Fellini, Pasolini e gli scrittori-poeti. Il punto in un libro di Federico Pacchioni

Nel 2014, per le edizioni dell’Università di Toronto, è uscito lo studio di Federico Pacchioni Inspiring Fellini. Literary Collaborations behind the Scenes, che analizza in particolare il debito di Fellini nei confronti di tanti sceneggiatori, come Flaiano, Zapponi e Pasolini, quest’ultimo coinvolto per il film Le notti di Cabiria (1957). Ne esce un ritratto complesso e controverso del grande regista italiano, che, pur riconosciuto nella sua genialità, viene in parte sbalzato dal piedistallo della autorialità solitaria e  collocato in una rete di collaborazioni alla scrittura e di influenze letterarie senza le quali anche le visioni filmiche  non avrebbero potuto prendere vita. Su questa lettura rispettosa, ma  demitizzante e in parte provocatoria assente il critico Riccardo Rosati, autore di una recensione uscita su Rivista di Studi Italianie poi ripresa sul sito www.barbadillo.it del 21 maggio 2017.

 

Cinema. Federico Fellini e le ispirazioni tratte da Pasolini, Flaiano e Zapponi.
A margine di Inspiring Fellini. Literary Collaborations behind the Scenes di Federico Pacchioni (Univ. Toronto Press, 2014)
di Riccardo Rosati

www.barbadillo.it – 21 maggio 2017

Federico Fellini (1920 – 1993) è generalmente considerato uno dei  maggiori esponenti della Settima Arte; opinione, questa, che non ci trova sostanzialmente d’accordo e avremo, seppur succintamente, modo di spiegarne i motivi. Quello che si ignora è il fatto che le sue pellicole non erano delle produzioni “isolate”, frutto dell’eccentrico genio di un uomo goliardico e con un gusto tutto particolare per l’immagine. Al contrario, i suoi film furono il risultato di strette collaborazioni con alcuni dei più valenti sceneggiatori italiani del secondo dopoguerra.
Il buon testo di Federico Pacchioni arriva finalmente a sfatare alcuni luoghi comuni che hanno alla fine eroso la critica felliniana, da sempre sin troppo partigiana nella valutazione del cosiddetto “genio” del regista. In Inspiring Fellini troviamo uno studio che intende, riuscendoci in pieno, riesaminare l’opera di questo cineasta, ponendo finalmente l’accento sulla considerevole influenza che esercitarono su di essa i vari sodalizi di Fellini con autori come Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Bernardino Zapponi, per poi concentrarsi sullo stretto rapporto intellettuale tra Fellini e Pier Paolo Pasolini. Tali collaborazioni soffrirono sempre della scomodità del regista nei confronti dell’altrui talento. Col suo libro, Pacchioni, seppur non faccia mai mancare il dovuto riconoscimento verso l’abilità di Fellini, ne fornisce un ritratto complesso, lontano dallo stereotipo del genio solitario, tutto fantasia e leggerezza, portando avanti la immagine di una mente senza dubbio fertile, eppure incline a sistematici accessi di egotismo.

"Inspiring Fellini" di Federico Pacchioni. Copertina
“Inspiring Fellini” di Federico Pacchioni. Copertina

Cominciamo col dire che, malgrado i superficiali entusiasmi di Hollywood per il concetto di autore, la storiografia cinematografica anglosassone si è spesso dimostrata più equilibrata nella valutazione dell’opera felliniana. Un sano distacco, almeno parzialmente immune ai lustrini goderecci della Dolce Vita romana, che ha permesso la pubblicazione di un volume come quello di cui stiamo parlando. Diversa la situazione in Italia, dove la critica accademica ha sovente sposato le passioni poco ragionate dei critici cinematografici. Ma si sa, lo studio scientifico della Settima Arte nel nostro Paese sembra per qualche strano motivo sentirsi legittimato a non seguire le dovute procedure analitiche che devono essere rispettate, non importa se si affronta un romanzo storico dell’Ottocento, un pittore preraffaellita o, come nel nostro caso, dei film. Senza dilungarci troppo su quella che taluni potrebbero considerare una polemica, non accorgendosi che si tratta della mera constatazione di manifesti limiti critici, portiamo l’attenzione su di un dato (termine fondamentale su cui si dovrebbe basare la ricerca) che viene sistematicamente ignorato. Sarebbe a dire che, contrariamente alla narrazione generalmente accettata dal mondo del cinema italiano, la ingombrante figura di questo regista ha marginalizzato autori più talentuosi e preparati quali Vittorio De Sica, Sergio Leone e Luchino Visconti; per non parlare di quel talento straordinario che fu Elio Petri, un cineasta tuttora poco presente all’attenzione della critica italiana. Quindi non sorprende che proprio a inizio del suo testo Pacchioni definisca così Fellini: «[…] the very symbol of the golden age of Italian cinema». A nostro avviso, ciò è purtroppo corretto, ma è comunque necessaria una essenziale precisazione. Fellini è senza dubbio il regista italiano più studiato all’estero, come Italo Calvino, ad esempio, lo è per la letteratura. Tuttavia, questo non vuole automaticamente significare che Fellini abbia rappresentato la punta massima della nostra cinematografia. La nostra personale idea è che egli abbia preso più spazio di quanto effettivamente meritasse, relegando in secondo piano non solo i nomi poc’anzi citati, ma pure quello di un Alessandro Blasetti (1900 – 1987), solo per ricordare il caso più evidente tra le “amnesie” che caratterizzano gli studi settoriali in Italia, un regista la cui memoria non trova il giusto posto all’interno di pubblicazioni e convegni. Riteniamo che la stella di Fellini, per quanto originale e luminosa, ne abbia oscurate troppe altre e non sempre grazie alla qualità dei suoi film, bensì per la “mitologia” creatasi nel tempo intorno a questo autore, la cui verve si prestava ottimamente a solleticare più le curiosità giornalistiche, che a stimolare l’intelletto dello studioso. Benché sempre con rispetto e attenzione, il testo di Pacchioni contribuisce a demitizzare la figura di Federico Fellini.
Sono sufficienti poche pagine, per accorgersi di avere tra le mani una riflessione seria, certamente strutturata nel ben noto e talvolta vincolante rigore accademico di matrice anglosassone. Nondimeno, il testo possiede un linguaggio non asettico, cosa che sovente avviene negli studi indirizzati a un pubblico universitario. Pacchioni è preciso, ma non “freddo”, ricerca per quanto possibile il piacere della parola. Chiaramente, sempre di un libro di ricerca si tratta; ciò si palesa già dalle primissime pagine, ove l’autore struttura con gran cura la sua research question, la quale intende evidenziare la impellente necessità di ripercorrere l’opus filmico felliniano: «beyond the traditional auteurist approach».  Come, del resto, Pacchioni non indugia nemmeno nel delucidare quello che sarà il suo theoretical framework. Ovvero, indagare il rapporto tra il regista e gli importanti sceneggiatori con cui ebbe modo di collaborare.
Anticipando solo parzialmente alcune conclusioni, possiamo dire che il testo è un ben articolato Case study sulla mai esaustivamente affrontata tematica del ruolo nodale degli sceneggiatori nel cinema. Troppo spesso ci si dimentica che una pellicola, prima ancora di essere girata, viene scritta. Da anni ci occupiamo dell’annoso rapporto tra cinema e letteratura e sappiamo bene come la Settima Arte non potrebbe certo esistere senza il contributo di racconti e romanzi. Ciononostante, la cinematografia sembra puntualmente soffrire di una malcelata difficoltà, una uneasiness, la quale rivela una insicurezza intellettuale che sussiste allo stato latente in numerosi registi nel tributare la dovuta rilevanza alla fase di sceneggiatura.
Per mezzo di una nuova prospettiva, Pacchioni si spinge a fondo nella sua indagine, scegliendo la figura che meglio di qualsiasi altra è stata capace, come detto, di offuscare colleghi talora migliori, figuriamoci quindi nel caso di quegli sceneggiatori che hanno scritto per lui, permettendogli di verbalizzare i suoi “sogni”:

In re-examining the cinema of Federico Fellini within a cultural map drawn on his screenwriters’ artistic and intellectual identities and his creative exchanges with them, this study aims to further contextualize the discussion on central issues of Fellinian authorial poetics, with special focus on the role played by the screenwriters in inspiring and challenging the well-known and ever-ambiguous spiritual quality of the director’s work.

Il primo sceneggiatore che viene affrontato è Tullio Pinelli (1908 – 2009), che essendo di ben dodici anni più grande di Fellini aveva una formazione letteraria decisamente classica, cosa che portò i due artisti in alcune occasioni anche a dei confronti, poiché è noto che il regista fosse da sempre legato a una cultura di stampo popolare, come la musica e la radio e ancor di più la illustrazione, che fu la sua prima “palestra” grazie alla sua celebre collaborazione col “Marc’Aurelio”: una rivista di satira che gli fornirà i primi guadagni. Invero, Fellini prese immancabilmente la vita poco sul serio, come si evince da molte sue pellicole, ove manca sistematicamente il concetto, prediligendo una ricerca fiabesca della narrazione. Malgrado tali differenze di base, i due scoprirono presto di avere alcuni interessi e sensibilità culturali in comune. Eppure, come si spiega nel capitolo dedicato a Pinelli, le “lacerazioni cristiane” nella sua scrittura, quindi una certa gravosità nella riflessione, spinsero ripetutamente Fellini a cercare altri sceneggiatori. Pacchioni torna in varie occasioni sulla spigolosità, talvolta persino una mancanza di volontà di adattamento del regista alla scrittura altrui. Riteniamo che stia proprio nel tentativo di “demitizzare” la stella felliniana l’aspetto che rende Inspiring Fellini una analisi a suo modo controcorrente. Nessuno nega, a cominciare da Pacchioni, la grandezza di questo cineasta, però è giusto sottolinearne pure i lati meno noti, tra tutti la sua caparbia autoreferenzialità, la quale non poteva che causare problemi quando si scontrava con scrittori formati e strutturati.
Ecco, quindi, che la collaborazione con Ennio Flaiano (1910 –  1972) fu fruttifera, quanto tumultuosa. Lo scrittore abruzzese si è costantemente distinto per la sua penna feroce, nello stigmatizzare i mali di una Italia moderna e americanizzata che un conservatore sui generis come lui non poteva fare a meno di detestare. Ciò che unì i due fu l’essere degli anticonformisti, per alcuni versi anche degli iconoclasti, se osservati da un punto di vista prettamente borghese. Crediamo che non sarebbe improprio sostenere che Fellini e Flaiano furono legati più dalle comuni idiosincrasie, che da un potente afflato culturale. Certo, non si può dimenticare quanto per entrambi fosse importante la satira, il gusto per la dissacrazione.
I primi contatti con Flaiano risalgono alla giovinezza di Fellini, quando nel 1939 lo scrittore collaborava con “Omnibus”: un periodico letterario “dissidente” che presentava saggi e articoli sulle arti e la politica, fondato da Leo Longanesi nel 1937. Sin da quell’iniziale incontro, Fellini condivise con Flaiano la lontananza dai precetti del neorealismo. Malgrado i continui scontri, segnatamente negli anni ’50, a causa di una idea divergente di cinema come arte, Flaiano va considerato lo sceneggiatore più importante nella carriera del regista riminese.
Decisamente rivelatore è il capitolo dedicato a Bernardino Zapponi (1927 – 2000), in cui l’analisi su questo ennesimo sodalizio intellettuale di Fellini acclara quanto egli avesse necessità di primeggiare, non tanto nella stesura delle sceneggiature dei suoi film, quanto nei rapporti interpersonali. Nel 1965, dopo Giulietta degli spiriti, Fellini attraversa un momento di vera crisi nel suo rapporto con gli sceneggiatori con i quali aveva lavorato sino a quel momento, tanto da restare fermo per tre anni, fino a quando entra in scena Zapponi, nella stesura di Tre passi nel delirio (1968). Questo film a episodi, liberamente ispirato ai racconti di Edgar Allan Poe, si attesta quasi come una palingenesi del regista, con il suo aprirsi totalmente al genere, a quel cinema popolare che aveva sempre mostrato di amare e che lo aveva messo in contrasto con gli scrittori con cui aveva precedentemente collaborato. Gli oltre dieci anni che lo portarono ad avvalersi dell’aiuto di Zapponi sono stati quelli per il regista professionalmente più tranquilli e lineari. Ciò in quanto l’ultimo importante sodalizio artistico di Fellini venne alimentato dal profilo basso di Zapponi, il quale si sposava bene con l’ego del cineasta. Costui veniva “rincuorato” dal fatto che la scrittura di Zapponi risultasse in qualche misura “anonima”, non rappresentando una minaccia per il suo estro ipertrofico: «In a number of caricatures Fellini expressed in a satirical manner his fondness for Zapponi’s low profile as a writer». A pensarci bene, la stessa cosa avvenne, benché in un ruolo diverso, con Marcello Mastroianni, che col suo essere rimasto un uomo semplice della provincia laziale, poco incline alla autocelebrazione, quietava l’animo felliniano.

Fellini e Pasolini si tempi di "Accattone" (1961)
Fellini e Pasolini si tempi di “Accattone” (1961)

Non certo meno significativa, e sulla quale vale la pena spendere qualche  parola, fu la collaborazione di Pier Paolo Pasolini per Le notti di Cabiria (1957): inizialmente chiamato per aiutare col dialetto romano e fare da “guida” a Fellini nelle borgate della Capitale, il poeta friulano si prese sempre più spazio, diventando il principale consulente nella realizzazione della pellicola. Fellini decise di coinvolgerlo nel suo film dopo essere stato fortemente colpito dal romanzo Ragazzi di vita (1955). Quello di Pasolini non fu, comunque, un caso isolato, visto che il regista nella sua carriera si è più volte avvicinato a dei poeti, nei quali vedeva probabilmente sublimato quel côté umano, la vera essenza della sua arte, che non riusciva a ritrovare negli scrittori con i quali collaborava, la cui freddezza intellettuale veniva vissuta da Fellini come qualcosa di frustrante. La “scusa” che egli utilizzava per chiedere un coinvolgimento dei poeti nelle sue pellicole era solitamente quella di una consulenza per l’uso del vernacolare, ma la vera ragione, come spiega Pacchioni, era un’altra: «These collaborations were not limited to the linguistic domain; rather these poets […] contributed, in more or less explicit ways, to the very subject matter of Fellini’s cinema».
Inspiring Fellini è a nostro avviso un testo con un suo preciso fascino, che nella analisi di un personaggio di per sé suggestivo come Fellini, non gli fa tuttavia degli sconti. L’unico vero limite del libro lo si può individuare in una conclusione in qualche modo ridondante, che sa troppo di un “riassunto”. Ciononostante, la tesi di Pacchioni risulta alla fine assolutamente chiara e condivisibile, nel sostenere la capacità di Fellini di “fagocitare” i suoi sceneggiatori: «It is indeed astounding to consider the voracity and effectiveness with which Fellini’s cinema absorbed and metabolized some of the finest Italian writers of the twentieth century».
In conclusione, siamo totalmente concordi con l’autore quando stigmatizza una certa tendenza che si è consolidata negli studi cinematografi internazionali, e che egli definisce: «exaggerated auteurist criticism».Tale ricerca ossessiva di un imprescindibile elemento artistico, a tratti persino intellettualoide, nell’affrontare le pellicole di un determinato regista, nel caso specifico di Fellini ha raggiunto picchi che ne hanno addirittura falsato la interpretazione. Ciò ha portato, ad esempio, al fatto che non si affronti mai in modo particolareggiato la amicizia fraterna tra Fellini e Alberto Sordi. Questo fenomenale attore, verso cui la critica non mostra ancora il dovuto rispetto, sostenne, finanche economicamente, il giovane regista nel suo primo periodo romano. Troppo “popolare” Sordi per accostarlo a un autore come Fellini? Niente di più errato, giacché Fellini tentò sempre di essere uno spirito creativo libero da qualsiasi logica corporativa e politica (proprio come fece Sordi), dunque capace di prendere relativamente sul serio il senso delle sue storie, che dovevano principalmente piacere al pubblico e non agli intellettuali. È allora finalmente giunto il momento di sottolineare che lo spessore presente in alcuni dei suoi film è senza dubbio merito di quegli sceneggiatori che Pacchioni ha dimostrato averlo “ispirato”. Ragion per cui, possiamo affermare che nelle opere di Fellini l’aspetto visivo è del tutto ascrivibile al suo talento, mentre i contenuti sono il frutto di quelle complesse collaborazioni di cui si tratta in questo libro.
(da “Rivista di Studi Italiani”)

[info_box title=”Federico Pacchioni” image=”” animate=””]è titolare della cattedra Sebastian Paul e Marybelle Musco Endowed Chair in Italian Studies a Chapman Universitu, California, dove coordina il programma di italianistica e insegna in vari corsi interdisciplinari.La sua ricerca si concentra su casi di sinergia artistica e intermedialità tra cinema, letteratura e teatro.[/info_box]