“Ontologia del rifiuto”, di Guido Zingari. Una recensione

Francescomaria Tedesco recensisce il volume Ontologia del rifiuto. Pasolini e i rifiuti dell’umanità in una società impura di Guido Zingari (Roma, Le nubi, 2006, pp. 135)

Il libro di Guido Zingari intende, come icasticamente si evince dal titolo, “interrogarsi sull’essere e sull’essenza di ciò che viene definito rifiuto e sul significato che tale concetto riveste nelle sue pratiche quotidiane” (p. IX).
Tuttavia il testo, che per ammissione dello stesso autore è una commistione di pensiero filosofico e poesia, risulta spesso frammentario, poco coerente, lacunoso per ciò che riguarda la definizione del concetto di ‘rifiuto’. Emergono comunque, agli occhi del lettore, due dati problematici: la distinzione tra rifiuto ‘rifiutante’ e rifiuto ‘rifiutato’, ovvero tra rifiuto come gesto attivo, come soggettività, e rifiuto come oggetto passivo, vittima del gesto di rifiutare; l’idea che il rifiuto sia soltanto un altro degli innumerevoli sinonimi per descrivere gli ultimi/umili, i reietti (per Zingari i ‘deietti’), i subalterni.
Se con riferimento alla prima delle due idee messe in luce non c’è molto da dire, dato che risulta difficile rintracciare nel testo una cristallizzazione dei due concetti complementari di ‘rifiuto’ (non si va al di là di espressioni sinonimiche come ‘allontanamento’, ‘rigetto’, ‘deiezione’, ‘anime dannate e agonizzanti’, etc.), qualche domanda – che getti luce anche sulla prima questione – sorge invece con riferimento alla lettura, da me avanzata, del rifiuto come sinonimo del ‘dannato della terra’.
Proprio con riferimento a quest’ultima espressione, è doveroso notare, con Dipesh Chakrabarty (La storia subalterna come pensiero politico, in «Studi culturali», I, 2004, 2, pp. 242 sgg.), che Frantz Fanon la mutuò dall’Internazionale Comunista, la canzone, e che ciò rappresenta il paradigma di una vicenda politico-filosofica molto rilevante. Quando il giovane Marx elabora il concetto di ‘proletariato’, in tale categoria c’è una precisione filosofica che si va successivamente perdendo attraverso la sostituzione di esso con concetti come ‘contadini’, ‘masse’, ‘subalterni’, ‘dannati della terra’.
In tale continuo slittamento dal termine originario (e dalla sua cogenza filosofica) si dispiega il fallimento dell’idea marxiana di proletariato, in quanto essa, profondamente eurocentrica, sembra non possedere capacità euristiche per interpretare la realtà non europea, tanto da richiedere un continuo slittamento da quel termine verso concetti analoghi ma ‘piegati’ alle esigenze di un pensiero filosofico-politico che provincializza l’Europa (per parafrasare il titolo di un fortunato libro di Chakrabarty): “termini come «contadini» (Mao), «subalterni» (Gramsci), «dannati della terra» (Fanon), «il partito come soggetto» (Lenin/Lukács) non hanno nessuna precisione filosofica né tanto meno sociologica” (p. 243).
Lasciando da parte l’analisi di quel fallimento, ovvero se sia possibile pensare che lo slittamento produca finalmente un soggetto rivoluzionario (la risposta di Chakrabarty delude quando egli si affida alle sirene della moltitudine negriana), resta il dato della pressoché totale inservibilità filosofica e politica di un concetto (quello di ‘rifiuto’) che non ha alcuna precisione filosofica e che, sul piano sociologico, fatica a fornire una chiave di lettura della realtà.
A ciò si aggiunga che tale concetto tende, nel saggio di Zingari, a proiettare degli ultimi della terra un’immagine di autenticità, di accesso immediato alla conoscenza attraverso la sofferenza, seguendo un cliché che vorrebbe gli umili, gli sfruttati, i diseredati come portatori della ‘corona di spine della rivoluzione’ (Majakovskij) poiché intrinsecamente ‘buoni’: “Quel mitico mondo arcaico e contadino scomparso in Italia e in Occidente, Pasolini l’avrebbe ritrovato, in parte, altrove nel suo incessante peregrinare nel Paesi arabi o in Oriente. Laddove, accanto ai rifiuti, alla povertà, al dolore e alla gioia, si erano conservati ancora la dignità, il valore e quindi il significato di vite sofferte e più autentiche” (p. XV, c.m.).
A questo proposito, ma en passant, mi sembra invece utile richiamare un concetto (espresso, mutatis mutandis, da autori come Elster, Nussbaum, Spivak, Bourdieu) che potremmo condensare nel sintagma ‘violenza simbolica’ (o, seguendo Spivak, ‘epistemica’): non vi è nessuna certezza che i subalterni, gli umili, i diseredati posseggano una visione più ‘autentica’ della realtà (data loro dalla sofferenza e dall’assenza di sovrastrutture); al contrario, come dimostra in particolare Spivak, i dominati partecipano dell’ideologia dei dominanti, ne condividono le finalità, gli scopi, e spesso sono complici dei loro stessi ‘carnefici’, poiché le loro strutture cognitive subiscono l’aggressione da parte dei codici semantici del dominio. In altre parole, i dominati (i rifiutati) spesso parlano con la ‘lingua’ che i dominanti hanno fornito loro.