Martedì 26 gennaio 2016, alle ore 18, a Milano, nella Casa della Cultura, è stato presentato il numero 29 di “Capoverso” (ed. Orizzonti Meridionali), rivista di “scritture poetiche” di cui, insieme all’editore Franco Alimena, hanno parlato Giovanni Bianchi, Franco Dionesalvi, Gian Carlo Ferretti, Angelo Gaccione, Fulvio Papi e Alessandro Zaccuri.
La peculiarità della rivista, arricchita anche da un album fotografico, consiste nel fatto di essere pensata come omaggio a Pasolini, nel quarantennale della morte, e come contributo di studio ai tanti risvolti in cui si è dispiegato l’ingegno pasoliniano.
Così, dopo l’editoriale di apertura di Franco Dionesalvi e un lungo saggio biografico di Francesco De Napoli, dell’opera poetica si occupano Eleonora Bellini, Giovanni Bianchi, Carlo Cipparrone, Pietro Civitareale, Pino Corbo, Vincenzo Guarracino, Giuseppe Panella e Fulvio Papi, mentre sulla narrativa pasoliniana scrivono Saverio Bafaro, Alessandro Gaudio e Sangiuliano, a cui si aggiunge Angelo Gaccione per una riflessione sull’intervento saggistico e giornalistico di Pasolini, con particolare riferimento agli Scritti corsari. La sezione cinema, oltre ad un saggio di Paride Leporace, contiene anche le analisi di Roberto Villa e Alessandro Zaccuri. Completano la pubblicazione le testimonianze di Giuseppe Bilotti, Gian Carlo Ferretti, Luigi Fontanella e Annarosa Macrì e, in chiusura, alcune poesie dedicate a Pasolini da Mariella Bettarini, Adele Desideri, Franco Gordano, Gabriella Maleti, Anna Petrungaro e Raffaele Piazza.
Per l’occasione della presentazione del n. 29 di “Capoverso” Ottavio Rossani ha pubblicato (su http://poesia.corriere.it del 26 gennaio 2016) un suo commento che mira anche a fare il punto delle celebrazioni per il quarantennale e a riflettere sul lascito dell’opera pasoliniana, specie sul piano della lucidità premonitrice nel cogliere gli indizi del futuro (e ora presente a noi).
Pasolini, 40 anni dopo. Un commento
di Ottavio Rossani
http://poesia.corriere.it – 26 gennaio 2016
In questi ultimi tre mesi le iniziative per ricordare Pasolini e la sua incidenza nella storia letteraria e cinematografica italiana sono state veramente tante, anzi troppe, direi. Questo dovrebbe far riflettere su un quesito: perché dopo 40 anni è così necessario ristudiare Pasolini, in tutte le sue dimensioni di ricerca, su ogni tema da lui proposto, dalla poesia alla narrativa, dal cinema alla polemica sociopolitica (non solo con gli scritti corsari, che forse a torto vengono considerati le sue migliori espressioni sul degrado della società italiana corrosa dal consumismo e dalla caduta dei valori)? Forse la risposta è semplice: perché Pasolini in tutte le forme della sua creatività ha saputo penetrare lo spirito italiano di sempre. Spirito negativo, ovviamente. Tutta la sua opera infatti è una critica, a volte sdegnata, a volte amara nella constatazione di un suo interiore “vuoto sconsolato”. Infatti nel primo brano de La religione del mio tempo scrive: “E non ho mai peccato: sono/ puro come un vecchio santo, ma/ neppure ho avuto; il dono/ disperato del sesso, è andato/ tutto in fumo: sono buono/ come un pazzo. Il passato/ è quello che ebbi per destino,/ niente altro che vuoto sconsolato…”.
Questo senso di disperazione (che giorno dopo giorno si è alternato in lui con forme sconnesse di gioia, euforia, forza creativa, desiderio di vivere emozioni intense: puntualmente ogni giorno situazioni annotate nelle sue poesie, forme di verbali interiori delle discontinuità e delle delusioni, sempre in toni esasperati o eccessivamente teneri) lo ha accompagnato sin dall’inizio nella sua esistenza connotata dall’essere omosessuale.
Inutile girarci attorno: l’ostentazione a volte provocatoria del suo modo di essere e di vivere all’estremo ogni percezione, sensazione, riflessione, era la continua invocazione di volere essere capito e accettato. Accettazione pubblica che non è mai arrivata. I suoi amici romani non erano sufficienti: Elsa Morante, Alberto Moravia, Enzo Siciliano e tanti altri non erano il pubblico, non era la gente. Erano suoi affetti privati. Pasolini aveva bisogno di esser considerato non dalle sue inclinazioni sessuali, ma dalla sua opera di intellettuale, che per forza di cose si è indirizzata verso la critica, verso l’indignazione.
Anche le sue battaglie civili – diagnosi spietate delle derive qualunquiste, fasciste, delle corruzioni, della contaminazione operata in modo persuasivo ma sotterraneo dalla progressiva corsa ai consumi spesso inutili – non sono state altro che tentativi di confrontarsi con il mondo, dichiarando la sua “innocenza”, la sua “purezza”, che alla fine invece diventavano “scandali” in una società che non riusciva (non è riuscita) a “vedere” – come lui ha visto in anticipo – dove quella corsa al benessere individuale a tutti i costi avrebbe portato: e cioè alla corruzione dei sentimenti e dei valori.
Tra le sue tante creazioni, vorrei riproporre la lettura di alcuni testi dalla raccolta La religione del mio tempo, poesie scritte tra il 1956 e il luglio 1960 (come ha precisato lo stesso Pasolini), pubblicate nel 1961. A distanza di più di 50 anni, questi versi reggono bene e mostrano che egli ha “visto” molto lontano da quel promontorio di sguardi, ascolti e conoscenza che si era costruito con un frenetico studio e lavoro che in pochi anni lo hanno fatto diventare una specie di “oracolo” furibondo per il degrado del popolo italiano, come sottolinea in uno dei suoi tanti epigrammi – in questo libro – dedicato Alla mia nazione che cito integrale.
Alla mia nazione
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
Pier Paolo Pasolini
Da La religione del mio tempo
L’epigramma è la forma più efficace, per certi temi civili. Già i poeti latini lo hanno usato diffusamente. E Pasolini lo ha utilizzato per mandare i suoi strali più pungenti, e per una maggiore comprensione della sua visione della società. Con gli epigrammi ha colpito i vezzi e le smanie degli intellettuali. E, diciamolo pure, si è tolto molti sassolini dalle scarpe.
Ma la sua poesia più dissacrante sul piano civile e sociale è quella con i versi estesi, in una specie di spirale continua nel far montare l’ira e l’invettiva, nella consapevolezza che le sue parole comunque non avrebbero scalfito l’arroganza e la presunzione di chi persegue solo il proprio comodo sopravvivere a spese degli altri, infischiandosene della comunità e delle regole della convivenza. Ripropongo alla lettura In morte del realismo (1960), in cui Pasolini rivendica il buono di una tendenza culturale che nei primi anni del dopoguerra ha posto in evidenza la realtà visibile e invisibile, come stile di analisi della società e come proposizione di una nuova forza morale in una società che tende (va) alla corruzione e alla disgregazione. E lo fa polemizzando con gli intellettuali dell’epoca, ironicamente definiti “rispettabili scrittori”. Primo bersaglio Carlo Cassola (sul quale precisa più tardi che l’aveva bersagliato perché confuso dalle battaglie civili dello scrittore toscano in modo disordinato e discontinuo). Ma descrive anche quali scrittori resteranno come eredità del Realismo italiano.
In morte del realismo
Sono qui a seppellire il realismo italiano
non a farne l’elogio. Il male di uno stile
gli sopravvive, spesso, ma il bene resta,
spesso, sepolto insieme al suo ricordo.
E così sarà dello stile realistico.
L’eletto Cassola vivacemente attesta
ch’esso era ambizioso: se così fosse
sarebbe, questo, un gran demerito, ed equa
quindi, la sua fine.
(…)
Ma temo a dirvene il valore riposto:
non è bene, forse, che sappiate
quanto quello stile vi esprimesse!
Voi non siete legno, voi non siete pietre:
voi siete uomini: e da uomini,
capendo finalmente cosa era,
cosa voleva essere il Realismo
sia pur babelico o mimetico,
potreste indignarvi, potreste volere
la rivoluzione… Meglio non sappiate
che quello stile voleva darvi alla storia:
perché, se lo sapeste, incendiereste
il vostro Stato e la vostra Chiesa…
(…)
Eppure benché pugnalato a tradimento
e ormai defunto, l’ impuro Realismo
– sigillato col sangue partigiano
e la passione dei marxisti –
lascia a ciascuno, individualmente
«settantacinque lire» di rinnovato
senso della storia: sono poche, nulla,
in confronto ai milioni della metastoria
e del capitale: ma qualcosa sono.
Vi lascia inoltre il Pasticciaccio di Gadda,
stupenda prefigurazione d’ogni
creante mimetismo: vi lascia insieme
le diagnosi buone e spietate di Moravia,
la dolcezza sociologica di Levi,
la storia d’oro di Bassani, le creature
dell’Isola di Arturo, qualche giovane
che spera in un futuro non servile,
e una piccola Officina bolognese…
E vi lascia Calvino. La sua prosa
piuttosto francese che toscana,
il suo estro più volterriano che
strapaesano: la sua semplicità
non grigia, la sua misura non tediosa,
la sua chiarezza non presuntuosa.
Il suo splendido amore per il mondo
lievitato e contorto dalla favola.
I neo-puristi, i socialisti bianchi
– benvisti in Vaticano – non potranno
mai più privarvi di tale eredità.
Le opere e gli atti che il Realismo vi lascia
gli sopravvivono. Tale è la sua forza…
Ma voglia il Cielo che questo mio non sia
che un amaro scherzo shakespeariano…
Pier Paolo Pasolini
da La religione del mio tempo
Una lucidità critica imprevedibile, in quel 1960 che ci appare incredibilmente lontano. Già nel suo presente Pasolini è stato in grado di “vedere” nel tempo e oggi a oltre mezzo secolo risulta che la sua diagnosi non era peregrina. Il valore di Moravia, anche se lo scrittore non è molto in auge, non si può discutere. L’importanza di Calvino nella storia letteraria aumenta di giorno in giorno. Anche Leonardo Sciascia scrisse che Calvino era e si profilava come lo scrittore di maggiore tempra nel Secondo Novecento. Ma Sciascia, dopo la morte di Pasolini, scrisse anche che ne sentiva la mancanza per la sua capacità di decrittare i segni del tempo nella cultura italiana. La capacità di vedere oltre il presente, nonostante affermasse che il suo tempo era il passato come destino indelebile, è il segno profondo che Pasolini ha lasciato con la sua opera multiforme. Ovviamente nel marasma della grande quantità di suoi scritti e opere realizzate nei vari campi del suo ingegno, ognuno può scoprire ciò che non funziona, gli eccessi, soprattutto ciò che non gli piace, ma quel che non si può mettere in dubbio è la sua continua presenza, ineludibile, al limite per dirne che in fondo non è poi molto importante. Qualcuno l’ha fatto, anzi molti lo hanno detto. Ma con evidente disagio, con inutile sinecura.
[info_box title=” Ottavio Rossani” image=”” animate=””]calabrese di nascita, milanese per lavoro, è una importante firma della critica letteraria . Giornalista al “Corriere della Sera”, poeta, saggista, pittore, nonché autore di alcune regie teatrali, nel suo modo eclettico di esprimere l’arte dei sentimenti, non dimentica la Calabria, non solo con i “ritorni” a Soverato, ma anche grazie alla collaborazione con “Il Quotidiano della Calabria”, di cui è editorialista. [/info_box]