Carocci pubblica il quinto volume della Tradizione del Novecento. Quinta serie, con cui il grande critico e filologo Pier Vincenzo Megaldo riscrive e risistema il sistema e le gerarchie della letteratura italiana del secolo scorso, ridimensionando molti autori, come Ungaretti, Pavese e Gadda, o confermando il valore di altri, come Montale e gli amati poeti dialettali.
Quasi un “anticanone” su cui discutere, come chiosa sul “Corriere” Paolo Di Stefano, che recensisce il volume e si sofferma sul carattere militante del giudizio critico dello studioso.
Mengaldo, amori e no nella sua Borsa
di Paolo Di Stefano
www.corriere.it – 5 aprile 2017
Un «fondamentale work in progress»: così scrisse Giovanni Raboni, nel 2000, a proposito de La tradizione del Novecento, l’opera a più tappe che uno dei maggiori critici del nostro tempo, storico della lingua e filologo, Pier Vincenzo Mengaldo, ha mandato in libreria a partire dal primo volume feltrinelliano datato 1975. Siamo ora alla quinta serie, pubblicata meritoriamente dall’editore Carocci, e vale la pena fare un bilancio numerico (ovviamente provvisorio) degli autori trattati dall’inizio a oggi (per un totale di un centinaio di scritti): fermo restando il prevalere della poesia, cui Mengaldo nel 1978 ha dedicato l’antologia più affidabile ancora in circolazione, vince di gran lunga l’interesse per Montale (15), al quale seguono Fortini (7), Sereni (6), Caproni (3), D’Annunzio (3) e Pascoli (3), che però aleggiano ovunque come i massimi ispiratori del secolo. Per rimanere alla poesia, va detto che Mengaldo ritorna su Solmi, Sbarbaro, Valeri, Baldini, Orelli, Scataglini. Nella narrativa, nettamente minoritaria — e inferiore per qualità rispetto alla poesia, secondo Mengaldo —, si segnalano i dichiarati amori per Primo Levi (4), Calvino (3), Morante (2) ma ci sono anche Tozzi, Meneghello, Parise e Guerra. Tra i maestri della critica, trionfa Contini (3) con Debenedetti (1) e Cases (1).
Una siffatta mappa contabile, anche sommaria, dà almeno l’idea delle predilezioni di uno studioso che non si nasconde mai dietro il gelo accademico professorale. Del resto, nel «giudizio di valore», tiene a precisare Mengaldo, «consiste o deve sfociare la critica degna del nome».
Dunque, il vero miracolo cui assistiamo leggendo i suoi saggi è proprio la coesistenza, a tratti vertiginosa, di piani diversi tra loro correlati: l’analisi dello stile e della lingua, irrinunciabile fondamento di ogni discorso critico, la proiezione del testo entro orizzonti più vasti non solo del sistema letterario ma anche del panorama storico, filosofico, sociale e a tratti politico, senza dimenticare gli affondi comparativi nelle altre realtà letterarie, ma anche pittoriche, cinematografiche e musicali. E senza ignorare la critica della critica. Il tutto, come si diceva, sempre finalizzato a esprimere, in modo ragionato, un parere sulla materia trattata. Un critico militante a più livelli, con uno sguardo mai neutro, mai impressionistico (il che differenzia Mengaldo da tanti critici umorali tanto più tronfi quanto più sono privi di strumenti). Il risultato, nell’accostarsi a questi dispositivi mobili e complessi che sono i suoi saggi, è il piacere di leggere, una sorta di irresistibile «felicità mentale», per usare una formula cara a Maria Corti, nel continuo passaggio dal particolare al generale e viceversa, dall’analisi stilistica a una visione della società e viceversa.
Quest’ultimo volume miscellaneo, che raccoglie gli scritti novecenteschi degli ultimi vent’anni quasi, conferma, come si diceva, la persistenza di lunghe fedeltà (quella montaliana su tutte) ma segnala affinità relativamente nuove: come quella per il «grande» Salvatore Di Giacomo, di cui viene indagato lo stile dello splendido componimento Na tavernella… con il suo sviluppo narrativo finemente costruito. È quest’ultimo un esempio di quanto una lettura al rallentatore possa contribuire non già a raffreddare la passione ma a motivarla e alla fine a rinvigorirla.
È nota la considerazione di Mengaldo per la poesia dialettale, di cui, dice, «non sarà mai sopravvalutata l’importanza»: e dunque non è certo un caso se questo volume della Tradizione, che contiene anche un saggio sul gradese Biagio Marin (così come i precedenti si soffermavano su Tessa e Giotti), si chiude con le letture del romagnolo Raffaello Baldini («oggi probabilmente il maggior poeta d’Italia», scriveva Mengaldo nel 2002) e del marchigiano Franco Scataglini: l’eterna e irrisolta questione della lingua emerge in un’affascinante indagine su come i dialettali traducono se stessi, dove si mette a fuoco il rapporto problematico con l’italiano, sentito, senza vie di mezzo, o come standard piatto o al contrario come lingua letteraria paludata.
Ma sono i tre quadri generali che aprono la raccolta a togliere il respiro al lettore per la quantità di illuminazioni baluginanti nella rete dei fili che si intrecciano e dei richiami incrociati. Si direbbe che la dichiarata (e ben nota) avversione di Mengaldo verso la rigidità dei canoni (con buona pace del guru Harold Bloom) non rinunci però alla riflessione sulla borsa valori e al disegno di ben più mobili costellazioni.
In tal senso, in poesia Mengaldo non esita a ridurre Quasimodo (ma, osserva, «ormai siamo d’accordo tutti o quasi»), a ridimensionare fortemente Pavese (anche il narratore), «velleitario, e narcisistico nell’apparente realismo», e a «prendere di petto» Ungaretti: «Mi auguro che oggi nessuno lo ponga più al livello di Saba e Montale», per non dire di Pasolini (grande il saggista, non il poeta). Salgono invece imperiosamente, oltre agli ammiratissimi Fortini, Sereni e Caproni, Penna, Bertolucci, Betocchi, Giudici, Orelli. E venendo alla narrativa, i gusti di Mengaldo sono ancora più selettivi e fortemente orientati: con molta cautela viene trattato Gadda (più prosatore di frammenti che narratore), stilisticamente opposto a un altro scienziato come Primo Levi: in quanto «per il primo scienza e tecnica sono soprattutto un propellente linguistico (…), nel secondo hanno un valore più sostanziale». Opposta, a sua volta, sia pure nella comune prospettiva illuministica, la manualità concreta del chimico Levi all’astrazione matematico-combinatoria di Calvino. Non piacciono né il «mediocre» Piovene né il grigio «cemento armato» di Moravia, mentre ci si augura che vengano resi i dovuti onori a Bassani e a Parise, e si segnalano Il giorno del giudizio del sardo Satta, Il ricordo della Basca di Delfini, il «capolavoro assoluto» Fratelli di Carmelo Samonà, il «bellissimo» Un anno sull’altipiano di Lussu, così come il «bellissimo» Servabo di Luigi Pintor, il «bellissimo» Il resto di niente di Striano, il «bellissimo» Ferito a morte di La Capria. Mengaldo non si nasconde, quando c’è da usare gli aggettivi semplici li usa, superlativi compresi.