I
LA RICCHEZZA (1955-1959)
RIAPPARIZIONE POETICA DI ROMA
Dio, cos’è quella coltre silenziosa
che fiammeggia sopra l’orizzonte…
quel nevaio di muffa – rosa
di sangue – qui, da sotto i monti
fino alle cieche increspature del mare…
quella cavalcata di fiamme sepolte
nella nebbia, che fa sembrare il piano
da Vetralla al Circeo, una palude
africana, che esali in un mortale
arancio… È velame di sbadiglianti, sudice
foschie, attorcigliate in pallide
vene, divampanti righe,
gangli in fiamme: là dove le valli
dell’Appennino sboccano tra dighe
di cielo, sull’Agro vaporoso
e il mare: ma, quasi arche o spighe
sul mare, sul nero mare granuloso,
la Sardegna o la Catalogna,
da secoli bruciate in un grandioso
incendio, sull’acqua, che le sogna
più che specchiarle, scivolando,
sembrano giunte a rovesciare ogni
loro legname ancora ardente, ogni candido
bracere di città o capanna divorata
dal fuoco, a smorire in queste lande
di nubi sopra il Lazio.
Ma tutto ormai è fumo, e stupiresti
se, dentro quel rudere d’incendio,
sentissi richiami di freschi
bambini, tra le stalle, o stupendi
colpi di campana, di fattoria
in fattoria, lungo i saliscendi
desolati, che già intravedi dalla Via
Salaria – come sospesa in cielo –
lungo quel fuoco di malinconia
perduto in un gigantesco sfacelo.
Ché ormai la sua furia, scolorando, come
dissanguata, dà più ansia al mistero,
dove, sotto quei rósi polveroni
fiammeggianti, quasi un’empirea coltre,
cova Roma gli invisibili rioni.
II
UMILIATO E OFFESO
EPIGRAMMI (1958)
I
Ai critici cattolici
Molte volte un poeta si accusa e calunnia,
esagera, per amore, il proprio disamore,
esagera, per punirsi, la propria ingenuità,
è puritano e tenero, duro e alessandrino.
È anche troppo acuto nell’analisi dei segni
delle eredità, delle sopravvivenze:
ha anche troppo pudore nel concedere
qualcosa alla ragione e alla speranza.
Ebbene, guai a lui! Non c’è un istante
di esitazione: basta solo citarlo!
V
A me
In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza,
il più colpevole son io, inaridito dall’amarezza.
XII
A un Papa
Pochi giorni prima che tu morissi, la morte
aveva messo gli occhi su un tuo coetaneo:
a vent’anni, tu eri studente, lui manovale,
tu nobile, ricco, lui un ragazzaccio plebeo:
ma gli stessi giorni hanno dorato su voi
la vecchia Roma che stava tornando così nuova.
Ho veduto le sue spoglie, povero Zucchetto.
Girava di notte ubriaco intorno ai Mercati,
e un tram che veniva da San Paolo, l’ha travolto
e trascinato un pezzo pei binari tra i platani:
per qualche ora restò li, sotto le ruote:
un po’ di gente si radunò intorno a guardarlo,
in silenzio: era tardi, c’erano pochi passanti.
Uno degli uomini che esistono perché esisti tu,
un vecchio poliziotto sbracato come un guappo,
a chi s’accostava troppo gridava: «Fuori dai coglioni!».
Poi venne l’automobile d’un ospedale a caricarlo:
la gente se ne andò, restò qualche brandello qua e là,
e la padrona di un bar notturno, più avanti,
che lo conosceva, disse a un nuovo venuto
che Zucchetto era andato sotto un tram, era finito.
Pochi giorni dopo finivi tu: Zucchetto era uno
della tua grande greggia romana ed umana,
un povero ubriacone, senza famiglia e senza letto,
che girava di notte, vivendo chissà come.
Tu non ne sapevi niente: come non sapevi niente
di altri mille e mille cristi come lui.
Forse io sono feroce a chiedermi per che ragione
la gente come Zucchetto fosse indegna del tuo amore.
Ci sono posti infami, dove madri e bambini
vivono in una polvere antica, in un fango d’altre epoche.
Proprio non lontano da dove tu sei vissuto,
in vista della bella cupola di San Pietro,
c’è uno di questi posti, il Gelsomino…
Un monte tagliato a metà da una cava, e sotto,
tra una marana e una fila di nuovi palazzi,
un mucchio di misere costruzioni, non case ma porcili.
Bastava soltanto un tuo gesto, una tua parola,
perché quei tuoi figli avessero una casa:
tu non hai fatto un gesto, non hai detto una parola.
Non ti si chiedeva di perdonare Marx! Un’onda
immensa che si rifrange da millenni di vita
ti separava da lui, dalla sua religione:
ma nella tua religione non si parla di pietà?
Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato,
davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili.
Lo sapevi, peccare non significa fare il male:
non fare il bene, questo significa peccare.
Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto:
non c’e stato un peccatore più grande di te.
NUOVI EPIGRAMMI (1958-1959)
II
Alla bandiera rossa
Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano,
l’analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.
XI
A G.L. Rondi
Sei così ipocrita, che come l’ipocrisia ti avrà ucciso,
sarai all’inferno, e ti crederai in paradiso.
Gian Luigi Rondi, già critico cinematografico conosciuto da Pasolini, è attualmente il direttore del Festival del Cinema di Roma. (nota di Angela Molteni) Decano dei critici cinematografici italiani, oggi presiede l’Ente David di Donatello. (integrazione di G.T.)
XV
Alla mia nazione
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
III
Ai letterati contemporanei
Vi vedo: esistete, continuate a essere amici,
felici di vederci e salutarci, in qualche caffè,
nelle case delle ironiche signore romane…
Ma i nostri saluti, i sorrisi, le comuni passioni,
sono atti di una terra di nessuno: una… waste land,
per voi: un margine, per me, tra una storia e l’altra.
Non possiamo più realmente essere d’accordo: ne tremo,
ma è in noi che il mondo è nemico al mondo.
A UN RAGAZZO (1956-1957)
Così nuovo alla luce di questi mesi nuovi
che tornano su Roma, e che a noi altrove
ancorati a una luce d’altri tempi,
sembrano portati da inutili venti,
tu, con fresco pudore, e ingenuamente senza
pietà, scopri per te, per noi, la tua presenza.
Col sorriso confuso di chi la timidezza
e l’acerbità sopporta con allegrezza,
vieni tra gli amici adulti e fieramente
umile, ardentemente muto, siedi attento
alle nostre ironie, alle nostre passioni.
Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,
vergognandoti quasi del tuo cuore festoso…
Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,
ma perché esiste: per te, perché tu sia
nuovo testimone, dolce-contento al quia…
Rimani tra noi, discreto per pochi minuti
e, benché timido, parli, con i modi già acuti
dell’ilare, paterna e precoce saggezza.
Esponi, orgoglioso, la tua debolezza
di adolescente, leso appena al ridicolo
che ha la troppa umiltà in un mondo nemico…
Al giusto momento, ci lasci, ritorni
alla segreta luce dei tuoi primi giorni:
alla luce che certo tu non puoi dire
né, noi, ricordare, una luce d’aprile
in cui la coscienza con le sue gemme sfiora
solo la vita, non la storia ancora.
Tu vuoi SAPERE, da noi: anche se non chiedi
o chiedi tacendo, già appartato e in piedi,
o tenti qualche domanda, gli occhi vergognosi,
ben sentendo in cuore ch’è vano ciò che osi,
se di noi vuoi sapere ciò che noi ai tuoi occhi
ormai siamo, vuoi che le perdute notti
del nostro tempo siano come la tua fantasia
pretende, che eroica, com’è eroica essa, sia
la parte di vita che noi abbiamo spesa
disperati ragazzi in una patria offesa.
Vuoi sapere le mute paure e le immature azioni
– tra macerie, strade deserte e prigioni –
delle nostre figure per te ormai remote.
Vuoi sapere, e il viso infantile ti si infuoca,
tu, così puro, il male, così limpido l’odio,
ch’è nei riaccesi ricordi su cui inchiodi
l’occhio ferito, parteggiando intero
per chi lottava in nome del sentimento vero.
Vuoi sapere che cosa abbiamo ricavato
da quell’avventura, in che cosa è mutato
lo spirito di questa povera nazione
dove provi tra noi la tua prima passione;
sperando che ogni atto che ti preesiste, Chiesa
e Stato, Ricchezza e Povertà, intesa
trovino nel tuo dolce desiderio di vita…
Vuoi sapere l’origine della tua pudica
voglia di sapere, s’essa ha già dato prova
di tanta vita in noi, e adesso cova
già nuova vita in te, nei tuoi coetanei.
Vuoi sapere cos’è l’oscura libertà,
da noi scoperta e da te trovata,
grazia anch’essa, nella terra rinata.
Vuoi SAPERE. Non hai domanda su un oggetto
su cui non c’è risposta: che trema solo in petto.
La risposta, se c’è, è nella pura
aria del crepuscolo, accesa sulle mura
del Vascello, lungo le palazzine
assiepate nel cuore del sole che declina.
Le sere disperate per il troppo tepore
che nei freddi autunni, dimenticato muore,
o, dimenticato, in nuove primavere
torna improvviso – le disperate sere
in cui, tu, felice pei tuoi abiti freschi,
o il fresco appuntamento con giovani modesti
come te, e felici, esci svelto di casa,
mentre nel rione suona la sera invasa
dall’ultimo sole – penso a quel serio, candido
ragazzo, il cui silenzio è nella tua domanda.
Certo soltanto lui ti potrebbe rispondere,
se fu in lui, com’è in te, pura speranza il mondo.
Era un mattino in cui sognava ignara
nei rósi orizzonti una luce di mare:
ogni filo d’erba come cresciuto a stento
era un filo di quello splendore opaco e immenso.
Venivamo in silenzio per il nascosto argine
lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi
del nostro ultimo sonno in comune nel nudo
granaio tra i campi ch’era il nostro rifugio.
In fondo Casarsa biancheggiava esanime
nel terrore dell’ultimo proclama di Graziani;
e, colpita dal sole contro l’ombra dei monti,
la stazione era vuota: oltre i radi tronchi
dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l’erba
del binario, attendeva il treno di Spilimbergo…
L’ho visto allontanarsi con la sua valigetta,
dove dentro un libro di Montale era stretta
tra pochi panni, la sua rivoltella,
nel bianco colore dell’aria e della terra.
Le spalle un po’ strette dentro la giacchetta
ch’era stata mia, la nuca giovinetta…
Ritornai indietro per la strada ardente
sull’erba del marzo nel sole innocente;
la roggia tra il fango verde d’ortiche
taceva a una pace di primavere antiche,
e i rinati radicchi da cui vaporava
un odore spento e acuto di rugiada,
coprivano il dorso della vecchia scarpata
grande come la terra nell’aria riscaldata.
Poi svoltava il sentiero in cuore alla campagna:
liberi nell’umile ordine, folli nella cristiana
pace del lavoro, nel parlante amore muti,
tacevano gelseti, macchie d’alni e sambuchi,
vigne e casolari azzurri di solfato, –
nel vecchio mezzogiorno del vivido creato.
Chiedendo di sapere tu ci vuoi indietro,
legati a quel dolore che ancora oscura il petto.
Ci togli questa luce che a te splende intera,
ch’è della nuova gioventù ogni nuova sera…
Noi invecchiati ora nient’altro diamo
che doloroso amore alla tua lieta fame.
Anche la tua stessa pietà, che cosa dice
se non che la vita solo in te è felice?
Perché, per fortuna, quel nostro passato,
vero, ma come un sogno, è nel tuo cuore grato.
In realtà non esiste, ne sei libero e cerchi
di esso solo quanto può adesso valerti…
Nella tua nuova vita non è esistito mai
fascismo o antifascismo: nulla, di ciò che sai
perché vuoi sapere: esiste solamente
in te come un crudele dolce fiore il presente.
Che tutto sia davvero rinato – e finito –
sia tutto – è scritto nel tuo sorriso amico.
È vizio il ricordare, anche se è dovere;
a quei morti mattini, a quelle morte sere
di dodici anni or sono, non sai se più rancore
o nostalgia, leghi il nostro cuore…
L’ombra che ci invecchia fosse astratta coscienza,
voce che contraddice la vitale presenza!
Fosse, com’è in te, la spietata gioia
di sapere, non l’amarezza di sapere ch’è in noi!
Ciò che potevamo risponderti è perduto.
Può parlarti – se, tu ragazzo, sai il muto
suo nuovo linguaggio di ragazzo – soltanto
chi è rimasto laggiù, nella luce del pianto…
Era ormai quasi estate, e i più bei colori
ardevano nel mite, friulano sole.
Il grano già alto era una bandiera
stesa sulla terra, e il vento la muoveva
fra le tenere luci, riapparse a ricolmare
di festa antica l’aria tra i monti e il mare.
Tutti erano pieni di disperata gioia:
sulla tiepida polvere delle vie ballatoi
e balconi tremavano di fazzoletti rossi
e stracci tricolori; pei sentieri, pei fossi
bande di ragazzi andavano felici
da un paese all’altro, nel nuovo mondo usciti.
Mio fratello non c’era, e io non potevo
urlare di dolore, era troppo breve
la strada verso il granaio perso nei campi, dove
per un anno l’ingenua, eternamente giovane,
povera nostra mamma aveva atteso, e ora
era lì che attendeva, sotto il tiepido sole…
Ma ha ragione la vita che è in te: la morte,
ch’è nel tuo coetaneo e in noi, ha torto.
Noi dovremmo chiedere, come fai tu, dovremmo
voler sapere col tuo cuore che si ingemma.
Ma l’ombra che è ormai dentro di noi guadagna
sempre più tempo, allenta ogni legame
con la vita che, ancora, un’amara forza
a vivere e capire invano ci conforta…
Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto,
finirà non chiesto, si perderà non detto.
A un ragazzo è dedicata a Bernardo Bertolucci. (nota di Angela Molteni)