Il libro-inchiesta Lo stato parallelo, scritto in oltre cinque anni dai giornalisti Andrea Greco e Giuseppe Oddo per Chiarelettere (2016), ricostruisce il ruolo dell’Eni, la maggiore azienda- quasi 50 miliardi di capitalizzazione in Borsa – nell’economia e nella geopolitica dell’Italia. Un primato che, come allude il titolo, chiama in causa anche i rapporti con i servizi segreti, il finanziamento a partiti e potentati locali, la finanza pubblica e le politiche occupazionali. L’Eni sarebbe così da sempre –si evince ancora dal libro- uno dei primi editori e inserzionisti del sistema dell’informazione, ruolo che negli anni passati lo rese una vera “fabbrica del consenso”.
I più grandi scandali e casi di corruzione nella storia italiana sono nati qui, dall’Ente che più volte con le sue strategie energetiche spericolate, prima filoarabe poi filorusse, ha messo alla prova i rapporti dell’Italia con l’Occidente; ma al contempo ha anche trovato una via alle forniture di petrolio e di gas per l’Italia. Il suo fondatore Mattei è morto in circostanze misteriose; un ex presidente (Gabriele Cagliari) s’è suicidato in carcere per Tangentopoli (inchiesta che ha decimato le prime linee dell’Eni e, come documenta il libro, si è molto avvalsa delle investigazioni del “comitato di crisi interno” costituito sotto la gestione di Franco Bernabé); gli ultimi due capi-azienda Paolo Scaroni e Claudio Descalzi sono indagati per corruzione internazionale in Nigeria.
Il libro ha raccolto le testimonianze di un centinaio di ex funzionari, addetti ai lavori, politici, studiosi, spulciando bilanci e documenti anche inediti. Ne è nato un racconto corale ricchissimo dell’Italia dal dopoguerra in poi, fino alla ristrutturazione cui è chiamato Descalzi, il dirigente petroliere venuto dall’Agip che deve far quadrare i conti aziendali – nel 2015 chiusi in rosso per 8,8 miliardi, cosa che non accadeva da un ventennio – per il calo del barile da oltre 100 dollari a poco più di 30 in solo un anno. In gioco ci sono l’indipendenza dell’Eni e degli approvvigionamenti energetici nazionali, e una corsa a diversificare le fonti che potrebbe sconvolgere gli assetti del Mediterraneo: facendo dell’Eni e dell’Italia dei possibili leader regionali oppure relegandoli entrambi ai margini di partite che davvero contano.
Sul libro, che intercetta anche il mistero della morte di Pasolini, pubblichiamo qui uno stralcio dalla recensione di Riccardo Antoniani, uscita il 16 aprile 2016 su www.huffingtonpost.it.
Pasolini e lo stato parallelo, il libro-inchiesta che svela le fonti del poeta corsaro all’Eni
di Riccardo Antoniani
www.huffingtonpost.it – 19 aprile 2016
Riferendosi ai mercati europei degli anni ’30, Daniel Yergin ha osservato che «il petrolio è 10% economia e 90% politica». Poco o niente è da allora cambiato, nemmeno per l’Eni, come racconta Lo stato parallelo (Chiarelettere) di Andrea Greco e Giuseppe Oddo che ripercorre gli oltre 60 anni di storia del cane a sei zampe: dalla presidenza Mattei interrottasi con l’attentato a Bascapé – a detta di Fanfani «il primo gesto terroristico nel nostro Paese» – alla recente nomina di Descalzi […].
Da Magini a Maugeri, passando per Sapelli, molti sono i titoli che hanno raccontato l’epopea del nostro colosso energetico, cui va a sommarsi Ascesa e declino del capitale pubblico in Italia di Franco Briatico [il Mulino 2004, ndr.] che negli ultimi capitoli fu assistito da Fiorini e Napolitano. Lo stato parallelo offre invece uno spaccato inusitato dell’Italia che va dal Dopoguerra alla fine della Seconda Repubblica e sinotticamente – questa la cifra che lo distingue dagli altri volumi – una vertigine nel cuore di tenebra dell’Eni, che secondo gli autori fin dalle sue origini si configurò quale stato nello stato. Primo del suo genere, l’idea d’un libro-inchiesta sull’Eni prese spunto dai cablaggi diffusi nel 2010 da Wikileaks. […]
Vennero allora confermati i timori del Dipartimento di Stato americano sul connubio energetico tra Eni e Gazprom, giudicato pericoloso perché funzionale a far dell’Italia la testa di ponte della Russia in Europa, con tutte le implicazioni di security industriale e militare che tale scenario avrebbe comportato.
Frutto di oltre cinque anni di ricerche tra biblioteche, archivi di tribunali e innumerevoli interviste, con rigoroso equilibrio e dovizia di particolari Lo stato parallelo svolge il filo di Arianna che lega la res pubblica all’interesse energetico, sconfinando in quelle zone d’ombra in cui corruzione, bilanci paralleli e dossieraggio nei decenni imposero o veicolarono operazioni poi assurte alle cronache giudiziarie. La tesi inedita e ampiamente suffragata è che il nostro ente abbia funzionato anche da incubatore per un’organizzazione del potere parallela a quella delle Istituzioni e che, in date circostanze, a queste si sostituì, federando e coercizzando la politica che si fa Stato; o addirittura vi attentò, come confidò Ravelli a Tamburini, parlando dell’autoesilio svizzero di Cefis.
Di fatto, a partire dalla seconda inchiesta sulla morte di Mattei condotta dal procuratore Calia negli anni ’90, sempre più insistentemente si attribuisce al Clausewitz di Foro Bonaparte la paternità di un nucleo di potere confluito nella P2, i cui assetti e talvolta vecchi protagonisti si ritrovano nelle successive enumerazioni che, di recente, dai tribunali sono rimbalzate alla stampa: la P3, la P4. «Quel blocco di potere – disse Ezio Mauro – l’esperienza insegna che è in qualche modo eterno, perché annidato sui muri del Palazzo, come le ragnatele: si estende sul sistema del potere apparente, e rappresenta una sorta di secondo strato, uno strato parallelo, un mondo che vive di relazioni in alto e in basso, ma ovviamente quello che conta di più sono le relazioni orizzontali».
Lo stato parallelo principiò con Mattei, quando al liquidatore dell’Agip riuscì invece di creare una multinazionale del petrolio, essenziale al miracolo economico postbellico e al cattolicesimo terzomondista di La Pira. Che il fifty-fifty matteiano fosse inviso alle Sette sorelle è risaputo, cosi com’è noto che rapidamente l’Eni divenne anche nodo nevralgico del potere italiano, con il suo giornale, la contabilità in nero e l’uso spregiudicato che all’occorrenza fece dei partiti: la parabola del gattino è in questo senso speculare a quella dei taxi. Poco, invece, si sa di Mattei reclutatore per Gladio, cioè quando Taviani «si rivolse a lui chiedendo nomi di partigiani da utilizzare per la struttura “Stay Behind”».
Se Mattei fu l’uomo dell’indipendenza energetica i cui fini, che l’agiografia vuole virtuosi, giustificarono i mezzi, il suo successore Cefis fu invece l’uomo i cui mezzi giustificarono i fini. Negli anni di Boldrini, da vicepresidente cui afferivano quasi tutte le cariche esecutive, risanò i conti e appianò le rivalità con le compagnie anglo-americane e al contempo – forte dell’educazione ricevuta alla Regia Accademia modenese cui seguì l’esperienza nel SIM roattiano, poi nei servizi alleati di Angleton e McCaffery – donò all’Eni un’organizzazione marziale con cui nel 1971 s’impadronì della Montedison. L’anno dopo, nella stessa Accademia ove fu cadetto insieme a Miceli e Maletti che coi mattinali mise alle sue dipendenze l’Ufficio D del Sid, Cefis pronunciò un celebre discorso, inteso dal gotha politico-industriale e militare come una chiamata alle armi a favore d’una svolta gollista che contava sull’elezione di Fanfani al Quirinale. Evocando «l’identificazione della politica con la politica economica», per cui «i maggiori centri decisionali non saranno più tanto nel Governo o nel Parlamento, quanto nelle direzioni delle grandi imprese e nei sindacati», auspicava che «il sentimento di appartenenza del cittadino allo Stato sia destinato ad affievolirsi […] sostituito da un senso di identificazione con l’impresa multinazionale».
Ne Lo stato parallelo, la parabola del boiardo di stato incrocia anche quella di Pasolini, che negli anni corsari abbracciò una prospettiva politico-economica per decifrare i cambiamenti epocali che interessarono l’Italia degli anni ’70 ed intese il pericolo del golpe tecnocratico architettato da Cefis, denunciandolo in filigrana negli articoli sul “Corriere della Sera” ed esplicitandolo nella magmatica narrazione di Petrolio.
Greco ed Oddo hanno raccolto una testimonianza di Mario Reali – poeta dalla «mente cartesiana e memoria di ferro», mandatario a Mosca della Montedison cefisiana e dal 1981 dell’Eni – che confuta chi, svilendo il fondamento delle intuizioni di Pasolini, ne ascrive ancora la morte a un omoerotismo autodistruttivo. Eppure in tempi recenti anche Arbasino ha scritto: «In questa storia orrenda e così ben congegnata, non c’è quasi niente che torna. Qualcuno così disperatamente impegnato in una polemica fortemente ideologica, e sapendo benissimo quante infamie rischia a ogni passo, sta (stava) bene attento a non esporsi alle conseguenze – non diciamo di una morte aideologica o impolitica o troppo scimmiottata sui propri temi letterari – ma addirittura di un impossibile incidente privato, imbarazzante, e poi così sfruttabile» [A. Arbasino, Ritratti italiani, Adelphi, Milano 2014, pp. 383-384, ndr.].
Ricordando le varie visite a Mosca di Cefis («i sovietici sapevano che era lui a comandare in Italia e veniva accolto meglio di un ministro»), Reali racconta come il campione della razza padrona si infastidisse ogni volta che Kossighin manifestava il suo cordoglio per la morte di Mattei […] e che il presidente Montedison si trovasse nella capitale russa («non c’era assoluto bisogno, non incontrò quasi nessuno, se ne stette sempre nel mio ufficio») quando Fanfani fallì la corsa al Quirinale, e «appena arrivò la notizia s’innervosì, cacciò tutti dall’ufficio». «Per chiamare in Italia – dice L’uomo a quanti [è il titolo della raccolta poetica di Reali edita nel 2008 da Teti ed. di Roma, ndr.]- bisognava riferire alla centralinista russa il numero e il nome della persona con cui si voleva parlare, mi capitò di ascoltare involontariamente qualcuno di questi nomi; quando poi uscì la lista della P2, mi accorsi che c’erano dentro tutti».
Nell’estate del ’74, Pasolini ricevette in fotocopia da Facchinelli tre discorsi di Cefis (quello modenese e uno mai pronunciato) e il pamphlet ricattatorio di Steimetz, rivelatisi centrali – ha dimostrato Calia – alle sezioni più politiche di Petrolio, le stesse in cui appuntava la correità del presidente Montedison nella morte di Mattei. All’inizio del ’75, forse grazie ad Attilio Bertolucci, Pasolini chiese a Giuseppe Ratti di parlare con Reali. S’incontrarono nel marzo dello stesso anno al St. Regis di Roma: Pasolini «aveva degli occhiali scuri che non si levò mai. Mi dette l’impressione di un uomo solo, braccato ma non impaurito. Sentimmo entrambi – almeno questa fu la mia sensazione – che ci fosse una nascente simpatia. Parlammo di letteratura russa e gli detti qualche foglio coi miei versi per avere un parere. Gli raccontai del mio incontro con Mattei quando ero studente a Mosca nei primi anni ’60. Mi chiese allora della sua morte, che cosa ne pensassi, soprattutto cosa ne pensavano i sovietici. Non me lo disse apertamente, ma era evidente che non avesse nessun dubbio che fosse legata a fatti e personaggi italiani. Gli raccontai degli incontri di Kossighin con Cefis. Mi chiese quindi che uomo fosse il presidente Montedison e se avevo delle sue foto, perché faceva fatica a reperirne. Trascorse più d’un’ora e quando ci lasciammo gli promisi che avrei parlato a Kossighin di Mattei e gli avrei dato una risposta in dicembre, quando sarei nuovamente sceso a Roma da Mosca».
Nei mesi successivi, Reali interpellò il premier russo: «”Furono gli americani ad ammazzare Mattei? Niet. E allora chi è stato? Guardate a casa vostra. In casa nostra in Italia o all’Eni? E lui oscillò la testa leggermente, come per dire, metà e metà». Pasolini non ebbe queste conferme, massacrato ad Ostia prima di poter rivedere Reali, che osserva: «Dopo l’omicidio ho collegato gli avvenimenti e ho realizzato che all’epoca stava certamente scrivendo Petrolio. […] Io personalmente, come scriveva lui, sono sicuro ma non ne ho le prove: quando lessi della sua morte a Mosca, la collegai ai suoi interessi per Mattei».
A Reali – che, considerato il fisico di Pasolini, non reputa credibile la versione di Pelosi ritenendo che «ci fossero più persone ad avergli teso un agguato» – ho anche chiesto se a suo avviso i mandanti siano da ricercarsi tra quei personaggi su cui imbastì la trama del suo romanzo incompiuto: «Nessun dubbio…» e raccontò anche a me delle telefonate moscovite dell’allora presidente Montedison, dei suoi interlocutori che poi nel 1981 ritrovò nelle liste scoperte da Colombo e Turone alla “Giole” [è il nome della fabbrica di proprietà di Liciogelli a Castiglion Fibocchi, ndr.].
[idea]Riccardo Antoniani[/idea]è ricercatore all’Università di Padova e all’Université Paris-Sorbonne, presso il cui Dipartimento di Italianistica attualmente insegna. Studioso di letteratura, arte e cinema, è autore di una raccolta poetica e di un saggio sull’ultimo Pasolini, di prossima pubblicazione in Francia. Collabora con “Il Sole24ore” e “Satisfiction”.