Sullo scaffale. PPP vs Oriente nel libro “Orient (to) Express” di Marco Dalla Gassa

È fresco di stampa, per Mimesis edizioni (Milano-Udine, 2016) un bel saggio di Marco Dalla Gassa, docente di “Storia e critica del cinema” all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dal titolo Orient (to) Express. Film di viaggio, etno-grafie, teoria d’autore. Al centro dell’analisi le opere di alcuni grandi cineasti europei (Rossellini, Resnais, Pasolini, Ivens, Marker, Antonioni, Malle) che, tra gli anni Cinquanta e Settanta, amarono viaggiare in Asia in vista della realizzazione di film, documentari, inchieste e sotto la spinta di diverse sollecitazioni: curiosità intellettuale, militanza politica, occasioni di lavoro.
In questo filone di “orientalismo” cinematografico, lo studioso ritaglia per Pasolini un capitolo a sé, attento sia alla sua produzione su  pellicola che a quella su carta. È noto, infatti, che durante il suo primo soggiorno in India in compagnia degli amici Moravia e Elsa Morante, tra la fine del 1960 e il febbraio 1961, Pasolini stese un diario di viaggio che, uscito dapprima su “Il Giorno” tra il febbraio e il marzo del 1961, confluì poi nel 1962 nel libro
L’odore dell’India, edito da Longanesi.
Pasolini aveva approfittato dell’invito a un convegno internazionale sul poeta Tagore, a cento anni dalla nascita, decidendo poi di trascorrere alcune settimane nel grande Paese allora guidato da Nehru e di visitarne  alcune delle località più note, tra cui Mumbai, New Delhi, Benares, Calcutta, Madras, Agra e  Cochin.
Lo stesso Moravia redasse dei reportage di viaggio che, dopo essere comparsi sul “Corriere della Sera”, furono organizzati nel volume, edito da Bompiani,
Un’idea dell’India. I due libri non potevano essere più diversi, perché, come rimarca Dalla Gassa, tanto quello di Moravia era «freddo, analitico, geograficamente e storicamente circostanziato», quanto quello dell’amico Pier Paolo era invece «partecipe, immerso, discontinuo, impressionista». La sua era anzi la ricerca della restituzione in chiave di  finzione di un’esperienza del contatto e dell’incontro, secondo un bisogno fortissimo, sottolinea Dalla Gassa, «di racconto » e « una necessità d’innesco», al bivio tra l’avvertimento di un’impenetrabile alterità e insieme la possibilità della sua lettura e della sua narrazione grazie a più familiari parametri culturali e retorici.
Sulla sovrapposizione del noto per poter vivere e raccontare l’ignoto insiste anche la scrittrice Chiara Valerio in un intervento che, apparso il 4 luglio 2015 in www.doppiozero.com, ora riproponiamo come contributo allo scavo nel “terzomondismo” pasoliniano e nelle sue  geniali aporie.(angela felice)
 

"Orient (to) Express" di Marco La Gassa
“Orient (to) Express” di Marco Dalla Gassa

1961.Pasolini in India ovvero questa enorme folla vestita praticamente di asciugamani
di Chiara Valerio

www.doppiozero.com – 4 luglio 2015

1.(mappa)
La Malabar Hill, con le sue palazzine residenziali degne dei Parioli (p. 8)
un paesaggio da cartolina esotica dell’ottocento, da arazzo da Porta Portese (p. 10)
Sundar viene da Haiderabad, dove ha la famiglia; cerca fortuna a Bombay, come un ragazzo calabrese può venire a Roma (p. 12)
a Bombay, con chilometri di strada nelle gambe, camminavo per il lungomare… imparando a conoscere passo per passo quel nuovo  mondo, così come avevo conosciuto passo passo, camminando solo, muto, la periferia romana (p. 19)
gli uomini obbedivano alla donna anziana, pazienti e subordinati … questa situazione non mi era nuova: anche tra i contadini friulani succede qualcosa di simile, in certe usanze rustiche, sopravvissute al paganesimo (p. 22)
eppure gli indiani si alzano col sole,  rassegnati, e rassegnati, cominciano a darsi da fare: è un girare a vuoto per tutto il giorno, un po’ come si vede a Napoli, ma qui con risultati incomparabilmente più miserandi (p. 25)
[il santone] camminava altezzoso col petto in fuori, senza degnare di uno sguardo i fedeli. Sembrava un capufficio che passasse per il corridoio tra gli uscieri e i fattorini (p. 36)
Suor Teresa assomiglia in modo impressionante a una famosa Sant’Anna di Michelangelo: e ha negli occhi la bontà vera, quella descritta da Proust nella vecchia serva Francesca (p. 39)
era bramino … un ragazzo borghese europeo (p. 56)
una Fiat fece l’atto di venirci addosso … una cosa degna di Milano o di Palermo (p. 68)
i quotidiani di Bombay o di Calcutta sembrano quelli di Zurigo o Bellinzona (p. 84)
Tagore è un poeta dialettale come Pascarella (p. 84)
Chandury [scrittore indiano] ha l’aspetto di un capostazione veneto collezionista dei quadri dei macchiaioli (p. 87)
Il Taj Mahal è il San Pietro dell’India [è lo stemma dell’Air India ed è il sogno delle Zitelle inglesi] (p. 97)

L’odore dell’India di Pier Paolo Pasolini ha come sottotitolo, nell’edizione Pocket Longanesi del 1974, L’incontro di un poeta con una terra da Mille e una notte. La terra che Pasolini incontra in India è l’Italia, più specificamente le periferie e i mercati delle grandi metropoli italiane, tutte nominate: Roma, Milano, Napoli, Palermo. L’incanto del racconto che Pasolini evoca è soprattutto architettonico, artistico, un Piranesi delle antichità greche e romane, ma a colori; un paesaggio metafisico che pare la descrizione di un dipinto di De Chirico, piccoli indiani che paiono figure da stampe europee del SeicentoLe Mille e una notte d’altronde sono un racconto e un incanto d’interni. Solo che questo interno di Pasolini non è una stanza, ma un luogo, casa sua, l’Italia, perché l’italiano è la lingua nella quale pensa e scrive, la lingua nella quale in questo libro soprattutto cammina.
È interno perché sta “più dentro”, se fosse un tempo, sarebbe prima. Sarebbe il passato. Pasolini abita il presente col passato e questo passato inquilino altro non è che un’abitudine allo sguardo e l’impossibilità, conseguente, di rinunciare a questa abitudine. Tuttavia l’India è così grande e affollata che il passato, ramificato in immagini, metafore, eco e azioni, si annacqua, e le immagini, le metafore, le eco e le azioni si rivelano, improvvisamente, fuori proporzione e galleggiano, nelle acque sporche del fiume sacro, poveri resti in mezzo ad altri resti… «c’era qualcosa di analogo: soltanto che ora tutto appariva dilatante e sfumante in un fondo incerto» (p. 19). Pasolini scrive «ogni fatto più insignificante ha un peso di intollerabile novità» (p. 101). L’India è tollerabile fino a quando somiglia a qualcosa di già avvenuto, già visto.
L’India è l’occasione di restare dove si è, è la confutazione, il controesempio, forse, che il cattolicesimo non è universale, è l’opportunità di utilizzarla come sfondo per ossessioni letterarie o immaginifiche proprie e risalenti. Tornerà in India per girare Il fiore delle Mille e una notte.
I compagni di viaggio sono Alberto Moravia  (che la sera vuole chiudersi in albergo e dormire, ma può parlare con Nehru invece di analizzarlo; ed è famosissimo anche a quelle latitudini perché i suoi libri sono tradotti da Penguin  e in virtù di questa notorietà riesce ad avere sempre una camera d’albergo, anche quando sembra impossibile) ed Elsa Morante. L’igienismo di Moravia è definito con tono di affettuoso dileggio «meraviglioso», tuttavia, per Pasolini, la devozione degli indiani è «sudicia» e gli stracci di cui si coprono sono «incerati» di sporcizia. Il reportage dell’igienico Moravia si intitolerà Un’idea dell’India. Le idee sono più igieniche degli odori.
Elsa Morante è chiamata Elsa, Alberto Moravia è chiamato Moravia. Entrambi parlano inglese meglio di Pasolini. Entrambi, a Cochin, escono in Ford, accompagnati da un autista, perché Pasolini vuole rimanere «solo» e «sperduto».
L’incredulità editoriale di questa impermeabilità di Pasolini all’India si riverbera nella quarta di copertina della stessa edizione dove si legge: «Quel suo incontro con genti e costumi, tanto diversi e tanto remoti della Roma di Ragazzi di vita, lasciò un segno indelebile nella fantasia del poeta…», indelebile perché il segno che lascia è un solco già tracciato. Ribadisce: «Solo a piedi riesco a riconoscere le cose» (p. 40).
Pasolini è impermeabile perché le cose, visibili e invisibili, gli entrano dentro non per osmosi, ma per gravità, gli cadono addosso, lo ammaccano. Come ha osservato Federico Zeri, Pasolini era come un bronzo greco caduto da un treno, aveva qualcosa di ammaccato. «L’odore dell’India – quell’odore di poveri cibi e di cadavere, che, in India, è come un continuo soffio potente… – è diventato un po’ alla volta una entità fisica quasi animata… sembra interrompere il corso normale della vita nel corpo degli indiani» (p. 54). Sembra che il senso, col quale scrive – e guarda e odora e ascolta e assapora – Pasolini, sia il tatto. L’unico vero senso reciproco.

"L'odore dell'India" di Pasolini
“L’odore dell’India” di Pasolini (ed. Longanesi,1974)

2. («essere nello stato penoso in cui mi trovo io»)
Quando nell’ottobre 2013 sono stata per una settimana in Tanzania, per lavoro, mi sono ripromessa di non rimettere mai più piede nell’Africa nera. Avevo accettato perché dico sì a tutto quello a cui vorrei dire no, visto che i miei timori sono tutte avventatezze. Tuttavia avevo passato molti giorni a immaginarmi con un completo di lino, un panama, forse anche a dorso di un cammello, o di un cavallo arabo, con lunghe sciarpe a proteggermi dal sole e occhiali Persol, probabilmente. Mi piacciono i Persol con un Tè nel deserto. Avrei fumato sigarette ingiallite dal vento che smussa le dune. La mia idea di Africa era coloniale, colpevole forse ma, al massimo, nella misura in cui poteva esserlo Tempo di uccideredi Flaiano. Era anche un’idea da viaggiatore aristocratico di primi Novecento, à la manière deAnnemarie Schwarzenbach per esempio, caratteristiche che mi mancavano quando sono atterrata a Mwanza e che continuano a mancarmi adesso. Nelle mie fantasmagorie africane, credo fossi anche bionda. Il Tanzania non è il Nord Africa, posti dove non sono mai stata e che ho intravisto solo nei film e solo letto nei libri, e il distretto di Shynyanga, mia ultima destinazione, a 250 kilometri dal Lago Vittoria, non aveva niente del Cairo, di Tunisi o di Tangeri, nemmeno dei servizi RAI su Hammammet. A Shynyanga non c’erano bar o giornali, non c’erano alberghi e non c’era nemmeno la luce elettrica dopo il calar del sole. C’era solo un ospedale nel quale nascevano seicento bambini al mese. Troppa vita e troppo futuro per un occidentale. Di certo, per me. La differenza tra la verità della mia immaginazione e la realtà della Tanzania (cinque ore di volo dal Cairo) tuttavia non mi aveva annichilito, mi ero anzi ritrovata piuttosto pronta, laureata in grammatica del disagio. Il mio disagio non era scomposto, ma proporzionato e ordinato, si posava piuttosto leggiadro su nomi, cose, città, persone, fiori, frutti, da guardare per sentirmi davvero fuori posto. E in pericolo. Il pensiero successivo alla mia mano che allontanava il succo rosso rubino che mi era offerto come benvenuto – un colore visto mille volte e bevuto mille volte – è stato “sono intimidito, non capisco nulla di questo personaggio”, un gestore d’albergo qualsiasi, anzi, indistinguibile, canonico. Con grande esattezza, sapevo cosa e dove dovevo guardare per essere intimidita.
Poi un’eco più forte, improvvisa come il temporale che, nel frattempo e in pieno sole, stava allagando le strade di terra rossa:  «Moravia conosce abbastanza il mondo per non essere nello stato penoso in cui mi trovo io». Anche il mio stato penoso era “letto”. Veniva dall’odore dell’India di Pasolini.

3. (advertising)
Pasolini è il contrario di Ikea, l’antipodo di McDonald’s: tutti i magazzini Ikea sono blu e giallo, tutti hanno un percorso preordinato, tutti finiscono con cibi svedesi in deliziose scatole di latta; l’odore del McDonald’s è più identificativo del profumo degli stores di Abercrombie&Fitch. Pasolini rende evidente che tutto quello che ritrovi di simile al tuo paese, al tuo luogo natio, in un paese per religione, geografia, classe sociale media e clima molto diverso dal tuo, ce lo hai messo tu. Non è lì, non è autoctono e non ci sarà mai senza di te. La somiglianza è nell’occhio di chi guarda, come la metafora, la miseria, la misericordia. Se fosse una major, Pasolini sarebbe più simile alla Coca-Cola, una formula magica, una ricetta segreta, tarata paese per paese, in tutto il mondo, sempre nella la stessa bottiglia. Perché la novità non sia intollerabile a ogni sorso.

[info_box title=”Chiara Valerio” image=”” animate=””]nata a Scauri nel 1978, vive e lavora a Roma. Redattrice di “Nuovi Argomenti”, ha scritto per il teatro e per la radio, collabora con “llsole24ore” e “l’Unità”, al programma “Ad alta voce” di Rai Radio 3 e con la trasmissione culturale “Pane quotidiano”, Rai 3. Consulente editoriale della casa editrice “nottetempo”, cura la collana di nuove voci italiane narrativa.it. Ha pubblicato, tra l’altro, A complicare le cose (Robin 2003);Ognuno sta solo (Perrone 2007); Spiaggia libera tutti (Laterza 2010). Con “nottetempo” ha pubblicato Nessuna scuola mi consola e il romanzo La gioia piccola d’esser quasi salvi (entrambi pubblicati nel 2009), e tradotto e curato le edizioni italiane di Flush (2012) e Freshwater (2013) di Virginia Woolf. Il suo ultimo romanzo, Almanacco del giorno prima, è uscito nel 2014 per Einaudi.[/info_box]