Recensione di Darius – www.debaser.it
L’approccio neorealista di Pasolini è tanto semplice quanto scarno di molteplici interpretazioni: un sottoproletariato affamato di pane, denaro e vita, la miseria dei reietti e dei condannati, la politica traballante fra la Croce e il binomio falce-martello, il lento districarsi dal terrore del fascio oppressore, l’incapacità di uno Stato nel provvedere a tutti, lo squallore delle periferie, l’ignoranza, l’analfabetismo, la cultura del materialismo, il desiderio di procacciarsi il meglio sul mercato nero dell’anti-borghesia. Da ciò sono nati Ragazzi di Vita, Una Vita Violenta, Il Sogno di una Cosa, storie di bambini e ragazzi, soggetti prediletti dall’autore, che tentano, invano, di campare senza troppe pretese e richieste, vivendo alla giornata, assaporando tutto ciò che la realtà può regalare loro, giungendo persino a rubare, massacrare e optare per nuove forme di schiavitù.
Ragazzi di Vita, primo romanzo di Pasolini pubblicato nel 1955, è un lavoro che esprime una doppia crudezza. A una narrazione totalmente redatta in dialetto romanesco (molte volte totalmente incomprensibile e impenetrabile) si aggiunge la mesta vicenda di un gruppetto di ragazzi del basso proletariato, rappresentanti dal Riccetto, abbandonati dai genitori e lasciati a vivere la dura vita di strada. Le giornate del Riccetto e dei suoi amici trascorrono a metà fra lo svago (i consueti bagni nelle sporche e inquinate acque del Tevere e dell’Aniene), la ricettazione, la raccolta e lo spaccio di ferro e altro materiale metallico rinvenuto nelle discariche e qualche estemporanea ruberia. In una città apparentemente ordinata e ricostruita dopo i disastri della Guerra, la banda di adolescenti cresce e matura sulle sordide strade della periferia, venendo persino deliberatamente molestata dai ricchi borghesi pedofili e pederasti che amano nascondersi con le loro inconsce vittime sotto ponti, ferrovie o presso gli argini dei fiumi. L’opera si conclude con la morte accidentale di Genesio, uno spavaldo ragazzetto ingoiato dai flutti dell’Aniene di fronte agli occhi stravolti dei suoi compagni.
Eccelsa testimonianza di una rinascita post-bellica non troppo riuscita, Ragazzi di Vita sconvolge per l’intensità delle vicende volutamente ridotte a banale “routine” giornaliera. Il duro campare per i marciapiedi, il dormire all’aria aperta lontano da famiglia e casa, la piccola delinquenza e l’assenza di qualsiasi intervento dall’alto sono concepiti dall’autore e dai protagonisti del suo romanzo come la sublimazione della normalità e della consuetudine per un reietto o un emarginato, confinato e recluso agli angoli della società. Il Riccetto e colleghi rifiutano persino di staccarsi dalla strada, considerata come la loro vera madre, la protettrice di un Male in realtà già insito nell’umanità dilaniata.
La Roma di Pasolini è, poi, il ponte fra il passato e il futuro, il crogiuolo di un benessere che tarda ad affermarsi e che, tuttavia, pare non essere particolarmente richiesto a gran voce dalla banda di ragazzini. Basta poco per farli felici: pochi quattrini ottenuti dalla vendita dei ferrovecchi, una fetta di pizza al taglio e qualche leccornia della gastronomia romana, un “Namo” verso il fiume, i vicoli bui e la spiaggia di Ostia, una partita a calcio, una dormita sotto le stelle, una calorosa discussione notturna con barboni, prostitute e nomadi. Ed è questo che smorza l’asperità e la crudezza del romanzo, che tiene in vita i protagonisti e “rilassa” il lettore.
Ragazzi di Vita è stato altresì la prima delle gravose diatribe fra una mente geniale e l’arcaica giustizia italiana, troppo morigerata per comprendere la schiettezza dell’opera e la genuinità della narrazione. Pasolini e le Corti avrebbero litigato sino alla tragica morte dell’autore, spaccando un Paese fra ipocrisia e verità: conflitti che sarebbero stati la portaerei per una rivoluzione del costume e del pensiero ancora incompiuta e inadeguata, soffocata dalla politica dei sogni e dal finto welfare delle illusioni, i nemici che il nostro Pier Paolo non è riuscito ad annientare definitivamente.