevedere- si accinge, ora, in concreto, a coincidere con l’intera storia del mondo. […] Dalla mia solitudine di cittadino, io dunque cercherò di analizzare questa borghesia come male dovunque essa si trovi: cioè ormai quasi dappertutto […]. Mi caccio con questo, lo so, in un’impresa ingrata e disperata; ma è naturale, è fatale, del resto, che, in una civiltà in cui conta di più un gesto, un’accusa, una presa di posizione, che un lavoro letterario di anni, uno scrittore scelga di comportarsi in questo modo (64)».
Traspare qui, soprattutto nelle ultime parole, uno sdegno rabbioso nella scelta obbligata di questa prospettiva, che nasce dall’assenza di un mondo popolare cui rivolgersi, con cui costruire un rapporto pedagogico, come fino ad allora, soprattutto durante i primi tempi dei Dialoghi coi lettori su «Vie Nuove», aveva ritenuto giusto fare. In realtà, anche se si legge l’intera esperienza della rubrica su «Vie Nuove» e la si considera nel suo divenire, si noterà chiaramente come la forma degli interventi muti sempre più da un tono dialogico ed ideologico -sia pur costantemente velato da letterarietà- ad un tono monologico e poetico. Ad una missiva di un lettore che nota criticamente questo cambiamento -siamo nel 1965- egli risponde che se «fino a qualche anno fa c’era tutto un sistema di allusioni, di riferimenti comuni, che rendeva significativa anche una frase in sé banale […], [o]ra quella serie di riferimenti e di allusioni (in una parola l’escatologia della speranza) è scaduta»: le risposte che darà saranno «personali, perché l’ambito del marxismo in crisi non […] consente d’immetter[si] in una corrente d’opinione che in qualche modo sia comune, e quindi immediatamente accepibile (65)».
Dunque, il cambiamento di prospettiva cui si accennava si sviluppa come una vera e propria crisi culturale che si manifesta in primo luogo sul piano comunicativo ed espressivo e che sembra palesarsi come un continuo tentativo di declinare l’istanza pedagogica e ideologica, pensata per le masse popolari, nel mondo del boom economico, nel quale l’universo innocente delle borgate e delle campagne andava sempre di più uniformandosi nevroticamente alla cultura dei consumi.
Ciò che è possibile accertare con certezza è che, in seguito a questo periodo di crisi, il popolo come figura con cui interloquire, assieme alla quale sperare nel cambiamento futuro, vitale, disperata e sensuale, scompare dalle opere o si stereotipa in figure rigide. Da allora in poi scompare il popolo di Accattone e Pasolini apre nei propri lavori ai temi del mondo borghese.
Come nota giustamente M. A. Bazzocchi ne I burattini filosofi, l’opera filmico letteraria di Teorema è il primo lavoro pasoliniano d’ambiente interamente borghese (66), e dunque si considererà qui come opera che rappresenta l’apice della crisi vista e che di essa chiarisce le ragioni, contestualizzandola storicamente e svolgendone i temi.
La vicenda di Teorema non è complessa: durante la primavera del 1968 una ricca famiglia borghese di Milano riceve in visita un ospite inatteso, un ragazzo attraente, che rappresenta l’alterità radicale. Il suo fascino seduce irresistibilmente tutti i membri della famiglia, a partire dalla serva di estrazione contadina Emilia, fino al figlio Pietro e alla madre Lucia. È poi la volta di Odetta, sorella di Pietro, e del padre Paolo, un grande industriale dall’aspetto giovanile. Dopo la possessione, l’ospite come è arrivato, così se ne va improvvisamente, provocando reazioni inconsulte: Emilia, l’unica nel film a non appartenere alla classe borghese, torna alle sue radici scegliendo la via dell’ascesi nella cascina milanese da dove era venuta. È da notare che essa è l’unico personaggio che, pur non riuscendo a tornare alla vita antecedente la conoscenza dell’ospite, mette la vita al servizio della comunità d’origine, rinunziando alla propria individualità. Tutti gli altri protagonisti prendono la via della pazzia, perdendosi in azioni irrelate con il resto del mondo. Secondo il riassunto che dà del film Serafino Murri, I protagonisti borghesi «hanno sostituito il mondo che hanno abbandonato dopo la venuta dell’ospite con il dilagare della propria individualità, facendosi mondo essi stessi (67)». La narrazione è intervallata da un continuo riferimento ad uno spazio desertico, che, se nel film è rappresentato da alcune riprese fisse di un terreno arido su cui scorrono veloci delle ombre di alcune nuvole, nel libro esso assume l’importanza del riferimento biblico dell’esodo degli ebrei nel deserto. Ciò che differenzia il film dal libro, e che porta a considerare il prodotto cinematografico come documento d’attualità, è una sequenza iniziale di pochi minuti in cui un operatore televisivo intervista alcuni operai fuori dalla fabbrica, chiedendo loro cosa ne pensassero del fatto che il loro padrone avesse regalato loro la fabbrica. «Non diventate tutti borghesi così?». Il lavoratore risponde negando e ribadendo alcune certezze della prassi comunista, ma le sue insicurezze di toni e di sguardi lasciano intendere una dissimulazione di difficoltà.
Nei pochi minuti di sequenza che precedono la vera e propria vicenda si esaurisce il ruolo del popolo, incarnato nell’operaio della grande fabbrica settentrionale, affidatario del compito di contestualizzazione storica: sembra che Pasolini voglia dire che al di fuori della famiglia borghese che si disfa stanno avvenendo cambiamenti storici epocali, che consistono nella “borghesizzazione” dell’intera umanità.
Vorremmo dunque soffermarci su Teorema come opera della crisi, tentando di analizzare il film sulla scorta delle suggestioni suscitate dalle teorie demartiniane, per fornire, senza che quest’operazione costituisca un pretesto per alcuna forzatura, una lettura inedita ma capace di illuminare gli sviluppi di quella “impresa ingrata e disperata” che condurrà al Pasolini corsaro e luterano degli anni Settanta.
Per fare ciò è necessario almeno ricordare brevemente alcune categorie demartiniane che verranno chiamate in causa per l’analisi del film, e che trarremo principalmente da La fine del mondo, opera riepilogativa e conclusiva del suo atteggiamento nei confronti dell’indagine antropologica.
Ernesto de Martino concepisce il singolo uomo come un essere che necessita di una cultura per abitare un determinato mondo, per far sì che la presenza non viva delle crisi senza riscatto. Il compito «primordiale ed inderivabile che fa passare [l’uomo] dell’ordine della vitalità a quello dell’umanità, cioè della valorizzazione intersoggettiva della vita» è affidato all’ethos del trascendimento, che si ascrive naturalmente alle qualità umane: è naturale che l’uomo crei cultura attraverso un ethos. Il carattere prettamente concreto dell’ethos, almeno nella fase iniziale della progettazione comunitaria dell’utilizzabile, emerge in modo chiaro nei capitoli de La fine del mondo che hanno al centro dell’attenzione la teoria marxista: «solo per entro un progetto comunitario dell’utilizzabile prende rilievo un ‘mondo’ (68)», dove si considera il progetto, che per i marxisti è l’atto economico, la struttura, come il primo passo verso la cultura. Laddove per i marxisti l’atto fondante di un mondo è quello interamente materialistico dell’economia, per de Martino la prima condizione dell’esistenza di un mondo è la scelta di come produrre, e dunque un atto di cultura.
Senza questo trascendimento dell’ethos non sarebbe data la presenza dell’uomo in un dato mondo culturale, cioè la capacità di affrontare il divenire singolarmente sulla base di scelte culturali passate in un modo che abbia senso a livello collettivo: la presenza è «la memoria retrospettica dei comportamenti culturalmente efficaci, e la volontà prospettica di impiegar qui ed ora, in rapporto alla richiesta della realtà, il comportamento adatto. La presenza si inserisce proprio nel punto in cui, sotto la spinta della situazione, le memorie necessarie sono evocate e mobilitate per determinare l’atto creativo della nuova storia, il cammino verso il futuro (69)».
Date queste brevi indicazioni, possiamo passare all’analisi vera e propria dell’opera. Sfogliando le prime pagine di Teorema si nota senza dubbio l’ambiguità del tono: osservazione della realtà o dimostrazione di un Teorema -come dice lo stesso Pasolini (70)-, opera di resoconto giornalistico o poema in prosa? Alcuni elementi contrastanti rinforzano l’ambiguità: il nome dei primi cinque capitoli del romanzo fa riferimento ai dati, lasciando di primo acchito prevedere una narrazione oggettiva e realistica, mentre nel testo compaiono considerazioni e chiose che fanno del punto di vista dell’autore un elemento irrinunciabile per l’organicità dell’opera. Ne è un esempio il paragone, nel secondo capitolo, di Pietro con Charlot: «non si può fare a meno di pensare, vedendolo, che egli, come Charlot, è fatto per indossare cappottoni e giacchette che gli vanno troppo grandi, con le maniche che penzolano mezzo metro sotto la mano…». Sono chiose che l’autore registra come «considerazioni vivaci e estemporanee, il lettore non deve lasciarsene fuorviare (71)». Poco oltre lo stesso Pasolini chiarirà di che tipo di testo si tratti, rivolgendosi ancora una volta, direttamente al lettore : «… il nostro, più che un racconto, è quello che nelle scienze si chiama “referto”: esso è dunque molto informativo; perciò tecnicamente il suo aspetto, più che quello del “messaggio”, è quello del “codice”. Inoltre esso non è realistico, ma è al contrario emblematico… enigmatico… (72)».
È indicativo che l’autore affermi come il «referto» -documento che tecnicamente si redige solo in caso di malattia o di morte di un soggetto- della condizione di una famiglia borghese sia “emblematico”, cioè rispecchi un paradigma che è ben più diffuso rispetto alla singola vicenda di questa famiglia, antonomasia della borghesia milanese. L’estensione del paradigma è poi allargabile anche all’intera classe sociale della piccola borghesia, come si comprende dalle parole d’apertura del libro: «si tratta di una famiglia piccolo- borghese […] in senso ideologico», che vive nell’ambiente «della ricca borghesia industriale (73)».
Teorema è dunque un’opera poliedrica che, come tutte le opere d’arte, è leggibile da molti punti di vista. Il testo verrà allora considerato qui sulla scorta delle impressioni demartiniane che indirizzano il presente lavoro e della definizione che Pasolini dà dell’opera come «referto», in qualità di documento etnografico di una particolare classe sociale, la borghesia, rappresentata emblematicamente dalla ricca famiglia di Milano (74).
A questo punto è forse il caso di ricordare la già citata collaborazione del poeta alla realizzazione di Stendalì, come indicazione, se non di una familiarità col documentario etnografico, almeno di una consapevolezza dei fini e dell’oggetto della narrazione.
Se ne darà un breve confronto, utile a comprendere il senso del parallelismo tra i due film. Come in Stendalì. Suonano ancora, il cui testo è frutto di uno studio di Pasolini sulle lamentazioni funebri dell’Italia del Sud, si narra, per dirla con le categorie demartiniane che influenzano fortemente il documentario, della reazione culturale ad un evento critico per la presenza -la scomparsa prematura di un giovane- nella piccola comunità della Grecìa salentina, così in Teorema Pasolini narra delle ripercussioni sugli attori di una famiglia borghese di un evento altrettanto critico come la comparsa di «un’apparizione […] ultraterrena e metafisica, […] qualcosa di autentico ed inarrestabile (75)», che sconvolge l’ordine costituito della famiglia.
Può sembrare illegittimo paragonare due risultati filmici di tale diversità come un documentario e un film artistico. In realtà gli elementi che intervengono a muovere ciò che osserviamo guardando prima il video di Stendalì, poi prestando attenzione all’opera -libraria o filmica- di Teorema, sono analoghi: in entrambe le opere c’è una comunità (da un lato la comunità del paesello di Martano, dall’altro la comunità familiare inserita nella metropoli più moderna d’Italia) in cui incombe un evento imprevisto e sconvolgente (da una parte la morte improvvisa e prematura di un giovane, dall’altra la comparsa imminente – l’«Ospite» avvisa solo un giorno prima del suo arrivo- di un elemento che sconvolge la vita borghese) che provoca determinate reazioni. Proprio la profonda divergenza tra le reazioni delle due diverse comunità d’individui, separate fisicamente da centinaia di chilometri e culturalmente da migliaia di anni, dà la cifra della distanza culturale tra i due mondi rappresentati, nonché, come vedremo, della forte critica nei confronti della contemporanea cultura borghese: laddove la comunità di Martano reagisce con una serie di atti del cordoglio istituzionalizzati in un rituale incaricato di gestire il lutto in modo da limitarne i danni e riorganizzare la situazione affettiva del singolo e della comunità, facendo trascendere la persona morta nel valore da rilanciare nella vita culturale -e dunque trasformandolo in elemento di vitalità umana costruttiva-, all’interno della famiglia borghese la dipartita dell’uomo, parossismo di una situazione sconvolgente per l’ordine costituito, produce diverse situazioni patologiche.
Scrivendo appunti che poi confluiranno ne La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali de Martino afferma, a proposito del sesso nell’ambiente borghese raccontato da Moravia ne La noia: «[i]l sesso come “natura” è ovviamente incapace di ridischiudere il “mondo”. La maturazione sessuale ha tanta importanza nella esistenza umana […] perché le regole sociali e culturali relative al sesso costituiscono nella storia degli individui il primo accesso ad un mondo dei valori (76)». Il sesso, secondo la lettura demartiniana di Moravia, rappresenta per la borghesia ciò che per le comunità arcaiche era la morte o qualsiasi elemento di crisi della presenza: un elemento della natura che, se socializzato e reso cultura mediante il valore, può essere «strumento di rapporto col mondo […] che permette all’uomo di entrare in contatto con gli altri e con le cose, e di scoprire, al di là della solitudine morale e intellettuale, una possibile fraternità, una partecipazione comune ad un bene ed a un bello che redimono (77)». Il sesso è dunque un elemento che si può caricare di sacralità, oggetto sul quale è necessario il trascendimento dell’ethos, cioè quel lavoro culturale che l’umanità compie al fine di affrontare il divenire, i momenti critici, l’ignoto, senza che l’individuo si trovi nell’impossibilità di comunicare con altri uomini o di fronteggiare il cambiamento storico.
In Teorema, di cui, sulla base di ciò che abbiamo ora osservato a proposito del sesso nell’ambiente borghese, «[p]otremmo ipotizzare che il nesso tra sessualità e sacralità costituisca il nucleo profondo (78)», Pasolini narra di una crisi che denuncia un blocco di quei dispositivi antropologici individuati da de Martino atti a rendere possibile e difendere la presenza dell’uomo in una storia in divenire. I protagonisti, infatti, venuti a contatto con il sesso dell’ospite, saranno destinati a chiudersi nell’individualità assoluta e incomunicabile, rendendo inaccessibile un mondo socializzato tra e attorno a loro. Tutti i personaggi falliscono nell’ethos del trascendimento, «il compito primordiale e inderivabile che fa passare dall’ordine della vitalità a quello dell’umanità, cioè della valorizzazione intersoggettiva della vita (79)», mostrando sintomi psicopatologici diversi tra loro. Il mondo borghese fallisce insomma nell’istinto naturale del trascendere il proprio comportamento in un valore socializzato, dando così vita ad un vuoto comunicativo che separa nettamente i mondi di ogni personaggio. Il rivelarsi di questa situazione agli occhi degli stessi personaggi, determina una situazione che si connota come tragica, come possiamo capire dalle parole che Lucia rivolge all’ospite allorché è in procinto di partire:
Tu hai riempito di un interesse puro
e pazzo, una vita priva di ogni interesse.
E hai districato dal loro oscuro nodo
tutte le idee sbagliate di cui vive una signora borghese:
le orrende convenzioni, gli orrendi umorismi,
gli orrendi principi, gli orrendi doveri,
le orrende grazie, l’orrenda democraticità, l’orrendo
anticomunismo, l’orrendo fascismo,
l’orrenda oggettività, l’orrendo sorriso.
Ah, quante cose so di me – dirai. È una coscienza
acquisita per magia – e parlo come nel monologo
del personaggio di una tragedia! (80).
Ernesto de Martino ha tenuto in grande considerazione il dato psicopatologico nelle sue ricerche e nella costruzione della teoria basata sulla presenza, soprattutto da quanto emerge dal saggio Morte e pianto rituale in poi. «Non si tratta di “spiegare il sano con il malato”: un tentativo del genere sarebbe già malattia. Si tratta piuttosto di comprendere il sano nella sua concretezza, cioè nel suo farsi sano oltre il rischio dell’ammalarsi: […] i vissuti psicopatologici acquistano valore euristico in quanto quel concreto dinamico farsi di nuovo sano che caratterizza la sanità costituisce il momento più coperto per la coscienza culturale immediatamente impegnata nel suo farsi sana (81)». Anche noi qui, dunque, dovremo tener conto di questa prudenza nella lettura del dato psicopatologico in Teorema, cercando di comprenderlo nella dimensione di dato euristico utile alla comprensione non già, come interessa a de Martino, dei meccanismi del “farsi sano” della coscienza culturale, ma della critica profonda, antropologica, di Pasolini alla contemporanea società neocapitalistica.
Ne La fine del mondo l’antropologo mostra, attraverso esempi numerosi e dettagliati, come tutti gli atti che la nostra società decreta come “folli” non lo siano in modo assoluto, in tutti i mondi possibili. Non è valutabile un atto come “folle” o “sano” se si prescinde dal contesto culturale e dalla storia biografica individuale in cui è inserito. Lo spunto da cui trae le mosse il ragionamento di de Martino riguarda il dato, nel nostro mondo incontestabilmente patologico, del delirio del singolo soggetto sulla “fine del mondo”, ampiamente diffuso nei pazienti affetti da schizofrenia. L’antropologo ne sottolinea l’ambiguità in rapporto al dinamismo che caratterizza il dato: «siamo nella fisiologia della vita culturale quando “la fine del mondo” denota un orizzonte mitico-rituale per entro il quale il rischio del vissuto privato e incomunicabile, di un mondo che finisce, viene ripreso e reintegrato secondo valori intersoggettivi e comunicabili […]; quando invece il dinamismo è di segno opposto, e gli orizzonti culturali si disarticolano e crollano recedendo verso il vissuto privato e incomunicabile di un finire senza ripresa efficace, allora siamo nella sfera psicopatologica individuale (82)».
Le reazioni dei personaggi in Teorema s’inseriscono tutte in questo secondo caso, essendo ben lontane dal trovare un orizzonte culturale socialmente condivisibile. Si potrebbe ora passare in rassegna e catalogare i sintomi di tutti e cinque i personaggi che vengono trascinati dalla crisi sulla strada della pazzia e mettere il tutto in relazione con le parole di de Martino, ma sarebbe un’operazione di dubbia utilità, oltre che noiosa. Basti invece ricordare alcuni momenti in cui la relazione tra le reazioni dei personaggi di Teorema e le parole dell’antropologo diviene particolarmente stretta: Odetta, nel suo stato catatonico, pare che subisca «l’aggravarsi della crisi [, che] restringe sempre di più il margine della possibile iniziativa, finché in un supremo conato di rinunzia a sé e al mondo la volontà entra in un blocco spasmodico (83)»; la madre Lucia, nella sua ricerca convulsa per rivivere l’atto divino di cui ha goduto con l’Ospite, pare invischiata in una ripetitività dell’atto che dimostra come «determinati settori […] dell’agire vengano sottratti alla storicità, chiusi al dialogo con essa, e irrigiditi in una iterazione dell’identico che è la negazione del mobile divenire storico (84)». Il padre Paolo, attraverso lo spossessamento plateale di tutti i suoi beni, compie una «destorificazione per simboli allusivi [che] sembra ricordare i miti della vita magico-religiosa: ma i veri miti ridischiudono […] determinati valori sociali, politici, morali, poetici e conoscitivi, mentre i simboli allusivi a cui ricorre la [sua] presenza malata sono conati individuali del tutto vuoti di prospettiva culturale (85)».
A questo punto si capisce meglio in che senso è possibile leggere Teorema come documento etnografico di una data forma del vivere umano, quella borghese, che ha evidentemente delle difficoltà nell’affrontare i normali momenti di crisi che ciascuno all’interno della società e la società stessa nel suo complesso devono affrontare durante il divenire storico. Si può dire che la borghesia è incapace di affrontare il cambiamento ed il divenire, cioè che sia, echeggiando Roland Barthes, incapace di concepire l’Altro (86), nella misura in cui ciò che giunge nel divenire e che produce il vero cambiamento è necessariamente Altro, e che questa inettitudine deriva dall’assenza di un ethos del valore, che sappia trascendere la natura nella cultura, che sia in grado di «fare valore» (87).
Oltre all’evidente carica critica che il suddetto messaggio veicola, occorre ricordare che esso prende forma dal momento della crisi della presenza, che nell’opera, come ha ben messo in evidenza Marco Antonio Bazzocchi in coerenza con le affermazioni di de Martino, scaturisce dal sesso dell’Ospite. Da quest’opera in poi Pasolini non sposterà più il fuoco dell’attenzione da ciò che Teorema pone violentemente al centro della “parabola”: il sesso. La Trilogia della vita, Salò o le centoventi giornate di Sodoma, Petrolio, ma anche diversi articoli raccolti poi negli Scritti corsari o nelle Lettere luterane: tutte le ultime opere mantengono a diversa ragione il sesso al centro del discorso: come riaffermazione della gioia vitale, come oggetto del sadismo del potere, come elemento “catalitico” (88).
Quel che è interessante notare è il fatto che nel contesto di un Sessantotto che poneva il sesso e il corpo al centro delle proprie battaglie di liberazione, talvolta con modalità banali ed esiti che inaugurarono un nuovo conformismo, Pasolini li fissa anch’egli come punti cruciali, ma dal valore e dall’esito ambiguo: ci aiuta ancora una volta M. A. Bazzocchi, affermando che «Pasolini […] vuole rappresentare la forza assoluta di una sessualità primitiva. […] Potremmo quasi pensare che agisca in lui una volontà di avvicinarsi senza accondiscendervi alla contestazione giovanile del 1968: la rivolta contro l’istituzione principe della società borghese -la famiglia- avviene […] grazie alla presenza intensa, carnale, pervasiva della sessualità (89)».
Teorema acquista tanto più significato quanto più la si considera opera di crisi dell’autore che s’inserisce in un periodo di cambiamenti storici altrettanto critici, come la fine degli ultimi retaggi degli entusiasmi marxisti e i mutamenti sociali che porteranno alle lacerazioni civili degli anni Settanta. L’opera può dunque essere considerata in prospettiva come un luogo in cui si anticipano, si segnalano e si chiariscono, considerati nel momento della propria genesi, i campi che Pasolini toccherà negli anni Settanta e che renderanno così efficaci le sue critiche al mondo neocapitalistico.
Capitolo Due. Note
- P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 3 e segg.
- Ivi., p.875 e segg.
- Ivi., p. 1091 e segg.
- Ivi, p. 265 e segg.
- P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 1097-1098.
- P. P. Pasolini, Dialoghi con i lettori, in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, A. Mondadori, Milano, 1999, p. 1068.
- M. A .Bazzocchi, I burattini filosofi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p.107: «Pasolini affronta qui, per la prima volta, il mondo borghese, e lo fa dopo una serie di film dedicati al sottoproletariato o al mondo arcaico del mito».
- S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Editrice il Castoro, Milano, 1994, p. 100.
- E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 2002, p. 437.
- E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 142.
- . «La conclusione di Teorema […] è di tipo matematico e formale…», Intervista rilasciata ad A. Aprà, in P. P. Pasolini, Per il cinema, cit., p. 2942.
- P. P. Pasolini, Teorema, Garzanti, Milano, 1999, p. 13.
- Ivi, p.18.
- P. P. Pasolini, Teorema, Garzanti, Milano, 1999, p. 9.
- Del resto lo stesso Ernesto de Martino, ne La fine del mondo, fa grande uso del referto psicopatologico per trarre conclusioni antropologiche, in analogia a quello che si sta qui effettuando. Cfr. E. de Martino, La fine del mondo, cit., in particolare il primo capitolo, Mundus.
- P. P. Pasolini, Pasolini su Pasolini, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1393.
- E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 2002, p. 545. L’indicazione del passaggio in cui de Martino parla di sesso riguardo alla borghesia la devo a M. A. Bazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 108.
- E. de Martino, La fine del mondo, p. 545.
- M. A. Bazzocchi, I burattini filosofi, cit., p. 108.
- E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 15.
- P. P. Pasolini, Teorema, cit., p. 103.
- E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 18.
- E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 74.
- E. de Martino, Morte e pianto rituale, Boringhieri, Torino, 1975, p. 32.
- Ivi., p.. 33.
- Ivi, pp. 34-35.
- Cfr R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, p. 35: «uno dei caratteri costanti di ogni mitologia piccolo-borghese è proprio questa incapacità di immaginare l’Altro. L’alterità è il concetto che più ripugna al “buon senso”».
- Cfr. M. A. Bazzocchi, I burattini filosofi, cit. p. 113: «il “baratro” che annulla gli individui viene reso allegoricamente, sin dai titoli di testa, dall’inquadratura di uno spazio naturale, il deserto. […] Pasolini ci vuole dire subito che la sua è un’avventura nel vuoto»: del valore, aggiungiamo noi.
- Sull’uso di elementi di catalisi ritardanti cfr. G. Zigaina, Pasolini e l’abiura. Il segno vivente e il poeta morto, Marsilio, Venezia, 1993, p. 124 e segg.
- M. A. Bazzocchi, I burattini filosofi, cit., pp. 114-115.