Pasolini talent scout di Tommaso Di Francesco, poeta e  firma del “manifesto”, di Roberto Carnero

Il suo esordio letterario è avvenuto nel 1968 su «Nuovi Argomenti», la rivista allora diretta da Pier Paolo Pasolini. Poeta, narratore e giornalista (nel 2014 è diventato condirettore, insieme con Norma Rangeri, del quotidiano «il manifesto», del cui collettivo editoriale fa parte fin dalla fondazione nel 1969), Tommaso Di Francesco è uno dei relatori dell’annuale convegno del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, dedicato nei giorni 10 e 11 novembre 2017 al Pasolini “giornalista”. Per l’occasione, intervistato per “Il Piccolo” di Trieste da Roberto Carnero, ha ricostruito il momento caldo del ’68 in cui avvenne l’incontro con Pasolini e, soprattutto, ha messo in evidenza la peculiarità della presenza giornalistica di questo autore, forse irripetibile anche per la carta stampata. 

Pier Paolo Pasolini,  il suo «Io so» contro la stampa subalterna
di Roberto Carnero

http://ilpiccolo.gelocal.it – 8 novembre 2017

Tommaso Di Francesco
Tommaso Di Francesco

Dottor Di Francesco, di che cosa tratterà il suo intervento al convegno?
Il tema “Pasolini giornalista” è naturalmente aspro e vasto. Alla fine, Pier Paolo Pasolini è stato soprattutto un poeta, un militante della poesia civile, la cui scrittura e attitudine giornalistica è stato un tentativo di andare oltre il genere fin a quel momento conosciuto. Prima di Pasolini il giornalismo ufficiale era il “Palazzo”, apparteneva al potere, oppure militava nelle fila e nei giornali dell’unica opposizione esistente, quella del Partito comunista. Il suo lavoro ha rotto gli argini ufficiali.

Lei ha esordito nel 1968 su «Nuovi Argomenti«, la rivista allora diretta da Pasolini. Quali ricordi personali ha dell’uomo e dell’intellettuale?
Rapporti difficili ma straordinari. Conflittuali. Per un giovane come me che allora aveva 20 anni, Pasolini era un punto di riferimento ineludibile, come inevitabile era però lo scontro. Vivevo in una borgata romana e ricordo che nel 1965 aspettavamo come giovani comunisti l’arrivo di Pasolini che, si diceva, aveva girato un documentario su un’alluvione che aveva colpito una borgata vicina, provocando molte vittime. Guardavamo l’argine gonfio della nostra marana aspettandolo, ma non venne. Arrivò infine il ’68 e dopo gli scontri con i fascisti alla “Sapienza” ci fu Valle Giulia. Avevo già scritto due libri di versi mai pubblicati, dall’ultimo dei quali estrassi 30 poesie e le portai, grazie a Enzo Siciliano e a Renzo Paris, a Pasolini. Il quale decise di pubblicarli: contento perché, secondo lui, c’era in giro una realtà di poeti “non neo-zdanovisti”(l’impostazione politico-culturale di origine sovietica che prevedeva, per le opere letterarie, una conformità ideologica strettamente marxista, ndr). Stava preparando un saggio introduttivo così concepito. Poi mi cercò e lo incontrai, voleva sapere se poteva scrivere anche su di me e inserirmi in questo contesto. Gli dissi di no: le sue affermazioni provocatorie “dalla parte dei poliziotti” di Valle Giulia in quel momento mi avevano colpito negativamente. Decise allora di pubblicarmi lo stesso su «Nuovi Argomenti», ma autonomamente, appena di seguito ai “non neo-zdanovisti”.

Quali sono, a suo avviso, le caratteristiche peculiari del giornalismo pasoliniano?
La rottura degli schemi conformisti e la necessaria personalizzazione, quasi fisica, dell’informazione quotidiana, come rifiuto e abiura dello stato delle cose presenti e dei loro codici interpretativi. Un polemismo vitale: altrimenti non c’era, e non c’è, giornalismo che tenga. In contrapposizione con l’omologazione dei nuovi media e del loro strapotere. Ricordiamoci che Pasolini è arrivato a proporre l’abolizione della televisione (e dello strapotere spartitorio dei partiti.

Che cosa può insegnare la militanza di Pasolini a chi fa giornalismo oggi?
L’attenzione al lato estetico della realtà, l’andare controcorrente. L’essere fuori dall’esercizio che sembra essere diventata la professione giornalistica: il main stream, la subalternità, la ripetitiva omologazione fino all’inutilità. Il suo eccezionale editoriale “Io so” di denuncia della verità sulle stragi di Stato dell’epoca democristiana è un unicum irripetibile: non è moralista o giustizialista, ma politico ed evocativo. Ora quel mondo non c’è più, ma le infamie e le stragi sono decuplicate. È sperabile che nasca un nuovo Pier Paolo Pasolini.