Una sfida “civile” alla morte, di Antonio Tricomi

Una sfida “civile” alla morte.
Perché ci è ancora necessario Pier Paolo, uno scrittore che, in un certo senso, ha perso vincendo

di Antonio Tricomi
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L’opera di Pasolini è sì inequivocabilmente autobiografica; soffre sì di una condizione come di minorità rispetto al suo autore, che non se ne distacca, non le lascia autonomia alcuna, quasi la occulta, certamente la sovrasta, con il proprio corpo e la propria voce. È sì quella di un impenitente Narciso, di un uomo rimasto ragazzo, divenuto (o forse nato) nevrotico e comunque smanioso di rifugiarsi nel suo grembo, non metafora, ma reale sostituto, di quello materno. È però anche un’opera felicemente scissa al proprio interno, squarciata da due tendenze opposte che di continuo lottano per prevalere e sembrano volersela contendere. La tendenza dell’autore a giudicarla un proprio esclusivo possesso, il luogo nel quale ritirarsi e il diario quasi terapeutico da aggiornare costantemente: insomma, nulla più che un autoritratto contraddistinto da segni contraddittori e frequenti correzioni, e allora destinato a rimanere incompiuto, perché in continuo divenire sono le sue fattezze di uomo, il suo animo di eterno adolescente, le sue idee di intellettuale, il suo stile di poeta manierista.
L’altra, ancora e sempre dell’autore, a viverla e a costruirla come un inesausto tentativo di fotografare l’esistente, la storia e i mutamenti sociali e culturali di volta in volta in atto nel paese, e allora a concepirla come un dovuto e necessario, addirittura profetico, ritratto generazionale, per raccontare le illusioni e gli errori, le scelte e le colpe di uomini e di scrittori nati sotto il fascismo e in seno alla modernità, chiamati a traghettare altrove l’Italia e l’arte, e infine costretti ad ammettere di aver consegnato la prima alla borghesia e di non aver saputo o voluto impedire il collasso della seconda.
L’opera insostenibile e spesso mancata di Pasolini, al pari del suo corpo atrocemente martoriato, appartiene dunque a un poeta civile che ha voluto sfidare la morte: quella dell’arte, provando ad opporle una summa interminabile e inclassificabile della tradizione letteraria e della cultura umanistica tutta; quella dell’autore, cercando di ripristinare l’aura di una figura ormai misconosciuta, e perciò facendosi profeta, opinion-maker corsaro e luterano, offrendosi infine quale martire, sempre per dimostrare che quella dell’artista è una presenza ancora necessaria alla società.
E così egli ha perso forse due volte. Da un lato, perché non ci ha saputo dare il capolavoro né ha potuto impedire ciò che certo non poteva essere lui a impedire, ossia quel processo di delegittimazione della letteratura che appare adesso del tutto compiuto. Dall’altro perché, sottraendosi all’obbligo morale abitualmente avvertito dai grandi scrittori, quello cioè di impegnarsi ad offrire alla collettività dei libri che possano restare, appunto dei capolavori, ha contribuito ulteriormente non a difendere, ma piuttosto a dissolvere il mito dell’autore, rimpiazzandolo con quello dell’intellettuale inteso come “battitore libero”, nonché iniziando, tra i primi, a muoversi nella stessa direzione in cui frequentemente oggi si muove chi tende a ridurre quel mito alla triste realtà del facitore di testi e di merci che anzitutto è una vedette del mondo dello spettacolo, un prodotto dell’industria culturale.
Ma se Pasolini ha perso, in un certo qual modo ha perso vincendo. Voleva sfidare la morte e sopravviverle? Ebbene, è vero che pur avendolo eccessivamente celebrato erigendo alla sua opera un monumento – dieci Meridiani – senza precedenti nella letteratura italiana, facciamo forse molta più fatica oggi di ieri a reputarlo un classico, così come credo che addirittura maggiori saranno le resistenze dei suoi futuri lettori e giudici a concedergli il tributo generalmente concesso ai grandi autori.
Ciononostante, chiunque voglia adesso e vorrà domani comprendere come sono cambiate e cosa sono diventate la letteratura e l’Italia dal dopoguerra agli anni Settanta, deve e dovrà obbligatoriamente fare i conti con i suoi testi assai più che con quelli di scrittori magari meno irrisolti di lui, nonché misurarsi con una morte scandalosa legata a quell’opera deforme non da una rapporto di causalità – come vorrebbero quanti in essa vedono l’esito di un complotto ordito dal Palazzo o, addirittura, un suicidio “per procura” –, ma da uno di semplice, e tragica, contiguità. Quello di Pasolini è cioè un delitto politico perché qualcuno, verosimilmente un branco di picchiatori neofascisti, ha voluto ridurre al silenzio un frocio che, nei suoi romanzi, nelle sue poesie, nelle sue pellicole cinematografiche, nei suoi saggi e interventi polemici, si era permesso di denunciare, con lucidità e forza sconosciute a molti altri scrittori e intellettuali dell’epoca, il degrado culturale, morale di una società, la nostra, oggi addirittura più corrotta, squallida di trent’anni fa.
Amarlo e insieme odiarlo; recuperarlo per poi volerlo superare; affrancarsi dal suo mito per riscoprire la reale sostanza della sua opera e del suo messaggio etico-civile; usarlo: come in passato, è ancora e sempre questo che con Pasolini siamo e saremo chiamati a fare.

[info_box title=”Antonio Tricomi” image=”” animate=””]è autore dei saggi critici Sull’opera mancata di Pasolini (Carocci, 2005) e Pasolini: gesto e maniera (Rubbettino, 2005)[/info_box]