Un ritratto di Sergio Citti a dodici anni dalla morte

Per l’anniversario della morte di Sergio Citti, scomparso a Ostia l’11 ottobre 2005, Francesco Sirleto dedica un intenso omaggio a questo geniale amico “borgataro” di Pasolini, a cui Citti fece da tramite umano e linguistico verso il mondo sottoproletario della periferia della capitale e da cui apprese il piacere artistico del cinema. Uno scambio pedagogico a parti invertite sullo sfondo di una Roma popolare, malandrina e gagliarda che non esiste più. 

Ricordo di Sergio Citti
di Francesco Sirleto

www.abitarearoma.net – 13 ottobre 2017 

… Il mondo delle borgate è cambiato un po’, sì, quelli che ci stavano sono diventati quello che dovevano diventa’, oggi hanno l’auto, l’impiego, so’ sposati. Oggi i giovani so’ più furbi di quello che eravamo noi, so’ più bravi, non stanno ad aspetta’ … Una volta era tutto come in Accattone, intorno a Roma, ora quella gente c’è ma ha cambiato tono e lavoro. Con Accattone eravamo quasi all’infantilismo (Sergio Citti, da un’intervista del 1971 sul film Ostia).

L’11 ottobre 2005 moriva, ad Ostia, lo sceneggiatore e regista romano Sergio Citti, fratello dell’attore Franco, autodidatta e maestro-allievo di Pier Paolo Pasolini, nel senso che, almeno per quanto riguarda la conoscenza del linguaggio (anzi del “volgare”) e della realtà delle periferie romane, Sergio Citti fu maestro di Pasolini, mentre, per quanto concerne la carriera di cineasta, fu egli scolaro dell’autore di Ragazzi di vita. Se qualcuno, però, pensasse che Sergio fosse totalmente dipendente da Pier Paolo, si sbaglierebbe di grosso: lo dimostrano le sceneggiature da lui prodotte per altri registi, quali Bernardo Bertolucci (La commare secca del 1962), Ettore Scola (Brutti, sporchi e cattivi del 1976), Maurizio Ponzi (Qualcosa di biondo del 1984), Roberto Cimpanelli (Baciami piccina del 2006). Se qualcun altro, poi, continuasse a sostenere che Sergio Citti è, comunque, un regista legato necessariamente alla realtà delle degradate e malavitose periferie romane, persisterebbe nell’errore: lo dimostra la sua numerosa filmografia, nella quale a prevalere e impressionare non è tanto l’ambientazione, quanto piuttosto la sua vena fantasticamente e malinconicamente surreale (cito, in particolare: Il minestrone del 1981, la serie televisiva Sogni e bisogni del 1985, I magi randagi del 1996, Fratella e sorello del 2005). Lo dimostrano infine gli attori, di grandissima qualità, che interpretarono i suoi film: oltre al fratello Franco e a Ninetto Davoli bisogna ricordare Laurent Terzieff, Vittorio Gassman, Roberto Benigni, Giulietta Masina, Anita Sanders, Paolo Villaggio, Gigi Proietti e molti altri ancora.

"Mi chiamo Sergio Citti" di Sergio Citti
“Mi chiamo Sergio Citti” di Sergio Citti

Che Sergio Citti sia morto ad Ostia, dove si era ritirato parecchi anni prima della morte, non è un caso: proprio lì era cominciata la sua carriera di regista, con il film Ostia del 1970, con sceneggiatura scritta da Pier Paolo Pasolini. Le parti si erano invertite: se prima era stato Sergio a sceneggiare i film di Pier Paolo, in quell’occasione fu Pier Paolo a dare il cambio a Sergio dietro la macchina da scrivere, mentre Sergio prendeva posto dietro la cinepresa. Nella prefazione alla sceneggiatura Pasolini, al fine di chiarire in qual modo e perché Sergio Citti fosse passato dall’impugnare la “marzocca” all’adoperare la penna e a riempire di immagini suoni e parole le pellicole cinematografiche, così scrive: «Sergio detto il Mozzone, ha fatto per tutta la vita il pittore (è chiamato anche “Er pittoretto de la Maranella”): ma la vita di Sergio è acqua passata. Egli ha raggiunto anche praticamente il suo scopo di non vivere ma di contemplare il vivere. Lo faceva da imbianchino e lo fa da regista». Pasolini inoltre faceva notare, sempre in quello scritto, l’ideologia inconsapevolmente anarchica di Sergio, derivante dal fatto che, più che membro del proletariato romano (la mitica classe operaia, legata al duro, ma sicuro e stabile lavoro di fabbrica), Sergio appartenesse in realtà al sottoproletariato urbano: in quanto imbianchino, egli non aveva un legame fisso e duraturo con il lavoro, per lui il mondo del lavoro era, ossimoricamente, “una necessità irrilevante”, vista da lui con curiosità e amore disinteressato.
Più che la sua attività di sceneggiatore e regista, che merita senz’altro di essere conosciuta, soprattutto dai giovani, ci interessa qui il ruolo di pedagogo che Citti svolse, dal punto di vista linguistico, nei confronti di Pier Paolo Pasolini. L’inizio di questo strano rapporto maestro-allievo è da situare nella torrida estate del 1951, subito dopo il trasferimento del poeta friulano da una camera ammobiliata di via Costaguti – nel ghetto, dove aveva trovato alloggio all’inizio del 1950, insieme alla madre, entrambi esuli dalla lontana Casarsa del Friuli – in una specie di squallida baracca nei pressi del carcere di Rebibbia. Pasolini, professore supplente d’italiano in una scuola media di Ciampino, ancora povero in canna e tormentato dalle esigenze quotidiane del vivere (il suo magro stipendio non superava le 27.000 lire mensili), era alla ricerca di una sua propria dimensione o, per meglio dire, di una precisa identità, sia umana che professionale.
Sono, quelli, gli anni decisivi della sua formazione e Roma, città «stupenda e misera» insieme – con la sua umanità e la sua sensualità, con i suoi ragazzi di vita, con le sue borgate, con i suoi drammi e con il suo splendido passato sedimentato in ogni pietra, vicolo, monumento, chiesa – offre il teatro, gli spettatori, ma anche il palcoscenico e gli attori e le storie, che determineranno la vicenda umana e artistica del poeta proveniente dal profondo Nord cattolico e contadino. Ebbene, tra gli elementi che influenzeranno questo “rovesciamento” di prospettiva, questa sorta di profonda metamorfosi, dal senso cristiano e contadino della vita alla pagana sensualità della metropoli, che avviene in coincidenza del compimento dei suoi trent’anni, un ruolo fondamentale lo giocò l’incontro che Pasolini fece con Sergio Citti, imbianchino di 18 anni residente in via della Marranella, a Torpignattara.
All’inizio dell’estate vi è il primo incontro tra i due, sul greto del fiume Aniene a Ponte Mammolo, là dove era usanza, per i giovani di borgata, recarsi a fare il bagno per combattere in qualche modo il caldo, l’afa e la polvere delle povere e squallide strade di periferia. Poche parole e niente più. Dopo qualche giorno Pasolini, accanito frequentatore di sale cinematografiche, rivede Citti davanti al cinema Impero, in via dell’Acqua Bullicante, a due passi dall’abitazione di Sergio. Dopo la fine del film iniziò una passeggiata per le vie del quartiere e una conversazione che ebbe termine solo a notte fonda, sui gradini della chiesa di San Marcellino. A quel primo incontro seguirono le serate e le “magnate” in pizzeria, precisamente a “L’Aquila d’oro”, in via Torpignattara, quasi all’incrocio con via Casilina: a queste serate Pasolini si presentava con penna e taccuino, ricopiando accuratamente le parole, le espressioni, le frasi, le interiezioni dialettali e gergali che Citti, i suoi fratelli e i suoi amici, aiutati dal vino e dall’allegria conviviale, pronunciavano nel corso di quei rustici “simposi”. Sergio Citti si era assunto così il compito di “glottologo” e di “semiologo”, ma anche di “traduttore istantaneo”, vale a dire di mediatore culturale e linguistico tra quel mondo di “borgatari”, parlanti una lingua franca che assomigliava al romanesco classico del Belli ma non era più quello, e il futuro scrittore e regista venuto dal Nord. Proprio lui, Pier Paolo Pasolini, nato a Bologna ma formatosi nel Friuli contadino di Casarsa, era destinato a fornire dignità letteraria e cinematografica a quella lingua e a quell’ambiente borgataro e periferico di una Roma che, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, era sottoposta ad una crescita tumultuosa e impetuosa, contraddittoria e problematica.
Nello stesso tempo attorno a Pier Paolo si formerà un circolo di intellettuali già noti o in via di affermazione: Laura Betti, Alberto Moravia, Elsa Morante, Adriana Asti, Enzo Siciliano, Paolo Volponi, Bernardo Bertolucci, tutti di estrazione borghese. L’influenza di Pasolini, però, si estenderà anche e soprattutto in quell’ambiente proletario o sottoproletario in cui si era casualmente imbattuto: anche qui, attorno a Pier Paolo, si formerà una strana “intellighenzia”, borgatara e popolana, di cui Sergio Citti rimane il più creativo e notevole rappresentante.