La recente uscita del volume La biblioteca di Pasolini (a cura di G. Chiarcossi e F. Zabagli, Olschki, 2018) stimola Paolo Di Stefano non solo a scrivere una illuminante recensione ma anche a riflettere sul carattere di strumento di lavoro che il libro rivestiva nell’”officina” pasoliniana e a ricavare dal complesso delle opere in possesso del poeta (non molte, poco meno di tremila) il ventaglio selettivo degli interessi e delle preferenze dell’autore, oltre che la rete delle relazioni tra Pasolini e la repubblica delle lettere del suo tempo, tra confidenza consolidata, indifferenza o dichiarata ostilità.
Pasolini, la biblioteca-officina. Le unghiate sulla pagina e le dediche degli altri
di Paolo Di Stefano
www.corriere.it/cultura – 19 febbraio 2018
Pier Paolo Pasolini non aveva nessuna passione da bibliofilo o da collezionista di libri. La sua biblioteca era estremamente funzionale agli studi e ai lavori che il poeta, il narratore, il critico, il corsaro, il cineasta andava conducendo. Questa idea dei libri per nulla sacrale o feticista è ben dimostrata dal catalogo dei volumi posseduti dallo scrittore, che esce presso Olschki con il titolo La biblioteca di Pier Paolo Pasolini, a cura di Graziella Chiarcossi e Franco Zabagli. Catalogo sui generis, per la verità. Piuttosto un insieme di elenchi per nuclei tematici dei libri che Pasolini raccolse e tenne con sé nei vari traslochi: poesia italiana, dialettale, popolare; narrativa italiana e straniera; critica letteraria, linguistica, filologia, semiologia; storia, filosofia, psicologia, antropologia, politica, sociologia; biografie, memorie, epistolari, testimonianze; arte, teatro, cinema, religione. Ci sono poi i classici greci e latini e quelli divisi per collane forse predilette: Ricciardi, Utet, Poesia «bianca» Einaudi, Scheiwiller. Infine una sezione a sé con i libri recensiti.
La raccolta pasoliniana si forma per accumulo e per selezione progressiva e il «laboratorio» muta con il variare delle attività e dei luoghi in cui si colloca: dalle stanze giovanili di Casarsa e di Versuta a quelle romane di Ponte Mammolo, di Monteverde Vecchio, dell’Eur, alla casa sul mare di Sabaudia, all’«eremo» viterbese della Torre di Chia.
È Graziella Chiarcossi a ricordare la biblioteca del cugino, avendo vissuto con lui e sua madre Susanna dal 1962: dietro la scrivania, gli scaffali con la poesia e la narrativa, accanto ai manoscritti e ai dattiloscritti delle sue opere, «che spiccano nel bianco del legno per il colore rosso mattone delle cartelle». A fianco del camino, in salotto, «due librerie alte e strette ospitano la collezione dei classici Ricciardi, mentre sopra un lungo fratino, alle spalle del divano, sono messi in bella vista i volumi d’arte». Siamo nella casa di via Eufrate 9, in cui madre e figlio si trasferiscono nel maggio 1963 dopo essersi liberati del famoso mobilio verniciato di nero, rispedito a Casarsa. Nel rifugio di Torre di Chia, ricorda Chiarcossi, Pasolini scrive gran parte dell’ultimo romanzo, Petrolio, rimasto incompiuto. I due ripiani neri carichi di libri, a pianterreno, verranno svuotati dai vandali dopo la morte dello scrittore.
Come osserva Zabagli, ci sono titoli che segnano fasi riconoscibili della biografia intellettuale. I Canti del popolo greco di Niccolò Tommaseo, posseduti in edizione Einaudi 1943, saranno fondamentali nel periodo friulano; l’amatissimo Pascoli della tesi di laurea sarà lettura precoce e onnipresente; Mimesis di Erich Auerbach sarà una sorta di vademecum teorico nel 1956 durante i sopralluoghi con Fellini per Le notti di Cabiria; I Demoni di Dostoevskij diventeranno materiale vivo per la stesura di Petrolio, dove è stilato l’elenco degli autori-guida, da Gogol’ a Swift, da Longhi a Sade, da Sterne a Joyce a Schreber (un esemplare Adelphi 1974 di Memorie di un malato di nervi è tra i titoli elencati). Senza dimenticare la passione per la filologia (il maestro Contini) e le infatuazioni della stagione strutturalista e formalista (Propp, Sklovskij…).
Una biblioteca di lavoro, che con le carte manoscritte, la corrispondenza, i disegni, le fotografie e gli oggetti (la Lettera 22), è depositata al Gabinetto Vieusseux: sono, come precisa la direttrice Gloria Manghetti, i quasi tremila volumi che componevano lo studio di via Eufrate. Non tanti, dopotutto, ma si sa che le librerie private dei grandi intellettuali (e anche dei piccoli), minime o maestose, sono sempre cariche di storia individuale e familiare.
Nico Naldini ricorda la vecchia casa materna di Casarsa, dove le pareti del Larìn, «il focolare con uno splendido alare di ferro battuto» con panche e due seggioloni, erano zeppe di volumi «nei limiti imposti dal regime fascista», pur con «qualche pericolosa insubordinazione come i primi libri di Joyce e i tre contributi alla teoria sessuale di Freud». Naldini conosce, attraverso le monografie, gli artisti viventi, de Chirico, Carrà, de Pisis, Morandi… E puntualizza che se dal catalogo mancano molti filosofi della Laterza è perché Pier Paolo, rimasto al verde nei primi mesi romani, gli chiese di andare a venderli in una libreria di Venezia. Tra i ricordi più commoventi c’è la fuga di madre e figlio, sotto i bombardamenti, dalla casa di Casarsa verso un rifugio affondato nei campi: i vicini li aiutarono a caricare sui carri i grandi mobili neri che papà Carlo, ufficiale di carriera, aveva fatto costruire dai suoi soldati. Accanto a quei mobili, nel fienile, finì anche il cumulo di libri trasportato su un solo carro e messo in salvo dai due ragazzi: fu in quel fienile che Nico ebbe modo di leggere, in quasi clandestinità, le prime poesie di Penna e Sereni.
Con i libri, Pasolini aveva un rapporto molto fisico, scrive Chiarcossi: «Faceva tante orecchiette e, a volte, quando evidentemente non aveva a portata di mano una penna, evidenziava quello che gli interessava con le unghie, scolpendo un segno nella pagina. Poi chiosava, appuntava». Anche i colpi d’unghia vengono registrati nel catalogo. E risaltano più di altri quelli rimasti incisi nelle pagine de La Storia, lo «Struzzo» einaudiano dell’amica Elsa Morante severamente recensito da Pasolini come un insieme disarmonico.
E poi ci sono le dediche, tutte opportunamente trascritte. Persino le più goffe e a volte quasi comiche dei poeti in cerca di un posto al sole, quelli che inviano semplicemente «con preghiera di recensione». Quelli che manifestano l’ansia di un giudizio, quelli che si propongono «devotamente» e «umilmente»: «se vorrà perdere qualche minuto, grazie!», «mi scusi di aver osato», «posso sperare in una risposta?»; quelli che inoltrano le proprie opere «fra timore e coraggio» o che dichiarano una resa a priori: «A PPP questo mio fallimento che se non altro mi ha fatto capire ciò che non si deve fare». E al poeta che esprime ammirazione con litote «per la Sua non comune intelligenza», fa da controcanto il coro ora ingenuo ora adulatorio fino all’untuoso: «All’ottimo Pier Paolo Pasolini», «A Pasolini, a cui devo le letture che più mi hanno sconvolto nel profondo», «A Pasolini, stimandone il fervidissimo ingegno con la più vivida cordialità», «A Pasolini, con lucido cuore», al «poeta del mondo antico e nuovo», «Al più grande poeta italiano d’oggi, che io ho criticato, ma che tuttavia è quello che vorrei essere e non sono», «a PPP a cui mi legano (lui non lo sa) la stessa professione e l’amore per il dialetto e per la lingua, nonché l’hobby dell’antologista», all’«uomo coraggioso». E ancora di più: «con viva e vera amicizia, vicinissima — credo — a tutto il suo lavoro, nella difficilissima armonia della nostra generazione che di certo gli deve moltissimo». Parole alate dello sceneggiatore-poeta Brunello Rondi, fratello del critico Gian Luigi, cui Pasolini avrebbe dedicato un celebre epigramma: «Sei così ipocrita che quando l’ipocrisia ti avrà ucciso sarai all’inferno e ti crederai in paradiso». Un ricco repertorio di piaggerie, che potrebbe tornare utile ai futuri poeti in erba per sapere come non si scrive una dedica. Forse non saranno dispiaciute a Pasolini «le farfalle bianche d’un tassinaro romano», che gli invia il suo libro cuore in mano «con la speranza che le loro fragili ali abbiano la forza di trasportarlo verso gli spazii infiniti e meravigliosi della Poesia».
Non di rado si scorge, dietro una dedica, la disperazione di chi non ce la fa a mettere la testa fuori dalla provincia. Il caso più clamoroso è quello del ventenne Massimo Ferretti, che nel dicembre 1955 da Jesi indirizza a Pasolini il suo poemetto Deoso presentandosi così: «Caro Professore, per pura curiosità Le invio questo libro fallito (e rinnegato). A modo suo è un libro “eccezionale”: l’ho scritto in mezza giornata (mentre ero a letto con un terribile mal di stomaco) e l’ho pubblicato per superstizione. Quando l’avrà letto — se ci riuscirà — lo distrugga: nessuno deve sapere che esiste». Il grido dello sconosciuto colpirà nel segno, tant’è vero che nel numero di febbraio 1956 su «Officina» Pasolini pubblicherà una scelta di poesie del ragazzo marchigiano riconoscendone subito il talento: si incontreranno a Roma, dove Ferretti raccoglierà anche la stima di Bertolucci e di Siciliano, ma nel giro di pochi anni, quando decide di aderire al Gruppo 63, la rottura con Pasolini è irrimediabile. E se il romanzo del ’63, Rodrigo, reca ancora un segno di amicizia, quello del ’65, Il Gazzarra, non avrà dedica.
Con toni più pacati gli si rivolgono i poeti e i narratori amici, in parte già laureati. Sandro Penna, nel 1950, manda i suoi Appunti «al recente, ma già tanto caro, amico PP. Pasolini», e nel ’71, a dimostrazione di una confidenza familiare molto cresciuta, invia il volume Garzanti con Tutte le poesie «a Graziella bella e innocente». Attilio Bertolucci, amico romano della prima ora, passa dal «grande affetto» del ’55 alla vena nostalgica del ’73: «A Pier Paolo con quel cuore di una volta». Carlo Betocchi, recensito con entusiasmo nel 1953, un quindicennio dopo, mandandogli Un passo, un altro passo, esprime gratitudine alla antica generosità dell’amico: «ricordando serate romane di molti anni fa, e il più “acuto” degli articoli sulla mia poesia, che fu scritto da lui, con l’affetto sempre sincerissimo». Lo stesso affetto con cui gli si rivolge un altro caro amico «debitore», Giorgio Caproni, estendendo l’omaggio alla madre Susanna, segno anche questo di una familiarità allargata.
Una presenza tenace fin dal ’48, nella biblioteca di Pasolini, è quella di Giorgio Bassani, prodigo di abbracci anche spiritosi. Per esempio quando nel 1964 gli manda il romanzo Dietro la porta: «Caro Pier Paolo, pianta lì S. Matteo, e fa’ questo, da’ retta a me!». E se Alberto Arbasino nel ’59 invia L’Anonimo Lombardo «con violenta amicizia», Paolo Volponi nel ’74 fa pervenire all’amico le poesie di Foglia mortale, «con la speranza di incontrarti più spesso e di riprendere insieme una strada più bella» e l’anno dopo, il 19 maggio, il romanzo Il sipario ducale accompagnato da un quasi appello: «con l’affetto (e con molto bisogno d’aiuto)».
Non sarà amicizia con Edoardo Sanguineti, visto che l’unica dedica è vergata nel 1956 sul frontespizio di Laborintus, con piglio scanzonato: «A PPP questo libretto molto neo-sperimentale (psicologico — o patologico — giudichi lei) — non senza preghiera di recensione». Sì, perché dicono molto le dediche, come quelle di Franco Fortini («“… che non sempre la passione è grazia”. Lo so, lo so, caro Pasolini»), della Morante («con tanti baci»), di Francesco Leonetti («in giorni che fanno della nostra amicizia una storia quasi incredibile»), di Cesare Zavattini («Vedi che ho accettato il tuo consiglio»), di Giuseppe Ungaretti («paternamente») o di Biagio Marin («al grande combattente») ma dicono parecchio anche le non dediche. Troppa frequentazione diretta o totale indifferenza e ostilità.