Si è spento il 14 settembre nella sua dimora di Bologna il poeta e scrittore Roberto Roversi, noto per l’acume critico e per la poliedrica produzione letteraria, saggistica e poetica. Era nato il 28 gennaio 1923 e il prossimo anno avrebbe raggiunto l’invidiabile traguardo dei 90 anni. Da uomo indipendente di cultura e letteratura quale era, non ha lasciato nulla al caso e infatti ha stipulato un testamento con tutte le procedure dettagliate per il suo congedo definitivo dal mondo, da annunciare infatti il giorno dopo la morte e da accompagnare senza alcuna cerimonia pubblica. Roberto Roversi è stato un personaggio unico nella cultura italiana.
In gioventù partigiano all’età di vent’anni nella Resistenza del Piemonte, poi libraio antiquario, ha dedicato la vita ai libri, alla letteratura e soprattutto all’autogestione, tanto che scelse di staccarsi dai grandi editori per limitarsi alla pubblicazione con piccole riviste autogestite o perfino su fogli fotocopiati e distribuiti personalmente. I più lo ricorderanno per la profonda amicizia con Lucio Dalla per il quale Roversi scrisse molti celebri testi, come per l’album Il giorno aveva cinque teste e Anidride solforosa. Fortunato fu anche il sodalizio con gli Stadio per cui elaborò la nota Chiedi chi erano i Beatles. Roversi era così, colto e popolare al tempo stesso; e non a caso per la sua morte si sono mobilitati sia il presidente Napolitano con un messaggio di cordoglio, sia Jovanotti che ha fatto immediatamente nascere su twitter il tag “chiedichieraroversi”, subito rilanciato da moltissimi giovani. Ma Il suo nome resta legato anche al legame con Pasolini, di cui fu amico fin dai tempi del Liceo Galvani e con il quale, insieme a Francesco Leonetti, fondò nel 1955 la rivista “Officina“, seguita poi nel 1961 da “Rendiconti”. “Officina” fu un fascicolo bimestrale di poesia che conobbe due serie stampate dalle Arti Grafiche Calderini di Bologna: la prima composta da dodici numeri che terminò nell’aprile del 1958 e la seconda, edita da Bompiani e iniziata nel marzo-aprile del 1959, che terminò dopo soli due numeri alla fine dell’aprile-maggio del 1959.
Ai redattori della prima serie, appunto Leonetti, Pasolini e Roversi, si affiancarono come collaboratori fissi anche Gianni Scalia e Franco Fortini che entrarono nella redazione con la seconda serie. Ma fitta fu anche la rete prestigiosa dei poeti e degli intellettuali di cui la rivista ospitò i testi: Bertolucci, Gadda, Caproni, Luzi, Bassani, Volponi, Penna, Pagliarani, Erba, Ungaretti, Calvino, Rebora. L’esperienza di questo ricco, vivace ed eclettico periodico fu un punto di riferimento nel fermento del dibattito culturale e letterario del dopoguerra e oggi resta testimonianza significativa del clima di insoddisfazioni e di progettualità che, dopo l’esaurirsi del neorealismo, caratterizza la seconda metà degli anni Cinquanta italiani. Interessata soprattutto alla poesia, si distinse per la risentita polemica nei riguardi della linea ermetica del novecentismo e per le sollecitazioni al rinnovamento poetico, che liquidasse l’individualismo romantico, il disimpegno decadente, il conformismo dei poeti borghesi. Nel contempo, la polemica era rivolta anche contro la recente esperienza neorealistica, bollata in questo caso per il suo impegno facile e schematico, sentito incapace di costituire un’alternativa accettabile di reazione antiermetica. Su posizione opposte rispetto alla coeva rivista “Il Verri”, fondata dal Luciano Anceschi nel 1956 a fucina teorica dello sperimentalismo formale e incunabolo della futura neo-avanguardia, “Officina” fu impegnata invece nella ricerca e nella pratica della poesia che si conciliasse con un’idea di cultura come forza motrice del rinnovamento della società. Di questa concezione Pasolini fornì un perfetto esempio con i versi di Le ceneri di Gramsci (1957), mentre più tardi lo stesso Roversi mise a frutto gli stimoli ricevuti da quel dibattito con i poemetti di Dopo Campoformio (1962), voce sincera di poesia, ha scritto Daniele Piccini, nata “al fuoco della Storia”.