Edoardo Rialti ha scritto di recente una recensione equanime del pamphlet Pasolini contro Pasolini (Lindau, 2016), il cui l’autore, il giornalista Nicola Mirenzi, vi passa al setaccio la miriade di celebrazioni che hanno ricordato il poeta friulano per i quarant’anni dalla morte, tra appropriazioni indebite, strumentalizzazioni e mitizzazioni retoriche. Sotto questa severa requisitoria contro i fenomeni della santificazione postuma si cela tuttavia il sincero afflato verso un autore che evidentemente Mirenzi ha letto e meditato.
“Pasolini contro Pasolini”. Una recensione
di Edoardo Rialti
www.ilfoglio.it – 10 maggio 2016
Mentre si accaniscono sul cadavere di Patroclo e vi conficcano le lance, i troiani dell’Iliade sghignazzano: «Non era così tenero, prima». E’ amaro e crudelmente ironico constatare che, in fondo, è successo lo stesso con un amante del mito e della tragedia come Pier Paolo Pasolini. In effetti, pare proprio una delle sue fiabe cinematografiche, come Uccellacci e uccellini, Cosa sono le nuvole? o la sceneggiatura sull’aquila indomabile che fa invece spiccare il volo al falconiere: la storia di un uomo totalmente inascoltato e persino sbeffeggiato in vita, e di cui invece tutti si riempiono la bocca con solenne approvazione solo dopo la morte brutale.
Il libro di Mirenzi ha anzitutto il notevole pregio di farsi largo tra la serie delle riduzioni e appropriazioni postume, per smascherarne la fondamentale ignoranza e persino ipocrisia, abbracciando il cadavere e provando a far riemergere il volto dai tagli e le percosse travestite da omaggi. C’è sempre una segreta violenza nel voler risolvere, incasellare e arruolare un intellettuale «abitato da conflitti spaventosi e in cui non c’era una tesi, un’antitesi e poi il vissero felice e contenti della sintesi. No. Il suo era un conflitto costante e irrisolvibile. Costitutivo». Come scrisse il grande storico Michael Korda, è profondamente disonesto pretendere di sapere cosa un personaggio del passato avrebbe detto o fatto, soprattutto di eventi che non ha conosciuto. E invece è proprio questo ventriloquismo ideologico ciò che è stato fatto con Pasolini, «perché citare è un conto. Fare propaganda un altro. Prestare attenzione a cosa si sta maneggiando, un altro ancora». E’ una colpa singolarmente trasversale: dei fascisti 2.0 («perché l’unico Pasolini buono – per la destra – è il Pasolini morto»), dei chierici di partito («una volta le chiese bruciavano gli eretici. Dopo, per disfarsene meglio, hanno imparato a celebrarli»), delle istituzioni che lo citano malamente a ogni carica della polizia come “manganello preventivo”, dei cattolici di Cl che lo fondono con Giovanni Testori e ne fanno non un omosessuale triste, ma un uomo triste perché omosessuale.
Paradossalmente, lo hanno ascoltato molto meglio proprio coloro che non l’hanno voluto fare a brani e assimilare: i Radicali di Pannella, che Pasolini amava e con cui al tempo stesso si scontrava, uno scrittore distante in modo siderale come Sciascia, la queer culture americana più estrema e contestatrice. Questo progressivo disvelamento di tutto ciò che Pasolini “non” era (e che invece gli è stato fatto dire) è reso possibile da un costante paragone, autentico e personale, con le sue vere parole, col suo sguardo e le sue provocazioni: «E’ stupefacente la facilità con cui si pensa che Pasolini abbia avuto ragione nel fare le analisi che ha fatto e poi si sfugge dal sentirsi chiamati in causa. Vi invito a leggere le Lettere luterane e a provare a sentirvi salvi». Ciò traspare in alcune intuizioni critiche davvero suggestive: «Quello che descrive Pasolini è – spesso – un parlamento interiore, la sua personale, e perciò universale, Camera dei deputati: dove a destra (per comodità) siede l’istinto di conservazione, a sinistra il desiderio di rivolta. La politica per Pasolini è tutta politica interna. Mette in gioco noi stessi in prima persona. Non (solo) questo o quel partito».
Mirenzi ha letto davvero Pasolini, e liberandolo dal pasolinismo a buon mercato, ottiene due risultati parimenti importanti: riempie il lettore di rabbia per questa vittoria postuma dei “farisei”, di qualunque colore che Pasolini dipinse nel suo Vangelo secondo Matteo, e suscita al tempo stesso un grande desiderio di tornare semplicemente a leggerlo, e ad ascoltarlo davvero.