È uscito nel 2016 per Guanda Piccolo romanzo magrebino, nuovo libro in cui il poeta Nico Naldini ripubblica e riposiziona i componimenti di tre precedenti raccolte, uscite nel 1999, 2002 e 2006, come per costruire il racconto in versi della sua ultima evoluzione. Su questo aspetto strutturale di diario romanzato si sofferma l’analisi di Angela Felice, in una recensione uscita sul “Gazzettino” del 12 febbraio 2017.
Piccolo romanzo magrebino
di Nico Naldini
Una scheda di Angela Felice
www.gazzettino.it – 12 febbraio 2017
Autoritratto in versi per frammenti? Meditazione confessionale sul “gran Segreto” e sul “mal d’amore”? Cronaca da viaggio divagante in geografie reali e mentali? O, ancora, congedo consuntivo in parole, ora che “è arrivata la vecchiaia”, lo “slalom” è “verso il nulla” e, dal “bordo di una strada”, si può cercare di mettere ordine nel mistero volatile dell’esistenza?
Non è facile, ammesso che abbia un senso, imbrigliare in una categoria definita Piccolo romanzo magrebino (Guanda, 2016), ultimo libro di Nico Naldini, forse il suo più bello, in cui il poeta accorpa, con qualche ritocco, le liriche di tre precedenti raccolte del 1999, 2002 e 2006. Opera rinnovata, dunque, che consente di entrare nel laboratorio complessivo dell’autore, squadernato nelle sue espressioni recenti e, appunto, offerto nel divergere apparentemente centrifugo di tanti fili. E’ vero che i componimenti, distesi o incisi come aforismi, e tutti tentati dalla prosa, sono incernierati attorno al puntello di alcuni temi trasversali: l’illusione erotica, ad esempio, tra ansia del desiderio e delusione, o la ricerca della bellezza che –sulla scia della Woolf- pare la calamita assoluta dello sguardo umano. E, inoltre, vi è il mito dell’amabile gioventù maschile che, se maghrebina, è leggera come il vento capriccioso che se ne fa il simbolo: indossa i nomi passeggeri di tanti bellissimi Haykel, Khaled, Houssem o Rijad, appare, si dona, tradisce, talora ruba e infine scompare.
Il libro è tutte queste cose insieme, e altre ancora, sicché pare sfuggire, come nei riflessi cangianti di uno specchio. Eppure, a orientare sulla strada giusta provvede il titolo, ripreso dalla raccolta del 2002, e in esso, in particolare, la parola “romanzo”, allusione possibile per siglare una storia in cui l’io – un “microscopico incidente”, dice di sé- si sbalza a personaggio di un diario narrativo in evoluzione, marcato anche da una minima cronologia a tre fasi: “nei primi anni Novanta”, poi “nei primi anni Duemila” fino al non-tempo della sezione conclusiva “Confini del Paradiso”. Mutano tante cose nel trascorrere di quei decenni e giorni. L’Africa maghrebina, vista dal buen retiro di una casetta tunisina meta di soggiorni periodici, si incupisce in territorio depredato dalla modernità, che avanza con ruspe, speculazioni da business, luccichii di un falso benessere. Mutano anche i ragazzi dalla pelle di luna, tentati dalla “trappola di sognare l’Europa”, incanagliti dall’alcol e dalla droga, spenti in un nuovo sguardo torvo di islamici ostili.
E’ un “voltafaccia della vita” che modifica soprattutto l’io del poeta. E lui, che dapprima avrebbe ambito a essere sepolto nel suo Eden africano, poi ne vuole fuggire per coltivare nel Veneto di ritorno il taedium vitae, ombreggiato anche dalla coscienza che i poeti sono impotenti a “mettere nel sacco la lingua della realtà”. Perduto il Paradiso, che poi qui è quello del corpo, non si approda però alla resa e la notte del poeta “Amhor” non è solitaria. La affollano ricordi, presenze e fantasmi di poeti congeniali, Kavafis, Proust o i greci antichi, affioramenti inteneriti delle origini friulane e della “lingua delle madri”, anzitutto della propria. Il capolinea del “piccolo romanzo”, che si svela una storia in versi di “formazione”, comporta così anche l’acquisto della saggezza pura, quasi stoica. Non ci sono più i ragazzi “come stracci che volano al primo colpo di vento” e in Italia la magia della parola “Oriente” si rovescia nel sapore cattivo dell’Est balcanico, ma almeno si può acciuffare a ritroso la ricetta della felicità. Semplice: “è fare una domanda / e ottenere con dolce inflessione / una risposta”.