Recensione del libro “Pasolini”, di Antonio Tricomi

Proponiamo una interessante recensione del libro di Antonio Tricomi intitolato “Pasolini”, pubblicato nel marzo del 2020 per Salerno editrice. L’articolo a firma di Gualberto Alvino è presente sul sito della Treccani. Antonio Tricomi si occupa da tempo di Pasolini, cui ha dedicato: Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio (Roma 2005); Pasolini: gesto e maniera (Soveria Mannelli 2005); Scritti su Pasolini (Massa 2011). Ha curato per il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa assieme ad Angela Felice, due importanti convegni che si sono svolti il primo nel 2015, Pasolini oggi. Fortuna internazionale e ricezione critica, e il secondo nel 2016, Lo scrittore al tempo di Pasolini e oggi. Tra società delle lettere e solitudine. Gli atti di entrambi i convegni sono stati pubblicati dall’editore Marsilio nella collana Ricerche.

Nella premessa al suo ultimo lavoro su Pasolini uscito con Salerno editrice l’autore non manca di ricordare la stretta collaborazione con il direttore del Centro studi: “Nel licenziarle, c’è dunque semplicemente da dedicare queste pagine alla memoria di un’amica carissima, che per anni, e con tanta passione quanta intelligenza, nella promozione degli studi pasoliniani si è spesa, letteralmente, anima e corpo. Ecco: se solo Angela Felice avesse fatto in tempo a discuterne con l’autore del dattiloscritto, questo libro presenterebbe ora meno forzature, dimenticanze, imprecisioni”.

Antonio Tricomi

Pasolini

Roma, Salerno editrice, 2020

Recensione di Gualberto Alvino

Pasolinista acceso ma non dogmatico («Amarlo, con generosità, e insieme contraddirlo, con forza», il motto smitizzante che lo muove), Antonio Tricomi pubblica per la collana «Sestante» un dotto e istruttivo profilo biografico-critico del mai troppo studiato «artista multimediale» friulano, chiedendo al lettore di avvicinarlo non con intenti celebrativi, ma ingaggiando con la sua opera «un intenso, disinibito, se necessario finanche livoroso corpo a corpo […]. Perché il solo modo di rispettare i maestri — egli ci ricordava in Uccellacci e uccellini appropriandosi in totale libertà di una frase di Pasquali — è mangiarseli “in salsa piccante”. Renderne cioè controversa, e appunto così farne rivivere, la lezione, non certo venerarne con fanatico o remissivo zelo la memoria (che poi vuol dire: omaggiarli giusto in quanto monumenti e, dunque, cadaveri)».

In effetti, le considerazioni critiche dell’Autore, quasi sempre improntate a misura e cautela, oscillano per la gran parte fra luce e ombra, adesione e dissenso, in una costante, strenua ricerca d’onestà valutativa. Si legga, ad esempio, il giudizio sul primo “romanzo di borgata” (1955), correttamente definito il frutto della giustapposizione, anziché della fusione, d’un trittico di racconti apparso in «Paragone» quattro anni prima:

[P]er quanto Pasolini si sia sforzato di rendere coeso Ragazzi di vita, gli otto capitoli che compongono il libro tradiscono la loro primigenia natura di micro-mondi narrativi che, pur intrattenendo indubbi rapporti di parentela — i medesimi personaggi, la stessa ambientazione —, lasciano trasparire di non essere nati ognuno quale logico sviluppo del precedente, e quindi in ossequio a un preordinato ordito romanzesco. […] ci si accorge che la saldatura […] risulta il più delle volte tanto artificiosa quanto precaria. Per un verso, essa resta affidata a raccordi forse troppo meccanici o elusivi […]. Dall’altro lato, a rafforzarla sono insistenze simboliche (gli onnipresenti presagi di morte che si offrono ai personaggi) o reiterazioni descrittive (il caldo dell’estate, il sole che brucia, i corpi sudati dei ragazzi) che, in molti casi, rischiano di attestare più la debole verve affabulatoria dell’autore che non la presunta logica interna della macchina romanzesca. (pp. 79-80);

tuttavia, il romanzo è un testo

modernisticamente autoriale, fin troppo letterario e in piena coscienza sperimentale, tanto da pretendere di saldare assieme il modello verghiano e una eco, almeno, della lezione di Joyce. Lo ribadisce la scelta […] di impegnarsi non in una riproduzione del gergo romanesco il più possibile veridica, ma nell’elaborazione […] di un dialetto quasi in falsetto, ricalcato, al contempo, sul magistero di Belli, su quella lingua ‘assoluta’ di verlainiana o pascoliana memoria che aveva ispirato la modulazione del friulano in Poesie a Casarsa e, ancora, sulla vena espressionistica di Gadda. (pp. 80-81).

Quanto a Il vantone, versione del Miles Gloriosus plautino messa in scena nel 1963 dalla Compagnia dei Quattro, Tricomi nega che essa offra «elementi di particolare interesse per l’evoluzione della drammaturgia di Pasolini, [scaturendo] non da una “fedeltà di senso” al Miles Gloriosus, ma da una ‘deformazione di segno’ del testo latino che converte l’attualizzazione dell’originale in un ‘arguto tratteggio di costume’, capace di offrire il meglio di sé quando si affranca da ogni superstite ambizione di analisi politica» (p. 204). Ma a rendere esteticamente notevole questa prova di pastiche «è il fatto che ess[a] derivi da quel desiderio di contaminazione tra linguaggi alti e bassi alimentato da una confidenza con la musica popolare, con la tradizione delle marionette, col cabaret ormai salda nell’autore. Perché […] è in questa zona di contatto tra cultura istituzionale e cultura alternativa che […] Pasolini inizia a familiarizzare con Brecht» (p. 205).

La ricerca di obiettività produce esiti ancor più netti e probanti riguardo a Teorema (1968), da cui Pasolini trasse la sceneggiatura dell’omonimo, contestatissimo film, uscito nello stesso anno: opera seducente ma «improvvisata», essendo il prodotto di materiali di diversa natura ordinati pressoché casualmente, nel vano tentativo di «conferire artatamente una qualche unitarietà a un corpus testuale disorganico» (p. 239).

Più d’una perplessità suscita invece il pur ben argomentato entusiasmo del critico nei confronti delle due opere postreme e postume: Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) e Petrolio (1992). Il film — pasticcio granguignolesco senza sugo né costrutto e, soprattutto, involontariamente farsesco — sarebbe una giunta al Trittico della vita (Il DecameronI racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte) intesa a «correggerla a posteriori in chiave apocalittica» traducendola «nel primo tempo di uno stesso incubo, di un’unica “Tetralogia della Morte”» (p. 273), e il non-romanzo curato dal filologo Aurelio Roncaglia un capolavoro in potenza «perché Pasolini lo costruisce affidando a una propria visione poetica della realtà […] e dunque a intuizioni liriche dalle quali ricavare i presupposti di una coerente ma, in ultimo, claustrofobica filosofia epico-tragica della storia» (p. 295),

laddove si tratta d’un brogliaccio ingenuo e illeggibile, cui può annettersi al più un valore strettamente documentario, non certo narrativo né lato sensu di pensiero. Basti leggere l’atroce Consuntivo finale («Carlo ebbe rapporti sessuali completi — e per lo più ripetuti — con sua madre, con le sue quattro sorelle, con sua nonna, con un’amica di quest’ultima, con la cameriera di famiglia, con la figlia quattordicenne di costei, con due dozzine di ragazze della stessa età e anche più giovani, con una dozzina di signore dell’‘entourage’ di sua madre») e l’interminabile, stucchevole grande bouffe rozzamente descritta nell’Appunto 55, Il pratone della Casilina: venti atti sessuali pressoché identici, resi per giunta con le medesime parole, virgole incluse.

Riferimenti bibliografici

Antonio Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Roma Carocci, 2005.

Id., Pasolini: gesto e maniera, Soveria Mannelli, Rubbettino editore, 2005.

Id., Scritti su Pasolini, Massa, Transeuropa, 2011.