Pubblichiamo un interessante e approfondito contributo di Elisabetta Michielin, studiosa e ricercatrice di storia, in particolare dell’area pordenonese. Al centro dell’attenzione è la complessa vicenda dei rapporti di Pasolini con il PCI friulano, bruscamente troncati con l’espulsione dal Partito che fece seguito nel 1949 allo scandalo di omosessualità legato ai cosiddetti fatti di Ramuscello. Quei fatti si prestano non solo a rievocare il trauma del poeta “reietto” ma anche a ricostruire nel contesto del dopoguerra, e agli inizi della guerra fredda, la ferrea intransigenza sulla linea di condotta, personale e nei comportamenti privati, richiesta dal Partito ai militanti e agli iscritti in nome della superiore esigenza collettiva e politica. Senza appello dunque il reato di omosessualità, imputato al poeta “decadente” con la conseguente espulsione, sulla quale del resto lo stesso Pasolini mantenne anche in seguito una stretta reticenza.
In questa ricerca, frutto di accurate esplorazioni delle fonti, emergono dal passato anche tante figure che furono testimoni della vicenda e che assecondarono all’unanimità il drastico giudizio che la concluse, a parte il caso della comunista Teresina Degan che tuttavia solo nel 1976, quasi trent’anni dopo la cacciata dell’amico Pasolini, riesumò la sua voce di solitaria opposizione a quel verdetto. Il saggio serve dunque a cercare di ristabilire la verità, anche nei confronti di quanti al momento della morte di Pasolini si profusero nel compianto, ma lasciando nell’ombra e nella smemoratezza il ruolo già svolto per decretare la condanna del reprobo.
Grazie all’autrice della ricerca per il consenso alla pubblicazione del suo lavoro, già uscito sul sito www.storiastoriepn.it/pier-paolo-pasolini-storie-di-provincia/.
Storie di provincia
a partire dall’espulsione di Pier Paolo Pasolini dal PCI pordenonese nel 1949
di Elisabetta Michielin
www.storiastoriepn.it/pier-paolo-pasolini-storie-di-provincia – novembre 2017
Il canone della narrazione dei rapporti del PCI pordenonese e friulano con Pier Paolo Pasolini e della sua espulsione nel 1949, dopo i “fatti di Ramuscello” (1), scoraggia anche il più spericolato indagatore. Ha contorni ben definiti, ruoli assegnati, tempi dati, protagonisti diretti defunti, interpretazioni acclarate e nessun documento inedito nell’ormai vuoto armadio degli scheletri (2).
Tutte le biografie di Pasolini hanno ricostruito le conseguenze della notte di sesso malandrino con ragazzi minorenni in modo sostanzialmente univoco, legandole al periodo particolarmente bacchettone del PCI e alla sindrome da accerchiamento da parte delle forze cattoliche e della Democrazia Cristiana uscita vittoriosa dalle elezioni del 1948 (3).
Davanti a un quadro dipinto con precisione in ogni particolare, ultimi di una lunga fila di spettatori che già hanno sostato nelle stanze di un museo ormai in disarmo, non resta che provare a mettere a fuoco particolari e individuare campiture attraverso cui è stato narrata e si è costruita la memoria di un così ben rifinito manufatto. Correndo il rischio di offendere qualcuno o qualche tradizione; questo è quel che succede se si va a rovistare nelle memorie …
Come si sa non resta nessuna traccia documentale di Pasolini e della sua espulsione in nessun archivio del Partito. Niente nell’archivio nazionale e niente nei due faldoni che compongono il superstite archivio locale e che riguardano soprattutto gli anni tra il 1949 ed il 1955 (4). Fatto sta che il 26 ottobre del 1949 la Federazione del PCI di Pordenone, segretario Antonino Scaini (5, amico di famiglia dei Pasolini, decide l’espulsione dal Partito di Pier Paolo Pasolini per «indegnità morale» con pubblicazione del provvedimento su «l’Unità». Sono passati pochissimi mesi dal 14 febbraio 1949, data del primo congresso provinciale del PCI di Pordenone riunito nella sala imbandierata del Ridotto del Teatro Verdi, e dalla foto che vede Pasolini in fianco a Scaini sotto le foto di Togliatti e Gramsci insieme alla Presidenza del Partito.
Vecchi Bollettini, antichi dibattiti
«Il compagno Pier Paolo Pasolini, intervenuto nella seduta pomeridiana, è chiamato alla presidenza tra gli applausi dei congressisti che salutano questo esponente della giovane cultura che si è accostato alla classe operaia». Si può leggere a pagina 4 de «Il Bollettino sul Primo Congresso della federazione comunista di Pordenone “Per la pace e il lavoro”», uscito per l’occasione, che contiene resoconto e relazioni della giornata (6).
È molto interessante la lettura dell’arcaico «Bollettino», di cui era responsabile e organizzatrice Teresina Degan (7), notoriamente l’unica rappresentante del PCI pordenonese che si sarebbe espressa contro l’espulsione di Pasolini. Sarebbe. Perché in realtà Teresina Degan, non poté esprimere formalmente la propria posizione: la decisione dell’espulsione, infatti, fu presa d’imperio da un gruppo ristretto della dirigenza senza una discussione più estesa. Del fatto non rimane nessuna documentazione scritta dell’epoca ma solo la ricostruzione a posteriori che Teresina Degan ne fa nella lettera mandata a Mario Lizzero (8) il 6 febbraio del 1976, quasi trenta anni dopo qualche mese dalla morte di Pasolini.
L’espulsione avvenne ad opera di parte del comitato direttivo della federazione comunista di Pordenone, pare dietro improvvise sollecitazioni da parte della federazione di Udine e di militanti di base della zona di Casarsa e S. Vito evidentemente poco preparati, o poco disposti, a subire una campagna scandalistica. Te ne parlo perché la riunione fu improvvisa e tenuta ad ora inconsueta tanto che io, che di quel direttivo facevo parte, appresi la notizia sia dell’avvenuta riunione, sia della gravissima decisione alle 18.30, quando di norma tali riunioni avevano inizio per consentire la partecipazione di quei compagni che nelle altre ore del giorno erano impegnati in altre attività.
Giunsi così puntualmente solo per manifestare il mio netto dissenso dal deliberato, per varie ragioni: innanzi tutto non vi era stata pronuncia alcuna di colpevolezza e condanna da parte degli organi giudiziari cui era stata inoltrata denuncia. La decisione, a mio parere, era stata presa sotto una spinta assolutamente irrazionale ed emotiva dimenticando che la condizione del tutto particolare di Pasolini, del resto avvertibile, era un fatto puramente privato: il suo modo di essere riguardava la sua persona e non poteva per nulla essere causa di espulsione dal partito. Il partito stesso non avrebbe dovuto per nulla accodarsi ai facili denigratori di Pasolini, pochi o tanti che fossero, non aveva importanza. Il partito doveva attendere che il polverone si diradasse. In sede privata, l’allora segretario di federazione [Antonino Scaini, ndr], dimostrava di condividere il mio parere, tuttavia riteneva ormai irrevocabile la decisione presa e già resa pubblica. Egli inoltre riteneva che tale provvedimento, consentendo a Pier Paolo di presentarsi ai giudici come non comunista, gli avrebbe alla fine potuto giovare dato il clima allora imperante … (9).
Resta insoluto perché Teresina Degan si sia prestata a ricostruire ad usum Delphini una vicenda che Mario Lizzero conosceva e ricordava sicuramente benissimo. Lo dice implicitamente la stessa Degan, quando nella lettera scrive che la decisione venne presa su «sollecitazione da parte della federazione di Udine». È impossibile che Mario Lizzero non sapesse cosa succedeva nelle federazioni di Udine e di Pordenone! Evidentemente in Teresina Degan, anche dopo tanti anni, prevalgono i risentimenti verso la federazione di Pordenone – per le donne era quasi impossibile fare “carriera” politica ed essere valorizzate sulla base del merito – , e preferisce addossare a questa l’intera responsabilità dell’espulsione di Pasolini. Facendo così salva se stessa, Lizzero e il Partito anche a costo di sacrificare un po’ … la verità.
Mario Lizzero, per inciso, conosceva molto bene Pasolini con cui fu a Parigi nel maggio del 1949 per partecipare al Congresso della Pace (10). Lizzero ricorda, in una sua testimonianza del dicembre 1975, sulla rivista «Confronto» di un incontro nel 1946 in cui Pasolini gli «parlò con profonda amarezza, con dolore della tragedia della madre in seguito alla morte di suo fratello (…)» (11). Il «Messaggero Veneto» del 6 novembre 1975 riporta le parole di Mario Lizzero nella cronaca della tumulazione di Pasolini a Casarsa.
(…) Dopo il ricordo del sindaco, l’omaggio del PCI: ha preso la parola l’onorevole Lizzero, intervenuto assieme all’onorevole Scaini, al consigliere regionale Baracetti, ai consiglieri comunali di Udine Cecotti, Maniacco e D’Andrea e agli esponenti delle federazioni del PCI di Trieste, Gorizia e Pordenone. L’esponente comunista ha accennato: «all’irreparabile perdita per il nostro popolo e la nostra cultura» e ha così proseguito: «abbiamo valutato ancora una volta, forse più di prima, dopo la sua morte sconvolgente, dai commenti, pur così inevitabilmente contrastanti della stampa, della cultura, di tutti gli organi di informazione delle città d’Italia, d’Europa e del mondo intero, la grandezza di Pier Paolo Pasolini e della sua appassionata opera di denuncia».
L’onorevole Lizzero ha così proseguito: «Sentiamo il dovere di esprimere oggi, davanti a questa morte violenta che ci colpisce tanto profondamente, con modestia, discrezione e sincerità, il dolore dei militanti della nostra terra per questa immensa tragedia della violenza, comunque tipicamente fascista, che ha ucciso Pier Paolo Pasolini, e chiediamo che sia fatta luce piena su un delitto feroce e ancora per molti aspetto oscuro». Lizzero ha quindi ribadito i meriti culturali e civili dello scomparso e il contributo dato dal suo ingegno al Friuli. «Noi comunisti friulani – ha concluso – vogliamo esprimere ancora una volta con il nostro dolore, l’apprezzamento per la profonda onestà di militante e di uomo di lotta che fu Pier Paolo Pasolini».
Risalta la smemoratezza di Mario Lizzero che non accenna a nessuna resipiscenza, ma ancor di più la sua capacità – che lo conferma essere stato un vero dirigente – di “dettare la linea politica” (come si diceva una volta) e indicare con estrema precisione e sicurezza i confini del “discorso” su Pier Paolo Pasolini e sulla sua morte; confini a cui il PCI e i suoi eredi politici si atterranno con scrupolo fino a oggi. Nel nome di questa “coerenza” i rapporti passati tra il PCI friulano e Pasolini subiscono una vera e propria inversione temporale e gli atti e intendimenti dei protagonisti vengono riletti a ritroso. Il clamore e i fattacci che hanno portato all’espulsione di Pasolini sfumano fin quasi a scomparire; chi allora si è opposto ha modo di precisare le proprie ragioni alla luce della sensibilità a posteriori in materia di “diversità” e omosessualità; coloro che lo avevano espulso possono giustificarsi. La stessa lettera di Teresina Degan, sopra riportata, è all’interno di questa logica di “recupero” della figura di Pasolini nei suoi rapporti con il PCI locale. Non si può che concordare con Anna Tonelli quando nel suo libro Per indegnità morale. Il caso Pasolini nell’Italia del buon costume (12) così scrive: «Pur riconoscendo la buona fede della Degan, che dichiara di essersi opposta alla decisione seppur già deliberata in sua assenza, non si può non rilevare che la sua lettera sia il frutto di una riflessione a posteriori che fa leva su un’immagine del partito che non corrisponde a quella dell’epoca in cui si svolsero i fatti» (13).
L’operazione politico-storiografica degli esponenti del PCI non è d’altronde del tutto illegittima, perché probabilmente Pasolini stesso e i suoi rapporti, sempre contrastati ma mai risolti, con il Partito avrebbero acconsentito alla cosa. Le parole che Pier Paolo Pasolini scrive dopo l’espulsione nel 1949: «Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola (14)» sono interne a questo orizzonte e fanno il paio con quelle dette nella sua ultima intervista poche ore prima di morire: «Voto comunista, perché nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro» (15). Se in tutte e due le frasi si apre una smagliatura («comunista nel senso più autentico»; «non voglio ricordare altro») in cui si allude ad altri possibili orizzonti di senso, le scelte biografico/politiche di Pasolini, seppure complesse e contraddittorie, rimangono fino alla fine della sua vita in questa tradizione dalla quale non è mai uscito.
Pasolini tornerà sull’argomento della sua espulsione solo nel 1975 in un’intervista a Jean Duflot, dove ricordando che nel 1948 (sic) (16) «dei comunisti hanno ritenuto giusto cacciarmi dal partito», dice che vorrebbe chiedere loro: «Come mai non hanno capito che il diritto dello scrittore a dire tutto presuppone il dovere di inventare tutto, in altre parole di cogliere la verità, tutte le verità, senza per questo compromettersi nell’esperienza dell’abiezione» (17). Parole che non suonano molto diverse da quelle usate da Pasolini nel suo articolo su «Il Bollettino» nel 1949. Pasolini non dimentica di aggiungere, ancora una volta, contro eppure dentro l’orizzonte politico e culturale del PCI, «oggi di nuovo mi riconosco non tanto lontano da loro… (18)».
Il Diàul peciadoùr
Tutti i protagonisti dell’affaire Pasolini compaiono fianco a fianco nei quattro paginoni del foglio uscito in occasione del 1° Congresso del PCI pordenonese. Nella terza pagina, dedicata secondo tradizione alla cultura, le due colonne di destra, intitolate Un intervento rimandato (19), sono firmate da Pier Paolo Pasolini che le scrive «ai margini del Congresso, quasi una postilla alla questione “rafforzamento ideologico” fortemente sentita dagli operai ma anche dai contadini del pordenonese.(20)». Il “rafforzamento ideologico” cui fa riferimento Pasolini è l’argomento della relazione tenuta al Congresso da Teresina Degan, trascritto in forma di articolo da qualcuno che non ha firmato (forse lei stessa)(21).
Pasolini, nel suo testo, che si colloca su un piano che non ha paragoni con quello della compagna di Partito per complessità e vastità di riferimenti, si chiede se esista una nuova cultura progressiva e quali siano i compiti del letterato per costruire questa cultura nuova. Per farsi comprendere da tutti, secondo un modo di procedere che conserverà sempre, Pasolini non semplifica il proprio linguaggio e la vastità dei riferimenti; usa invece un «esempio un po’ strambo» (come lui stesso lo definisce) ma sicuramente efficace: fa immaginare al lettore un banchetto in cui la borghesia mangia avidamente non senza aver invitato al proprio tavolo i cuochi (gli intellettuali), che hanno cucinato per lei cibi squisiti e, contemporaneamente, butta qualche osso ai cani e ai mendicanti (i proletari). Questa è la situazione, dice Pasolini, e all’intellettuale che non vuole esserne complice si chiede di fare delle rinunce faticose. L’intellettuale comunista, sottolinea acutamente Pasolini, deve essere un «leale compagno in politica» e, contemporaneamente, essere «completamente libero di fare ciò che vuole in letteratura». Pasolini non si sottrae al compito di precisare di che tipo di libertà stia parlando: l’introspezione, l’esame diaristico e interiore (22) … Proprio ciò che andava scrivendo e scoprendo, in quel periodo, nei suoi tumultuosi romanzi friulani mai pubblicati in vita, Amado mio e Atti impuri (23). Il modello e riferimento diretto è alla letteratura europea moderna e alla grandissima capacità di introspezione e vivisezione della coscienza borghese che i suoi protagonisti hanno compiuto. Pasolini precisa: «Intendo riferirmi a Gide, a Proust, a Joyce, a Eliot … (24)».
Pasolini continua sottolineando l’incapacità di questi intellettuali di dare un giudizio, se non intimo e privato, del mondo borghese che così bene hanno scandagliato: a proposito di Proust parla di psicologia patologica, degli altri dice che ognuno è chiuso nella propria torre «ora con il sorriso del dandy, ora con la disperazione dell’eremita (25)». Un’interpretazione, molto legata a quell’ideologia comunista che userà, da lì a poco, gli stessi argomenti contro Pasolini. Questo infatti il trafiletto de «l’Unità» che commenta l’espulsione di Pasolini:
Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese (26).
Queste le parole di Pasolini, a proposito degli stessi letterati, nel suo articolo sul «Bollettino» a proposito della letteratura moderna:
Pareva che l’uomo non potesse essere altro che questo squisito e impeccabile conoscitore di se stesso e della propria storia, dotato di una fantasia poderosa che a una diagnosi clinica non poteva non apparire patologica (27).
Ma il Diàul peciadòur (28) ci mette lo zampino e nell’articolo pubblicato sul «Bollettino» cade la particella “non” cambiando il significato della frase:
… dotato di una fantasia poderosa che a una diagnosi clinica non poteva non apparire patologica (29).
Il primo piccolo squarcio di una lunga serie di squarci che costelleranno la vita e le opere di Pasolini, rendendole così vive e feconde e per molti versi ancora inafferrabili.
Il foglio che celebra il primo Congresso del PCI a Pordenone porta quindi, dentro di sé, nascosto nell’entusiasmo del momento (un trafiletto parla di 500 copie dell’«Unità» in più diffuse per l’occasione!), il virus che sempre si ripresenterà e intreccerà le proprie urgenze al dire/fare di Pasolini.
Il richiamo iniziale di Pasolini all’intervento di Teresina Degan testimonia di una, seppur minima, discussione in atto e di una vicinanza tra i due iscritti al PCI, ambedue giovani e sportivi (30). La stessa Teresina fa parte sicuramente di quell’insieme di militanti ed esperienze che hanno fatto di Pasolini quel «leale compagno in politica» del PCI che è rimasto per sempre.
Lo testimonia la cartolina postale che le inviò da Casarsa, il 10 novembre del 1949, due settimane dopo l’espulsione dal Partito, che inizia con un po’ burocratico «Cara Degan», e continua :
ti spiegherò a voce i retroscena, che del resto puoi già immaginare. È stato un lavoro perfetto, minuzioso e paurosamente tempestivo: abbiamo molto da imparare da loro. Quanto a me sono condannabile per un’ingenuità addirittura indecente. È magari tardi per imparare, comunque i sette o otto amici sopravvissuti vanno ripetendomi che sono molto giovane e che posso rifarmi. Bella consolazione! C’è stato un momento che avrei potuto annegare nel letamaio dell’odio borghese, adesso però sto riprendendomi e se mai ho avuto una vitalità me la sento ora addosso come un vestito nuovo. Quello che tu dici avermi fatto un difensore delle classi lavoratrici è un dato ormai assoluto del mio pensiero e, non temere, nulla lo muterà.
Cordiali saluti dal tuo Pier Paolo Pasolini (31).
Questa è l’unica lettera che Pasolini abbia scritto a Teresina Degan. Riprende l’idea, espressa anche nella lettera inviata a Ferdinando Mautino, di una trappola tesa al PCI oltre che a lui stesso da parte delle forze reazionarie, ma salta all’occhio che non dica niente della opposizione di Teresina Degan alla sua espulsione dal PCI. Non ne era a conoscenza? Noi non possiamo saperlo, come non sappiamo se Teresina Degan abbia in qualche modo fatto sapere a Pasolini la sua parte in questa faccenda e quale fosse allora il suo intimo sentire in tema di “diversità” e omosessualità. Lo scritto di Pasolini lascia intendere la possibilità di un ulteriore incontro tra i due, di cui però non c’è traccia; secondo Teresina Degan, l’unica altra volta che si videro fu a San Vito al Tagliamento durante la manifestazione per le “cartoline rosa” (32). Sembra quindi non fondata la testimonianza dello scrittore friulano Elio Bartolini secondo il quale, subito dopo l’espulsione di Pasolini, «anche la Degan è andata a Casarsa e gli è stata vicino (33)».
Teresina Degan, invece, oltre alla lettera a Lizzero già ricordata, racconterà pubblicamente la vicenda, su richiesta di Tito Maniacco (34), durante uno dei primissimi convegni su Pasolini organizzati nel pordenonese( 35). Dell’invito di Maniacco fu orgogliosa e felice (36).
Il «Bollettino» contiene anche la Relazione del compagno Scaini, amico di famiglia dei Pasolini, come si dirà più ampiamente avanti, che non mette conto riportare se non perché scrive esplicitamente che «il Partito deve sorvegliare e indirizzare i compagni» e perché si sofferma in particolare sulle lotte di San Vito per una più equa divisione delle terre che sono il contesto in cui si svolge l’unico romanzo friulano pubblicato in vita da Pasolini nel 1962, Il sogno di una cosa (37), su cui torneremo.
Il partito una madre severa: l’archivio, i fascicoli sui militanti, le espulsioni
«La politica leninista verso i quadri di Partito» (38) di Marcel Cervin (sic) (39) del Partito Comunista Francese è il documento guida, pieno di citazioni di Stalin, del Partito per la propria condotta rispetto ai quadri (40).
Scegliere bene un quadro significa: «conoscere i quadri, giudicare minuziosamente i difetti e le qualità di ogni militante, sapere in qual posto possono svilupparsi meglio le sue capacità» (41); i quadri devono essere costantemente controllati e verificati, si devono «conoscere anche le loro difficoltà , di famiglia o di altro, le loro attitudini e i loro gusti» (42).
Inoltre il controllo non deve essere operato solo dagli organismi superiori ma dalla «stessa massa degli aderenti che giudica democraticamente ognuno (43)». E non basta l’autocritica di chi sbaglia perché «lasciar passare a un compagno un errore col pretesto di non dargli dispiacere, è contrario all’interesse del partito…» Le conclusioni sono che «bisogna vegliare sui nostri quadri come una madre veglia sui propri figli … (44)». Più chiaro di così.
L’archivio della Federazione di Pordenone contiene gli incartamenti di più di centoquaranta iscritti e militanti del Partito. In particolare di ognuno si conserva come minimo una scheda allegata a un’autobiografia, in cui vengono annotati il livello culturale, politico, le potenzialità militanti e altri giudizi.
È il momento in cui il Partito deve mobilitare tutte le sue forze per far fronte al gravissimo fatto che in una zona e città operaia come Pordenone gli iscritti al Partito sono ben al di sotto della media nazionale e che l’obiettivo, che ci si era dati al Congresso, di arrivare a 5.000 iscritti sia ben lontano dall’essere raggiunto (45).
Il nome di Pasolini compare unicamente nel giugno del 1949, giusto a metà tra il 1° Congresso di Pordenone e la sua espulsione, inserito nell’elenco degli attivisti del Sanvitese (46):
Favot (Sanvitese – gli attivisti sono: Ciol, Guardabasso, Nicodemo, Guido Innocente, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Scodeler, Elio Nonis, Enzo Antoniali, Luigi Simonato, Pietro De Fent, Valentino Giarduz, Antonio Moretto ed Augusto Culos).
Sembra quindi aver ragione chi pensa che l’incartamento su Pasolini sia stato volontariamente fatto sparire, ma i ricordi che si sono tramandati attorno a questo archivio e la quantità e qualità dei problemi ricordati più sopra (47) fanno prudentemente propendere per il fatto che il Partito pensasse allora al caso Pasolini come a uno minore e poco importante e che fosse sufficiente circoscrivere il clamore pubblico e ricordare a tutti che tra i comunisti non c’è posto per i “degenerati”. Alla fin fine Pasolini era solo un omosessuale! …e un illustre intellettuale sconosciuto e per di più autonomista (48). Forse Antonino Scaini non si sentiva di lasciare documentazioni su una causa di espulsione così disonorevole per il rampollo di una famiglia amica. Anche nell’immenso archivio di Pasolini non c’è traccia di una lettera di espulsione ma neanche di una sua autobiografia, il documento con cui si apriva una cartella nell’archivio di Sezione. Sono andati perduti, buttati da Pasolini stesso, oppure non sono mai stati scritti e, in particolare, l’espulsione è stata comunicata solo a voce e ai giornali? (49).
A leggere gli archivi, Pasolini non fu l’unico ad essere espulso in quegli anni dalla Federazione di Pordenone. In realtà espellere, secondo una precisa casistica che andava dalla colpa lieve a quella grave, con o senza menzione pubblica su «l’Unità» era una pratica sempre possibile e ventilata (50). Così come il rito della critica e dell’autocritica politica a cui tutti si sottopongono più o meno obtorto collo e che va di pari passo con le contingenze locali e i cambiamenti di linea del Partito. È anche vero che molti dei compagni espulsi ricompaiono nei loro ruoli o in altri a distanza di poco tempo sia per meriti propri o perché indispensabili alla vita del Partito che non ha personale per rimpiazzarli o per sopravvenuti cambiamenti di linea, salvo essere tenuti sempre in scacco per le passate “colpe”. Ad esempio si pensi a Armando Da Ponte per il quale Teresina Degan, rafforzando la sua fama di “garantista”, imporrà un procedimento formale, per alzata di mano a maggioranza, a ratificare l’avvenuta espulsione e i motivi, messi poi a verbale (51).
Fare la guerra, anche quella partigiana, non è una passeggiata. Il bruciante sogno di una cosa
Dagli archivi del PCI emerge la storia tragica del giovane Angelo Galante che durante la Resistenza venne arrestato dai tedeschi insieme a due suoi compagni. I due vennero uccisi perché non parlarono anche dopo essere stati seviziati; lui si impaurì e li denunciò come partigiani, indicò le postazioni della brigata cui apparteneva e di conseguenza si salvò (52). Il peso di questo comportamento lo accompagnò per sempre e lo mise in fortissima crisi nel 1954, proprio durante il grande sciopero del Cotonificio Veneziano. Non riuscì a resistere al senso di colpa e, in varie riprese, confessò tutto al Partito che da parte sua conosceva benissimo la storia fin dall’inizio. Con ogni probabilità questo patema porterà Galante a una morte prematura, dato che egli fu stroncato da infarto a neanche quarantadue anni.
Sicuramente la storia di Angelo Galante alla luce di quanto detto merita uno studio approfondito e serio che qui non si può riassumere che per grosse linee (53). In una frettolosa ricostruzione dei fatti si possono cogliere molti aspetti significativi che riguardano innanzitutto il dramma umano e politico di Angelo Galante: la pietas, l’immedesimazione, il giudizio storico ed etico…
La storia drammatica di Angelo Galante vale la pena di essere riportata, anche perché racchiude in sé tre motivi interessanti.
In primo luogo mostra sia gli enormi problemi con cui aveva a che fare il Partito, tra i quali quello di Pasolini non era certo il maggiore, sia le contraddizioni materiali che prepotentemente “sporcavano” l’ideologia della purezza incontaminata dei comunisti e della Resistenza. Svela l’agire del Partito e dei singoli iscritti, incerti nel fare e nel giudicare per le ripercussioni pubbliche e sui militanti; ma anche il cinismo del Partito che usa questo caso nelle lotte interne e ideologiche contro la Camera del lavoro, in cui Galante fu dapprima il responsabile di uno dei principali sindacati, la Federmezzadri (anche per la Camera del Lavoro di Udine), e poi brevemente segretario nel 1954. È infatti doveroso rilevare che, dalla lettura degli archivi, si deduce inequivocabilmente che i fatti risalenti alla Resistenza che lo riguardavano erano a conoscenza di molti dirigenti locali del Partito ben prima della terza “confessione” del 1954, caduta a fagiolo nella eterna battaglia politica che contrapponeva il Partito alla Camera del Lavoro.
Del problema si occupano la Federazione di Pordenone, ancora una volta Mario Lizzero e la Direzione Nazionale che si mostra molto più intransigente rispetto al PCI locale orientato, alla fine del lungo travaglio, nel 1955 (54) per un rientro di Galante nei ruoli dirigenti, vista la sua indiscussa capacità di organizzatore ed agitatore (55), ma subito ammetterà con autocritica vigorosa di aver preso una decisione frettolosa e imprudente. Qui finisce la carriera di Galante nei ruoli apicali del Partito, non l’affetto e il riconoscimento delle sue qualità che continuano a circondarlo e traspaiono anche dagli archivi.
Il secondo aspetto interessante della vicenda Galante è che questa è una storia esemplare di come la memoria sia un campo di battaglia e di come venga ricostruita e piegata alle esigenze del tempo e di chi la fa. Il Partito con discrezione sovrana decide volta per volta cosa rendere pubblico, chi può permettersi di espellere e chi no. Poi sarà il tempo ad annacquare ogni cosa e ogni responsabilità, e anche la vicenda di Angelo Galante, come quella di Pasolini, imboccherà una via pacificata dentro il Partito, la memoria ufficiale riordinerà gli eventi e li rileggerà alla luce di nuove esigenze e sensibilità. Mario Lizzero anche in questo caso, come in quello più noto di Pasolini, mostra il solito aplomb e passa dall’istituzione del processo nel 1954 (56) all’agiografia di Galante nel 1988: «Era pieno di idee, di iniziative. Un leader naturale, molto autorevole ed ascoltato. Capace di rapide decisioni, perché sapeva che sarebbe stato seguito con prontezza (57)». La storia passa attraverso un filtro di purificazione: tutti i tasselli sono presenti ma molti stanno nascosti sotto il tappeto o ricombinati in modi diversi.
Se la vita di Angelo Galante è assolutamente degna di essere rispettata e raccontata, con tutte le sue tragiche contraddizioni, allo stesso modo è degno di essere indagato tutto il lavorio di posizioni, il farsi delle decisioni, le battaglie politiche in corso tra persone, militanti e organizzazioni che erano sicuramente mancanti su molti aspetti, ingenui o cinici su altri ancora, politici colti o sempliciotti, ma in ogni caso impegnati a cercare di cambiare, rivoluzionare o rendere migliore il mondo in cui si sono trovati a vivere. Ben altra cosa è lo sguardo a ritroso pacificato, il seppellire le incoerenze, il rinchiudersi nella pretesa di una Storia con la esse maiuscola che riassume le storie eccentriche e non pacificate, sempre agita contro ciò che continuamente rinasce con nuovi aneliti di giustizia sociale e libertà che non possono che darsi “sporchi” e pieni di contraddizioni.
Le biografie di Galante pubblicate dall’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione risentono di tutti questi limiti. Teresina Degan in particolare viene citata più volte nel saggio di Lino Argenton (58) come testimone e in effetti, a leggere gli archivi, la Degan era a conoscenza di e aveva partecipato a di tutta la vicenda sopra riportata ma, spiace dirlo, la sua memoria non sembra molto aguzza o critica… Anche in questa occasione le fanno indossare i panni della “garantista”. Un altro testimone, Alfio Guardabassi, dice: «Io allora ero nel Comitato Federale ed ho votato contro, solo io. La Teresina Degan aveva ribadito le mie tesi, non essere quella un’assise competente per giudicarlo (59)». Per Argenton, «la Sezione del PCI di Ligugnana censurò unanime le decisioni del Comitato federale di Partito, nonostante fossero state avvallate dalla Direzione Nazionale (60)». In realtà secondo i documenti in archivio, su quarantadue presenti delle Sezioni di San Vito al Tagliamento e di Ligugnana, trentanove votarono a favore dei provvedimenti del Partito, uno si astenne e solo due votarono contrario e tra questi non Gardabassi … (61).
Ben altra la posizione e l’anelito di verità che hanno sempre informato il pensiero di Pier Paolo Pasolini rispetto la tragica morte del fratello nell’ancora controversa vicenda di Porzûs. Pasolini non ha mai acconsentito né ad occultare i fatti, né a speculazioni politiche sugli stessi; ha sempre preteso che la loro lettura e le ragioni del loro tragico accadere fossero inscritte in quella idealità antifascista cui partecipavano sia i partigiani comunisti delle formazioni garibaldine che i partigiani delle formazioni osovane a cui apparteneva il fratello (62).
Nel 1962, rispondendo a un lettore, scrive:
Credo che non ci sia nessun comunista che possa disapprovare l’operato del partigiano Guido Pasolini. Io sono orgoglioso di lui, ed è il ricordo di lui, della sua generosità, della sua passione, che mi obbliga a seguire la strada che seguo. Che la sua morte sia avvenuta così, in una situazione complessa e apparentemente difficile da giudicare, non mi dà nessuna esitazione. Mi conferma soltanto nella convinzione che nulla è semplice, nulla avviene senza complicazione e sofferenze: e che quello che conta soprattutto è la lucidità critica che distrugge le parole e le convenzioni, e va a fondo nelle cose, dentro la loro segreta e inalienabile verità (63).
Pasolini ci insegna, ancora oggi, che gli atti della Resistenza (anche nei loro aspetti più controversi, dolorosi e addirittura “criminali”) hanno senso solo se letti in un’ottica del tutto interna all’oggetto studiato, senza deragliare dalla verità dei fatti, ma neanche dal momento storico e dai suoi protagonisti tesi alla ricerca e all’istituzione di una nuova idea di giustizia e di libertà.
Orbene, e siamo al terzo aspetto interessante, Angelo Galante “Ciliti” è il fiero leader delle lotte agrarie, modello di Leon ne Il sogno di una cosa, un romanzo fondamentale per la costruzione di quel mito pasoliniano cui è più affezionata la sinistra erede del Partito comunista. Vale a dire quello della “migliore gioventù” cui sembra non sia lasciata altra scelta che quella di “andar sotto terra”, innocente e pulita com’è apparsa al mondo (64). Lino Argenton scrive che «il poeta fu spesso ospite nella casa dei Galante (65)» e già che c’è, riporta la testimonianza di Libera, la moglie di Angelo, che attribuisce a Pasolini la solita misteriosa “morosuta” che portava sulla canna della bicicletta per andare a ballare.
Sotto la superficie levigata e arcadica del romanzo si muovono e mormorano non solo le pulsioni sessuali, i desideri e piaceri insopprimibili “espulsi” dal romanzo ma presenti in tutta la loro urgenza nei contemporanei Amado mio e Atti impuri. Alla luce di quanto detto, possiamo vedere anche l’impasto di paura e dolore di cui sono fatte le vite dei singoli che sempre eccedono la lineare narrazione della storia di cui sono la carne e l’ossatura. L’idillio è impastato di storia, la natura incontaminata del mondo contadino non esiste, siamo imperfetti fin dall’inizio, perché fin dall’inizio siamo contaminati, sessuati, impauriti, desideranti, collocati in un corpo singolare e collettivo che porta una storia ereditata che vogliamo modificare, edificare e liberare.
A offuscare ancora di più la materia da cui è tratto Il sogno di una cosa le accuse di “titismo” che hanno attraversato il Partito quando Tito era considerato dall’Unione Sovietica e alleati un rinnegato al soldo degli Stati Uniti, accusato di “trotzkismo” e “fascismo”.
Il PCI si scatena e crea dei veri e propri dossier polizieschi in cui viene annotato ogni minimo elemento caratteriale e politico dei singoli militanti e ogni possibile “punto debole” su cui gli agenti di Tito avrebbero potuto fare leva. È anche l’occasione per rimettere in riga gruppi di ex partigiani poco allineati, “anarchici” e internazionalisti di ogni risma.
Tra i tre protagonisti del romanzo, Eligio, Milio e Nini, due emigrano per un breve periodo proprio in Jugoslavia per trovare il sogno di una cosa e cercare lavoro. Tornano delusi, ed Eligio dirà: «Il comunismo sarà bello, ormai ho questa idea, è l’avrò fino alla morte, ma questi cani…». Certo non sarebbero stati, lui e i suoi compagni, esclusi dai sospetti! Nella realtà, Francesco Lena, ex segretario della sezione di Ligugnana, viene definito proprio come «sospetto» (66) e la sezione stessa è nell’elenco di «alcuni focolai di provocazione che bisogna distruggere» segnalati come gruppi armati esistenti o possibili (67).
Nel romanzo di Pasolini non si fa nessun cenno a questa caccia alle streghe che lascerà i suoi feriti sulla strada, prima di tutto la verità, e che poi verrà cancellata da un cambio di linea così repentino che ci vuol tutta la faccia tosta e la sapienza di Mario Lizzero per fare l’ennesima autocritica (68). Sulla Jugoslavia e i rapporti del PCI con essa, in cui si inscrivono anche i fatti di Porzûs, e le posizioni autonomiste di Pasolini stesso viste con sospetto dal Partito, il mutismo che ha sempre conservato Pasolini è eloquente. Nel suo viaggio lungo le spiagge italiane scritto nel 1959 per la rivista «Successo», egli, arrivato a Trieste, scrive: «Non c’è Ferragosto in Jugoslavia? Non c’è estate? […] “Qui finisce l’Italia, finisce l’estate (69)».
Digressioni in forma di rosa
Disonesto, pederasta e obbiettivamente frazionista; disonesto e intrigante; irresponsabile e obbiettivamente frazionista; probabile titino; posizione non chiara e atteggiamento discutibile; elemento equivoco e sospetto; corrotto; truffatore; spia e disonesto; molto equivoco; delatore.
Mario Prevedello
Altro che Pasolini, ce n’è per tutti! E se sono donne non si resiste ai giudizi estetici (“piccola, bionda, grassa”) e ai più vieti luoghi comuni (“È una donna stramba, pettegola, ficcanaso, equivoca”). Alla stessa Teresina Degan, militante al di sopra di ogni sospetto, viene imputata la mancanza di »quell’equilibrio necessario ad un dirigente di masse». Nel 1950 nel Triveneto sono circa duecento gli schedati secondo le categorie sopra riportate e accanto a molti c’è scritto a mano il nome dell’informatore/delatore (70). Nell’elenco delle nefandezze che potevano essere affibbiate a un militante risalta fino all’esecrabile, per la odierna sensibilità, quella di omosessualità. Pensare che chi partecipava di questo orizzonte culturale potesse avere una posizione differente rispetto alla omosessualità è francamente non credibile. In ogni caso non c’è nessuna presa di posizione pubblica o riportata negli archivi o di testimonianza privata da parte dei militanti del PCI che metta in discussione che l’essere “pederasta” sia un crimine.
Compatite, compagni, al mio cuore e al mio canto;
se in queste tenebre gelide e ferme
non sospirai che le aurore tranquille e purpuree,
copritemi lo stesso nella vostra bandiera.
E di me ricordate
solo il giorno che per staccarmi ho voluto
dalle cose più dolci della vita,
e corsi dove il sangue delle prime ferite
bagnava il viottolo di una montagna.
E ti si udiva tra le siepi, o vento,
come un rumore di svelti arcolai.
Perché più non cantate, tenere nubi del cuore?
Fantasia,
perché non accendi il miracolo
d’un crepuscolo d’oro?
La commovente poesia (71) che cuce insieme l’essere singolare e quello collettivo senza voler sacrificare l’uno all’altro l’ha scritta in quegli stessi anni il «pederasta» ed «ideologicamente sfasato» Mario Prevedello (72). Questo il volgare giudizio sull’ex comandante partigiano e poeta di Treviso. Nella scheda che lo riguarda si dice che era stato accusato dai partigiani di essere «pederasta» e che «circola anche la voce che le sue lezioni private si siano ridotte a quasi nulla per la stessa ragione (73)». Chissà se Prevedello era a conoscenza delle gravi accuse che lo riguardavano, certo è che, a sua volta, era «categorico nell’affermare che Pesce è un agente dell’Intelligence Service (74)» e nel fornire informazioni su altri militanti. Siamo davvero in un ginepraio dove tutti controllano tutti in un avvitamento paranoico e poliziesco.
The Chairman
L’omofobia e l’idea che le persone omosessuali fossero infide, disoneste, ricattabili (forse l’unica cosa purtroppo vera) non era naturalmente una specialità italiana e veniva condivisa da tutti i Partiti comunisti, per primo quello sovietico. La storia dell’omosessualità in Unione Sovietica non è lineare come si potrebbe pensare e non è fatta solo di repressione sia prima che dopo la Rivoluzione e fino all’era Putin. È noto che subito dopo la Rivoluzione del ‘17 i diritti delle donne, dei singoli, della famiglia hanno avuto un breve momento di grande libertà, ma negli anni ’30 comincia una campagna sempre più pressante contro i diritti in genere e l’omosessualità. Prima ancora che vengano introdotte leggi specifiche per punire fino a cinque anni gli atti omosessuale consensuali, ci penserà l’aedo Maksim Gor’kij a gettarsi a capofitto nella polemica con il suo peso massimo scrivendo sulla «Pravda» e sull’ «Izvestia» satire sull’argomento che si concludevano virilmente così: «Distruggete l’omosessualità e il fascismo scomparirà».
In Estonia, allora Repubblica Sovietica, quindici anni dopo l’espulsione di Pasolini, nel 1964 il direttore di un kolkhoz, The Chairman, iscritto al PCUS, decorato della seconda guerra mondiale, cade in sospetto di essere omosessuale e in un attimo perde la tessera del partito, il lavoro, lo status, la famiglia, e infine la libertà con una condanna a un anno e mezzo di lavori forzati. Di lì a qualche anno la vita gli viene tolta da un ragazzo prostituto poco più che diciassettenne. La sua storia, tirata fuori dalla burocrazia e dalle carte processuali, è stata l’oggetto dell’installazione dell’artista Jaanus Samma nel padiglione dell’Estonia durante la Biennale Arte di Venezia del 2015 (75).
Chiunque di noi avrebbe potuto essere al posto di The Chairman, perché, come dice il poeta più caro a Pasolini, Sandro Penna: «Felice chi è diverso / essendo egli diverso. / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune». Anche in Unione Sovietica ci si poteva salvare pur essendo omosessuali, se si era famosi (76) o intoccabili, se si era discreti, se si aveva fortuna… In ogni caso non si doveva dire la verità su se stessi ed era tassativo tenere celato la propria propensione sessuale. Altrimenti la vita e la intimità del sospettato potevano passare tra i codici atroci e grotteschi della legge: lo svolgimento dei fatti, la visita medica che indagava sulla potenza o meno del soggetto a compiere un atto attivo di sodomia e giù giù fino letteralmente ai più intimi recessi, senza mancare la visita psichiatrica. Per inciso la psichiatria era l’unico ambito in cui fosse trattata l’omosessualità femminile, evidentemente un comportamento così aberrante da non meritare nemmeno il codice della legge.
L’installazione di Jaanus Samma mette in mostra reperti e incartamenti che s/compongono la vita di un uomo. Un’anatomia fredda e frammentata a differenza dei video iperdensi, morbosi e seduttivi cui lo spettatore rimane agganciato in una posizione fra il voyeuristico e la ripulsa. Se scorriamo i documenti che compongono la storia di The Chairman, pensiamo, con paura, che al suo posto avremmo potuto esserci noi; se guardiamo i video che mostrano il desiderio insopprimibile di The Chairman, pensiamo, con paura, che al suo posto avremmo voluto essere noi. La stessa attrazione morbosa che proviamo verso la sovraesposizione del corpo di Pasolini.
Da ognuno secondo la propria capacità e volontà di verità
Delle due fazioni, “pro” e “contro” l’espulsione di Pasolini dal Partito, rimangono a Pordenone due testimoni di seconda istanza, due donne che con l’età non hanno perso vivacità, intelligenza e grazia particolare. Ognuna sentinella, per la propria parte, della vulgata sulla vicenda a suo tempo presa in consegna e da cui non sono disposte o interessate a deragliare.
Rita
Rita Da Corte ha molto dello stile della cugina Teresina Degan (77). Esordisce dicendo che non le piace fare pettegolezzi. Conosceva Pasolini non direttamente ma frequentando le piazze e i comizi. Ricorda che lui interveniva e che sapeva il fatto suo (78).
Riguardo il fatto che fosse omosessuale, dice che si capiva, ma che nessuno ne parlava. Lei non ne ha mai parlato con Teresina. Dice: «Io giudico le persone da quel che pensano e se fanno o no del male, per il resto sono affari loro. Anche Teresina pensava così. Io non voglio sapere di pettegolezzi». Dice che Teresina le parlava del Partito (lascia intuire che se ne lamentasse) e anche della faccenda Pasolini, ma «lei non voleva saperne. Punto».
Sono andate al funerale di Pasolini insieme, lei, la Degan, il fratello di Teresina e sua sorella Alma Da Corte. Alla domanda su cosa abbia pensato della morte di Pasolini, risponde dicendo che non ha pensato niente, che sono cose che riguardano «gli importanti», quelli che decidono cosa si deve pensare. Con una certa ironia distaccata dice precisamente: «I sa loro cosa che noi dovemo pensar».
«Siamo andati al funerale di Pasolini perché lui pensava bene [sottinteso in modo giusto]». Sulla sua morte aggiunge che forse, dava fastidio a qualcuno. Cose che riguardano “loro”.
Incalzata precisa che «Pasolini aveva una disgrazia (se vogliamo chiamarla così) oppure una particolarità e non poteva farci niente. Bastava che non facesse male a nessuno». Secondo lei nel Partito allora c’era un’aspra lotta. Molti volevano essere considerati “intellettuali”, pensavano di essere più bravi degli altri e quindi questa “gelosia” ha influito nella decisione di far fuori Pasolini.
Precisa di essere atea da sempre e che, come Alma e Teresina, non vuole un funerale in chiesa. Anzi non vuole neanche una cerimonia e l’epigrafe.
Era iscritta al PCI da sempre per una sorta di tradizione famigliare. Lo erano sua madre e sua sorella (sindacalista di fabbrica e nel direttivo del Partito), ma lei – facendo la sarta – era più esterna e disinteressata. Le sue clienti democristiane sapevano che lei non andava in chiesa ma non se ne curavano. Aggiunge che durante la Resistenza, quando c’era la necessità di liberarsi, c’erano molti partigiani o comunque molti che si erano dati da fare, ma dopo in tanti si sono ritirati nel privato perché non sentivano più di essere necessari.
Per quanto riguarda i militanti del PCI ex partigiani, aggiunge che avevano tutti le loro ombre e lati oscuri. Di Galante ha un’opinione non molto entusiasta e sostiene che non era molto preparato. «Non era gran che».
Vive da sola con molti gatti. Sul piatto del suo impianto stereo il Boris Godunov di Musorgskij. Non dice una parola su Antonino Scaini, allora segretario del PCI pordenonese, né su Mario Lizzero, segretario della sezione di Udine.
Bruna
Bruna Feltrin (79) a ottant’anni è ancora una donna bellissima. Capelli candidi folti e lisci, un ovale perfetto, una bocca ben disegnata da cui il rossetto non sbava neanche nella più calda delle mattine estive; non si fa fatica ad immaginare quanto dovesse fare colpo quando era una ragazza e quanto deve essere stato eccitante ma al tempo stesso faticoso aver a che fare con tanta bellezza. Ha sposato Antonino Scaini, allora segretario della Federazione del PCI di Pordenone, di venti anni più vecchio, quando aveva sedici anni, nel 1952, qualche anno dopo la vicenda Pasolini.
Racconta che il marito le ha parlato subito della vicenda perché sentiva un magone per quel che era successo. Voleva sapere il suo parere o comunque condividere con lei una cosa che gli era costata. Bruna Feltrin sostiene con sicurezza che l’ordine era arrivato da Udine. Mario Lizzero in persona disse che o lo facevano a Pordenone o sarebbero venuti a farlo loro. Antonino Scaini ha obbedito per disciplina di partito. In Bruna c’è molto forte il senso della disciplina di partito, una cosa che le sembra così naturale da non averne probabilmente mai fatto questione. Difende la scelta del marito come inevitabile, non solo per obbedienza al Partito ma anche per l’enormità del fatto e il clamore suscitato dai comportamenti di Pasolini. Anzi, aggiunge, «ci ho ripensato e ne ho parlato anche con mio figlio e mia figlia e penso che, se quei fatti fossero successi ora, a Pasolini sarebbe andata molto peggio e forse sarebbe finito in carcere. Quella volta nessuno si occupava dei ragazzini. Non si diceva niente sulla pedofilia, a nessuno gliene importava. Ora non sarebbe così. Il mondo era quello, non sapevamo niente del sesso, fino a poco prima di sposarmi ero convinta che si potesse rimanere incinta con un bacio; eppure sono stata scomunicata nel mio paese, Caneva, perché ho sposato un comunista».
Racconta dei rapporti tra la famiglia degli Scaini e i Pasolini. «Un rapporto che risale molto indietro nel tempo», dice, mostrando una foto dell’agosto del 1915 dove il piccolissimo Antonino Scaini di cinque mesi se ne sta in braccio tutto ben vestito a Enrichetta Colussi, sorella di Susanna, madre del cugino Nico Naldini.
Questa Enrichetta imparava il lavoro di sarta nell’atelier della madre di Antonino Scaini ubicato in corso Vittorio Emanuele a Pordenone, nello stesso bel palazzo dove ancora vive il figlio di Bruna Feltrin. L’atelier di sartoria era importante e impiegava fino a trenta ragazze che dormivano nei locali del palazzo.
Tra le due famiglie si intrecciano anche storie amorose. Una sorella di Antonino per molti anni fu innamorata di uno dei parenti Pasolini. L’uomo era notoriamente un omosessuale e lei veniva presa in giro da tutti perché non lo capiva. Conservò le sue lettere per anni e le conosceva a memoria. Lo stesso Antonino ebbe una liaison con una parente di Pasolini prima di conoscere Bruna.
Si può ben capire quindi quanto sia costato a Scaini espellere Pier Paolo Pasolini dal PCI anche per i rapporti con la famiglia. Non lo vide più, ma continuò a incontrare di tanto in tanto la madre e gli altri parenti. E naturalmente andò al suo funerale.
Alla domanda sul perché Teresina Degan si sia opposta all’allontanamento di Pasolini dal PCI, Bruna Feltrin risponde decisa che la Degan lo fece perché ce l’aveva col Partito che non le riconosceva un ruolo più adeguato alle sue capacità. All’epoca il Partito era assolutamente maschilista e le donne potevano scordarsi di fare una carriera dentro il Partito. Teresina Degan provò a farla adottando lo stile maschile. «Era un maschio vestito da donna», dice Bruna Feltrin concordando con il lapsus calami del marito nella nota sopra riportata. Teresina Degan non era una femminista e, come non era a favore delle donne, non era neanche a favore dell’omosessualità e altre diversità, aggiunge.
Una punta di acredine e gelosia colora le parole di Bruna Feltrin che yuttavia non sono prive di fondamento.
Tutti d’accordo salvo uno
L’omosessualità non è più un tabù a patto che non se ne parli. Alla fine di questa ennesima piccola rivisitazione dei fatti e del clima politico e sociale, in cui si è data l’espulsione di Pasolini dal PCI, si arriva alla conclusione che tutti gli attori concordassero sul fatto che l’omosessualità di Pasolini dovesse restare una questione squisitamente privata. Lo pensavano nel 1949, lo pensano dopo la sua morte quando non ne fanno cenno, lo pensano ora. Lo stesso Pasolini ha sempre oscillato su questo punto. L’unica diatriba era su quanto lo scandalo potesse essere “sopportabile” per il Partito e quanto la vita privata del militante potesse essere difesa.
Nessuna riflessione viene fatta né da Teresina Degan né da altri esponenti del PCI locale, né allora né dopo, sulla omosessualità di Pasolini come questione centrale di una visione del corpo, del desiderio e dei loro intrecci con la militanza, la politica, la costruzione di una cultura nuova.
Le due posizioni – pro e contro l’espulsione dal PCI – oscillano tra quella classica comunista, dove il militante è del tutto annullato sulle esigenze collettive, e quella temperata dalle libertà borghesi dell’uomo privato. I ruoli di genere, sessuali, i rapporti di potere che li informano, non vengono mai messi in discussione né tantomeno ridisegnati e indagati come essenziali a una politica di liberazione.
Il corpo e il suo desiderio vengono sempre sublimati e la figura di Pasolini stesso viene “purificata”; il suo essere più profondo e autentico è respinto in una dimensione del tutto accessoria e secondaria, quasi fosse un “vizietto”, oppure è accolto nella sua dimensione sacrificale (80) o nell’ «immensa tragedia della violenza, comunque tipicamente fascista, che ha ucciso Pier Paolo Pasolini», di cui parlò Lizzero al suo funerale (81).
Le interviste agli amici e ai conoscenti di Pasolini a Casarsa concorrono a disegnare una figura idealizzata che mai si manifesta nella sua contraddittoria complessità. Se si può comprendere la prudenza personale degli intervistati, non si può non rilevare l’intenzione ideologica che informa, ad esempio, il libro di testimonianze La meglio gioventù (82) di Giuseppe Mariuz nelle sue diverse edizioni, in cui tutti gli intervistati, coralmente, concordano su una visione di Pasolini del tutto depurata dai suoi aspetti perturbanti, iscrivendolo totalmente nella dimensione del maestro e finanche dell’eroe. Chi si distacca da una visione di Pasolini incompleta e “a-corporale” di Pasolini sono lo scrittore Elio Bartolini, la musicista Pina Kalç e Silvana Mauri, cioè le persone che non sono oggetto dell’amore di Pasolini. Anche una rockstar come Davide Toffolo nel suo Intervista a Pasolini (83) sembra soccombere al moralismo predicatorio di Pasolini.
Colpisce poi che, nell’ansia di scoprire ogni minuta testimonianza sulla vita friulana di Pasolini, gli unici di cui non si sa nulla, se sono ancora vivi, dove sono finiti e cosa pensino, sono i tre ragazzi dai fatti di Ramuscello, quasi che aver avuto rapporti sessuali con Pasolini li avesse resi degli appestati.
Unico tra i protagonisti del periodo casarsese a ricordare sempre di cosa fosse impastata la figura di Pasolini è il cugino Nico Naldini che ancora in un’intervista rilasciata al «Messaggero Veneto» del 31 0ttobre 2015, a proposito delle celebrazioni per il quarantennale della morte, ribadisce:
(…) Temo invece che questo porti a una sorta di assuefazione al suo nome e ancora una volta attenzione sugli aspetti più esteriori della sua figura. Credo, inoltre, che tutto ciò sia basato sul sorvolare l’omosessualità che è il centro – lo ha detto lui – della sua vita e delle sue storie. Non l’omosessualità dell’odierno teatrino gay, bensì qualcosa di cui è impregnato l’intimo: è una concezione della vita che ha una sua base sessuale, in rapporti che si svolgono infinitamente, diventano la poesia di Archiloco, dei grandissimi poeti persiani… è un elemento dinamico che si colloca nel centro della personalità dell’individuo che si lascia affascinare dalla visione di un giovane, che di volta in volta è messaggero di un mondo di felicità irraggiungibile, deludente. Messaggero di realtà, non oggetto di consumo erotico.
Le parole di Nico Naldini indicano proprio quel rimosso che è il lascito più interessante della vicenda umana, politica e intellettuale di Pier Paolo Pasolini. Un aspetto che lo avvicina al femminismo più radicale e alla cultura queer (84), quelle esperienze e riflessioni che vanno oltre la rivendicazione dell’uguaglianza dei diritti formali e dell’emancipazione come unico orizzonte di liberazione possibile che lascia intatti i meccanismi di potere che informano le relazioni tra le persone e i gruppi sociali («l’odierno teatrino gay» di cui parla Naldini o le “quote rosa”). La stessa presa di posizione di Pasolini contro l’aborto (85), troppo spesso liquidata come indifendibile e imbarazzante, nella sua contraddittorietà aveva il pregio di mettere il dito sulla presunta normalità del rapporto eterossessuale e sull’anormalità conseguente delle altre forme e pratiche della sessualità e del piacere. Se c’è qualcosa da rimproverare a Pasolini sul tema dell’aborto, non è sicuramente questa sua provocazione, ma il fatto che dialoghi esclusivamente con il solito gruppo di riferimento, gli “autorizzati a parlare”, in un balletto di posizioni e reciproci “riconoscimenti”: Moravia, Natalia Ginzburg, Dacia Maraini, ecc., rifiutando ogni confronto con chi il pensiero femminista della differenza e dell’autocoscienza, quella critica degli istituti patriarcali e familiari lo andava facendo e praticando da molto tempo (86).
Fuori/dentro la grande famiglia
La vita di Pasolini e la sua opera sono state contraddistinte, in modo produttivo e aperto, dal contrasto e dall’opposizione (87), e forse la sua fortuna postuma risiede proprio nel fatto che la sua opera è una poderosa e caotica enciclopedia di citazioni e illuminazioni poetiche che si contraddicono. Non si può non constatare, però, che lui stesso non ha mai tratto le conseguenze intellettuali e politiche di ciò che potenzialmente esprimeva e non è mai uscito dal paradigma di pensiero e politico del Partito Comunista. Da questo punto di vista appartiene alla storia (finita) del ‘900 come quella dei partiti comunisti. Al tempo stesso, però, continua a parlarci e interrogarci proprio perché, ogni volta che parlava o scriveva, partiva da sé e “sporcava” l’ordine del discorso con l’urgenza della sua diversità, anche se, come sottolineava ogni volta, considerava quel che andava dicendo di se stesso come un fatto esclusivamente privato e non ne voleva sapere di chi cercava di portare il “privato” al centro del dibattito e della prassi politica.
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Note
1. Per i pochissimi che non conoscono ancora i fatti eccoli riassunti molto succintamente. Dopo una festa di paese in onore di Santa Sabina, a Ramuscello, nei pressi di Cordovado, Pasolini si apparta con tre ragazzi minorenni con i quali intrattiene rapporti sessuali. Ne seguiranno una denuncia, l’espulsione dal PCI, la perdita del posto di insegnamento e un cambiamento radicale nella vita di Pasolini che nel gennaio del 1950 decide di trasferirsi a Roma. Qualche anno dopo verrà assolto dal Tribunale di Pordenone.
I fatti sono ricostruiti in modo esemplare da M. Belpoliti, Gli atti impuri di Pier Paolo Pasolini, consultabile in rete a questo indirizzo:
http://isites.harvard.edu/fs/docs/icb.topic1210001.files/Belpoliti%20Pasolini.pdf.
2. A meno di essere smentiti da qualche documento inedito (il fondo Giulia Cumini) contenuto nella “cassapanca” di Pier Paolo Pasolini lasciata a Casarsa prima della fuga del poeta a Roma. Sul fondo lasciato alla Biblioteca Civica “V. Joppi” di Udine, cfr. http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/notizie/donazione-fondo-pasolini-alla-joppi-di-udine-rammarico-del-centro-studi-di-casarsa/
3. Cfr. Schwartz B.D., Requiem Pasolini, Marsilio, Venezia, 1975; Sicilian, E. Vita di Pasolini, Rizzoli, Milano, 1978, Naldini N., Pasolini, una vita, Einaudi, Torino, 1989; Belpoliti M., Pasolini in salsa piccante, Guanda, Parma, 2010; Aa. Vv., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, a cura di L. Betti, Garzanti, Milano, 1977. L’ultima ricostruzione ampia e documentata, che lega la vicenda al clima culturale e politico del dopoguerra, è contenuta nel libro di A. Tonelli Per indegnità morale. Il caso Pasolini nell’Italia del buon costume, Laterza, Bari, 2015.
4. Il materiale è talvolta relativo a periodi precedenti, ma si tratta soprattutto di quello raccolto negli anni in cui operò come responsabile della Sezione Quadri della Federazione Sergio Bortolutti, proveniente dal Partito Comunista di Trieste. L’archivio era stato conservato, fino alla sua morte nel 2012, da Mario Bettoli. Negli archivi locali compaiono, invece, Antonino Scaini, Teresina Degan, Mario Lizzero, … e una lunga serie di problemi e decisioni che affliggono il Partito, la vita di sezione, i rapporti con i militanti, con la popolazione, gli operai e la gestione delle lotte, e, soprattutto, le lotte tra partito e sindacato e i processi contro episodi della Resistenza. A questi problemi si aggiunge l’emorragia continua degli iscritti al Partito che emigrano a causa del peggioramento della situazione economica. Per non parlare delle denunce e degli arresti di un numero considerevole di militanti, e e del fatto che «ancora troppi compagni picchiano le mogli».
5.Antonino Scaini (Pordenone, 21 marzo 1915 – 19 agosto 1991), insegnante, commercialista, fu deputato per il PCI nella V legislatura.
6. «Il Bollettino» fa parte del Fondo Degan ed è conservato presso l’Archivio del Comune di Pordenone.
7. Per un ritratto di Teresina Degan e della sua militanza nel PCI cfr. Bettoli G., Teresina Degan. Prime idee per una biobibliografia, 2011, pubblicato sul sito
www.lastorialestoriepn.it http://www.stroiastoriepn.it/teresina-degan-pordenone-11-giugno-1926-4-giugno-2010-prime-idee-per-una-biobibliografia/. A Teresina Degan, pubblicista e preside, è stata intitolata la sala pubblica della Biblioteca Comunale di Pordenone.
8.Mario Lizzero detto “Andrea” (Mortegliano, 28 giugno 1913-Udine, 11 dicembre 1994) è stato un politico, partigiano garibaldino e antifascista, segretraio della Federazione del PCI di Venezia e del Friuli Venezia Giulia, deputato del PCI dal 1963 al 1976, uno dei pochissimi partigiani friulani diventato politico di alto livello e parlamentare. Nel 1948 Mario Lizzero diviene segretario regionale del PCI per il Friuli Venezia Giulia, composto allora dalle due federazioni di Udine e Gorizia, cui nel 1949 si aggiungerà la nuova Federazione di Pordenone. Secondo la sua autobiografia, Lizzero nel luglio 1949 viene mandato nella segreteria regionale del Veneto (“sovraordinata” a quella del Fvg), per farlo diventare segretario della Federazione di Venezia, cosa che avviene solo l’anno successivo. (Cfr. Mario Lizzero “Andrea”. Il suo impegno civile, politico e sociale, Udine, 1994, pp. 29-31). Vista la debolezza del Pci pordenonese e dei suoi quadri, accusati di “familismo” e “praticismo” a più riprese e da più parti, la figura e la direzione di Lizzero sono sempre presenti nelle questioni principali affrontate dal PCI locale. (Cfr. Fondazione Istituto Gramsci, Archivio PCI, 1949 – Pordenone – mf. 301 – pp. 1263/1416, sf. pp. 1282-1304). L’accusa di “familismo” è legata al fatto che il segretario della Federazione di Pordenone Antonino Scaini era parente di Mauro Scoccimarro (Udine, 30 ottobre 1895 – Roma, 2 gennaio 1972), dirigente comunista friulano di primissimo piano, condannato a venti anni di carcere nello stesso processo che vide condannati – tra gli altri – Gramsci e Terracini. Bruna Feltrin, vedova di Antonino Scaini, si dice sicurissima che la decisione sull’espulsione di Pasolini dal PCI è stata assunta da Lizzero. (cfr. la testimonianza riportata più avanti).
9. Aa.Vv., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano, 1977.
10. Uno dei datzebao scritti da Pasolini e affissi nella loggia di San Giovanni di Casarsa, contiene l’Appello ai cristiani per la pace. I manifesti murali, alcuni scritti in dialetto, sono conservati presso il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa.
11. «Voleva conoscere proprio da me –diceva-, in quanto commissario delle divisioni garibaldine, come fosse potuto accadere un delitto come quello che era stato commesso a Porzûs». A questo incontro seguirono altri nel 1948 e a Roma nel 1952 e 1953. La lunga testimonianza è pubblicata in Siciliano E., Vita di Pasolini, Rizzoli, Milano, 1978, p. 401.
12. Tonelli, cit.
13.Tonelli, cit., p. 82.
14. Cartolina postale di P.P. Pasolini a Ferdinando Mautino (Carlino) del 31 ottobre 1949, in Id., Lettere 1940-1954, Einaudi, Torino, 1986, p. 368.
15. Pasolini P.P., Il mio voto al PCI, 1975. Ma cfr. anche Il sogno del centauro, intervista di Pasolini a Jean Duflot in Id., Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1999.
16. In realtà nel 1949.
17. Pasolini: «Diverso come gli altri», in Id., Il sogno del centauro, cit., p. 1535.
18. Id., p. 1535.
19. L’articolo si può leggere in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, cit. Nell’articolo Pasolini rileva che la letteratura nata dopo la Resistenza è «di sinistra, ma non è ancora “nuova” in quanto linguisticamente è ancora prodotta da matrici letterarie, magari altissime, ma dal nostro punto di vista negative», p. 82.
20. Ibidem, p. 81.
21. L’intervento di Teresina Degan è tutto interno alla logica e alle necessità del PCI e delle sue politiche di alleanza con gli altri Partiti: alleanza con il Partito Socialista e isolamento per i socialdemocratici del PSLI di Saragat, «i traditori di ieri e di oggi». Il rafforzamento ideologico è uno sforzo assolutamente necessario per realizzare la politica del Partito in «ogni rione e in ogni fabbrica», per «essere la guida di ogni azione condotta dalla classe operaia», in definitiva per «saper condurre la lotta di classe, spostando le masse verso determinati obiettivi». Il mezzo è lo studio, individuale e nelle scuole quadri, la diffusione della stampa, ecc. Niente di più di quel che ci si può aspettare da una militante responsabile della Stampa e Propaganda di una piccola Sezione del PCI in una sperduta provincia. La perentorietà del dire e la precisione nell’indicare obiettivi e nemici non si aprono a nessuna originalità e problematicità del pensiero, ma riescono ad indicarci la accalorata simpatia militante di chi il discorso lo ha fatto: Teresina Degan, scherzosamente raccomandata, in altra parte del «Bollettino», di non usare la sua «mordace lingua». Una caratteristica, quella di avere un carattere veemente, che conserverà fino alla fine della sua vita.
22. «Compia pure anch’egli quell’esame introspettivo, interiore, diaristico che è poi la ginnastica vitale dell’uomo di pensiero, sia pure soprattutto e immensamente individuo, senza di che non è possibile essere artisti; ma cerchi di essere, in questo suo lavoro, più oggettivo e più diciamo pure, cristiano: si collochi nella storia umana», in Pasolini, cit. p. 84.
23. I due testi, ambientati durante e subito dopo la seconda guerra mondiale, si incentrano sulla scoperta della propria omosessualità da parte del protagonista e oscillano tra la forma diaristica e il passaggio alla terza persona.
24. In Pasolini, cit. p. 82.
25. Ibidem, p.82.
26. Corsivo di Ferdinando Mautino (Carlino) pubblicato su “l’Unità” del 29 ottobre 1949. Ora Gide non lo legge quasi più nessuno, ma allora era sulla bocca di tutti gli intellettuali comunisti. Una delle stroncature più note è quella di Togliatti che nel 1950 su «Rinascita», sotto il nom de plume di Roderigo di Castiglia, ne scrive: «Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti tra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l’assenza di partiti di opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e il relativo terrorismo, vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov’è specialista, ma lasciar queste cose, dove non ne capisce proprio niente».
27. In Pasolini, cit., p. 82.
28. «Ride nel mio occhio il Diavolo peccatore», in Pasolini, Poesie a Casarsa, 1942.
29. «Il Bollettino», op. cit., p.3.
30. Di Pasolini giocatore di calcio tutti sanno, e Teresina Degan amava molto gli sport. Cfr. http://www.storiastoriepn.it/teresina-degan-e-lo-sport-2/.
31. Pasolini, Lettere, cit., p. 367. Più affettuoso il tono delle lettere inviate da Pasolini, negli stessi giorni, a Antonio Faleschini della Società Filologica Friulana e a Ferdinando Mautino, funzionario di Udine che pure scrisse le famose righe pubblicate sull’”Unità” riportate sopra.
32. Nel gennaio 1951 l’esercito invia ai giovani congedati le cartoline rosa di preavviso di richiamo in servizio, provocando un salto di qualità nella tensione bellicista. La Cgil è uno dei pilastri del movimento antiatomico, con l’impegno dei suoi dirigenti, che sono in prima fila nel bruciare pubblicamente le cartoline rosa nelle piazze. Sono arrestati, e condannati dal Tribunale militare di Padova a detenzioni da 12 a 18 mesi, Vittorio Orenti (sindacalista della Federmezzadri), i partigiani Bruno Pagotto (Boris) e Ferruccio Brenelli, gli operai Enrico Battel e Attilio Cardin e il segretario della CdL di San Vito Alfio Guardabasso. G. Bettoli, La CGIL e il Friuli Venezia Giulia, pag. 81, in Bettoli G.L. e Zilli S., La CGIL e il Friuli Venezia Giulia 1906-2006, due voll., Cgil Friuli Venezia Giulia, Venezia-Mestre, 2006.
Si veda la testimonianza di Michele Tognoli (giovane amico di famiglia dei fratelli Degan) che riporta anche che Teresina Degan anni dopo pensò di chiedere a Pasolini di tenere una conferenza a Pordenone, ma di non essere riuscita nell’intento per ragioni organizzative e di tempo, e forse anche perché allora Pasolini, a Pordenone, era ancora un illustre sconosciuto e non avrebbe richiamato nessun pubblico. La testimonianza, riportata da Michele Tognoli non è priva di fondamento perché Pasolini in quegli anni tornò qualche volta in Friuli per seguire il processo che lo vedeva coinvolto o per trovare la famiglia. In particolare il 1° gennaio di quell’anno era a Chioggia, con il cugino Naldini, dove scontarono una notte in carcere per schiamazzi notturni dopo una notte brava e una storia di furti in cui erano coinvolti dei giovanissimi pescatori. Ne parla e riporta il verbale di polizia Francesco Permunian nel suo Il gabinetto del dottor Kafka, Nutrimenti edizioni, Roma, 2013.
33. Mariuz G., La meglio gioventù di Pasolini, Campanotto Ed., Udine, 2015, p. 26.
34. Tito Maniacco (1932-2010) poeta e scrittore udinese iscritto al PCI fino al 1985.
35. Si tratta della mostra Pier Paolo Pasolini in Friuli, a cura di Cinemazero e della Provincia di Pordenone, 1990
36. Gli amici più cari di Teresina Degan, in particolare due amici di famiglia molto più giovani di lei (Marco Rossi e Michele Tognoli), l’hanno sentita molte volte parlare di Pasolini e dei suoi rapporti con lui. In particolare, Rossi, quando gli racconto che nella biblioteca di Teresina Degan, c’era Vita di Pasolini di Siciliano con due piccolissime orecchiette nelle pagine dove lei viene citata, mi risponde, sorridendo, che Teresina era proprio così: pudica ma orgogliosa della sua parte nella vicenda. E, aggiunge, «sempre rispettosa di tutte le diversità».
37. Il titolo del romanzo originariamente era I giorni del Lodo De Gasperi, dal nome del provvedimento governativo con cui si fissava una mediazione nella vertenza che contrapponeva i mezzadri agli agrari in materia di suddivisione delle produzioni agricole e zootecniche. Le lotte furono molto dure, con scontri con la polizia, un alto numero di denunce e arresti. Il 17 novembre 1948, Angelo Galante viene arrestato. La sua persecuzione provoca un vasto movimento di protesta, con manifestazioni e lo sciopero generale in tutta la provincia, agitazione che dura fino alla liberazione di Galante dopo 45 giorni di carcere. Cfr. La CGIL e il Friuli Venezia Giulia, cit.
38. Cfr. “Cartella Fondo PCI-PN Ufficio quadri / La politica leninista verso i quadri del partito”, Archivio della Federazione del PCI di Pordenone, conservato presso La Casa del Popolo di Torre.
39. Marcel Cervin è in realtà Marcel Servin (1918-1968). Dal 1945 al 1952 ha la direzione dei quadri del PCF. Avrà anche lui i suoi guai nel PCF quando, dopo la fine dello stalinismo, attraverso l'”affaire Servin-Casanova”, perde la sua partita contro Thorez e dopo un’autocritica nel 1961 viene espulso dalla direzione del Partito.
40. Anche la grande lotta tra il Partito e la CGIL, per il controllo politico sulla direzione delle lotte, che lacera il PCI pordenonese fino almeno al 1954, quando la Camera del lavoro ne uscirà sconfitta e tutti i suoi principali rappresentanti, ex-partigiani, sostituiti da nuovi quadri, trova la sua giustificazione ideologica in questo documento, laddove si scrive che i quadri del partito che potevano andare bene per il periodo della Resistenza ma non era detto che fossero adatti quando il Partito non fosse più clandestino. «Nel passato, un dato compagno poteva avere tutti i requisiti necessari per essere un dirigente. Ma nel presente, se egli non si è sviluppato di pari passo con la vita, queste stesse qualità possono rivelarsi insufficienti, quando addirittura non si trasformano in difetti che ostacolano la messa in pratica della politica del Partito. In questo caso bisogna far avanzare altri militanti ed operare i necessari mutamenti se si vuole una buona applicazione della linea del Partito». Cfr. fonte nota 38, p.3.
41. Citazione da Stalin, Ivi, p.6.
42.Ivi, p.7.
43. Ivi, p.8.
44. Ivi, p.11.
45. Ibidem. «Mancato reclutamento» vuol dire anche problema finanziario, uno degli altri grandi nodi irrisolti del Partito.
46. Fondazione Istituto Gramsci, Archivio Pci, mf. 301, pp. 1282-1304, Federazione di Pordenone, Verbale della riunione del Comitato Federale del 18 giugno 1949.
47. cfr. 1949 – Pordenone – mf. 301 – pp. 1263/1416, sf. pp. 1282-1304.
48.. Questa l’interessante tesi di Gian Luigi Bettoli, secondo il quale ad aggravare la posizione di Pasolini e a far decidere per la sua espulsione dal Partito contribuiscono le sue posizioni autonomistiche sul Friuli. Pasolini si era allontanato dal Movimento Autonomista Friulano e da Gianfranco D’Aronco ma con un certo margine di ambiguità. Per una ricostruzione puntuale dei fatti e di quanto contassero nella politica comunista dell’epoca i rapporti sempre problematici con la vicina Jugoslavia, cfr. Bettoli G.L., ‘900 friulano antagonista, Genesi e sviluppo di un movimento operaio di frontiera, Pordenone, 2006, p. 71. La ricerca di Bettoli, purtroppo ancora in cerca di editore, si può consultare sul sito www.lastorialestorie.it.
Gianfranco D’Aronco, esponente di punta del Movimento Autonomista Friulano, nel 1980 ha scritto il libro Pasolini riveduto e corretto, dove risalta lo sforzo teso a ripristinare la figura del padre agli occhi di Pasolini e a smentire le dicerie sul cattivo rapporto tra i due. Misteri della scrittura.
49. In ogni caso, l’opera di archiviazione è iniziata dopo l’arrivo in Federazione di Sergio Bortolutti, alla fine del 1950; è quindi probabile che lo stesso abbia potuto raccogliere solo materiali disordinati, iniziando da quel momento in poi l’opera di archiviazione sistematica oggi in nostro possesso. Su Teresina Degan, invece, si conserva un fascicolo e in particolare una nota dattiloscritta su carta velina allegata con uno spillo alla biografia scritta dalla stessa Teresina il 29 marzo 1949, pochi mesi prima del Congresso di cui sopra.
Allegato alla biografia della compagno (sic) Degan Teresina
Intelligente, attiva e legata al Partito. Comprende bene e accetta la linea del Partito, ma nell’azione tendenzialmente portata a deviazioni estremiste e larvatamente bordighiste.
Violenta nella critica non sempre costruttiva e verso i compagni; manca di quell’equilibrio necessario ad un dirigente di masse. È comunque tra i migliori quadri femminili e può assolvere bene il lavoro di Stampa e Propaganda affidatele. Fa parte dell’esecutivo.
La Segreteria
(A. Scaini)
Il carattere di Teresina Degan c’è tutto, così come narrato da chiunque l’abbia conosciuta, e c’è anche la sua specifica generosità che di lì a poco si sarebbe manifestata nella difesa di Pasolini. Quella che Scaini chiama «mancanza di equilibrio» (o di cinismo stalinista se si preferisce).
50. Lo schema censorio del PCI «contempla 5 motivazioni per le insubordinazioni di tipo politico e morale (tradimento; indegnità politica e morale; indegnità politica e trotskista; attività disgregatrice e indegnità politica; frazionismo)». Cfr. Tonelli, cit., p.74 La seconda motivazione «indegnità politica e morale» è pressoché l’unica tra quelle presenti negli archivi citati.
51. Fu espulso con la stessa formula di Pasolini, indegnità morale e politica, 28 dicembre 1949, giusto qualche mese dopo. Si trattava di una storia di malversazione e guadagni illeciti che peserà nella sua futura carriera politica nel PCI locale. Fascicolo 153, Archivio, cit.
52. Fascicolo “Galante Angelo” in Archivio, cit.
53. Due sono i saggi dedicati alla figura di Angelo Galante. Uno del 1989, Argenton Lino, Angelo Galante (1920-1962). Biografia di un sindacalista di San Vito al Tagliamento, in Scf, XIX, n. 20, pp. 57-79, e uno del 1991, Vidal Luigi, Le lotte contadine del secondo dopoguerra fattore decisivo per lo sviluppo economico e sociale del Sanvitese, in Scf, XXI, n. 22, pp. 185-195. Tutti e due i saggi, dedicati a Angelo Galante, sono sfuggenti rispetto alla condotta tenuta da Galante quando era partigiano e si attengono ai fatti così come narrati nella sua prima autobiografia scritta per il PCI il 29 marzo del 1949: «Di fronte alla polizia avevo la persuasione di venire fucilato e quindi ero invaso da grande smarrimento. Mi mancava la forza di volontà in quanto credevo inutile mantenere il contegno fermo e deciso. Nessun nome ho fatto di compagni o Patrioti che abbia determinato arresti di altri compagni o patrioti». A questa autobiografia segue una seconda emendata di ogni riferimento alla propria condotta (racconta solo di essere stato in carcere fino alla liberazione) e una terza del 15 ottobre del 1954 in cui Galante, incalzato dal Partito, racconta in ogni particolare come andarono le cose. Questa terza biografia è supportata dalla testimonianza di un tedesco arrestato nel maggio del 1945 che aveva fatto da interprete durante gli interrogatori dei tre e che raccontò con precisione come si fossero svolti i fatti. Alla liberazione Galante venne chiamato dal proprio battaglione due volte per chiarire come si svolsero i fatti, ma, temendo di venir punito, la seconda volta non si presentò. Come scrive Mario Lizzero, ancora una volta protagonista dei fatti pordenonesi più spinosi, nella sua relazione del 25 settembre 1954 inviata al PCI nazionale e a Pellegrini, segretario Regionale del Veneto: «Qui sembrano cominciare le reticenze del compagno Galante». Doc. 1, cartella Angelo Galante, Archivio, cit.
Ai due saggi si aggiunge il più recente libro di Paolo Gaspari che della figura di Galante mette in luce l’aspetto umano e politico e il grande consenso popolare, ma tende ad “assolverlo” completamente facendone una semplice vittima della “disciplina di partito”, in primo luogo di Mario Bettoli e Mario Lizzero. «Per noi oggi è difficile pensare che le decisioni di alcuni ex capi partigiani diventati dirigenti del Partito Comunista potessero essere contrabbandate come scelte dei militanti. E così il personaggio più carismatico della sinistra friulana cadde sotto i colpi della “disciplina di partito” imposta dagli ex capi partigiani»: Gaspari P., Il sogno friulano di Pasolini. La vera storia de I giorni del lodo De Gasperi a San Vito al Tagliamento, Gaspari Editore, Udine, 2008, p. 137.
54. «Si propone che a questo compito sia designato il compagno Galante Angelo. Si conoscono i motivi del caso Galante; ma riteniamo che questo caso sia completamente superato. Egli ora non subisce più alcuna remora ed è più libero. I fatti stessi, approfonditi in seguito, si sono dimostrati meno gravi di come erano sembrati all’inizio. Con questa proposta il compagno Galante è d’accordo». Al Comitato federale del 6 novembre 19555 sono presenti tra gli altri Teresina Degan, Mario Lizzero e Luigi Vidal, uno dei due futuri biografi di Galante. cfr Fascicolo 13, cartella Galante, Archivio, cit.
55. Nel 1949 Galante venne inviato alla scuola quadri nazionale con una lettera (riservata) firmata da Rino Favot della Commissione Quadri che lo descrive così: «Nel corso di una lotta di mezzadri condotta con vigore nel Mandamento di San Vito al Tagliamento all’inizio del 1948, il compagno Galante ha rivelato le sue qualità di organizzatore, di animatore e di combattente. Dotato di acuto senso della massa, di facilità di parola e di giovanile entusiasmo riesce facilmente a rendersi popolare ed esercitare una notevole influenza fra le masse». Archivio, cit.
56.Ancora una volta si rinvia a Bettoli e al suo ‘900 friulano antagonista per una ricostruzione precisa e molto cinica della vicenda inquadrata nei rapporti tra le diverse organizzazioni del Movimento Operaio. «Il segretario della CdL è Angelo Galante, che si troverà a gestire, durante quell’anno terribile, [1954, ndr.] una durissima vertenza nella quale si giocano le sorti del Cotonificio Veneziano a Pordenone, e che avrà termine solo alla fine dell’anno. In questa situazione il PCI fa dimettere Galante, in un processo interno al partito che preconfeziona la decisione imposta alla Cgil, adducendo motivazioni risalenti ai tempi della guerra partigiana e già chiarite allora: i verbali testimoniano di come la pubblica accusa sia sostenuta da Mario Lizzero. Si tratta di una pesante intromissione nel sindacato, nel bel mezzo di una vertenza di rilievo nazionale. La CdL – secondo Vincenzo Marini – vuole mantenere la sua autonomia dal partito, il che appare intollerabile per un PCI che ha già un complesso di inferiorità nei confronti di un PSI più forte (anche se meno organizzato e combattivo) e non riesce più a tollerare l’autonomia dei suoi sindacalisti. Non si tratta peraltro di metodi del tutto nuovi: tre anni prima, nel settembre 1951, Francesco Spagnol, operaio del mobilificio Viotto di Sacile e segretario responsabile dal 1949 della Camera del Lavoro mandamentale (quella che ha guidato lo sciopero a rovescio del Cansiglio), viene costretto a dimettersi dopo uno scontro con i funzionari della federazione. Anche in quel caso, Spagnol rassegna le dimissioni da sindacalista al partito”. Bettoli, cit., p. 82.
57. Argenton, cit., nota 5, p.61.
58. Ibidem.
59. Ivi, p.78
60. Ibidem.
61. Fascicolo “Galante Angelo” in Archivio, cit.
62. Cfr. Pasolini, Ermes tra Musi e Porzûs e Mio fratello, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, cit.
63. Cfr. Mio fratello, cit.
64. Così succederà a uno dei protagonisti del romanzo, Eligio Pereisson, che «andato a lavorare a una cava, verso Cordovado, che gli succhiava il sangue e l’anima» ne morirà … La costante della morte come epilogo obbligato ai comunisti si ripete anche per il protagonista di Una vita violenta, appena diventa comunista. E, ancora, in Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’unico ragazzo che rompe la sottomissione e la connivenza delle vittime con il potere muore alzando il pugno e ridando così senso alla vita.
65. Argenton, cit., p. 57..
66. Questa la scheda che riguarda Francesco Lena in un lunghissimo rapporto firmato da M. Mazzetti e datato 25 febbraio 1950: Lena Francesco, di S. Vito (Pordenone). – Ex segretario della Sezione di Ligugnana (frazione di S. Vito). And. in Jugoslavia prima della Risoluzione. Contrariamente ai suoi altri paesani è rientrato soltanto in questi ultimi giorni. Si è recato in Sezione chiedendo la tessera del ’49 e quella del ’50. Nel frattempo tenta di vendere la sua piccola proprietà e ritornare poi in Jugoslavia. – Risulta che con taluni lontani da noi parla bene del titismo. – Non gli è stata rilasciata la tessera subordinando ciò ad altri accertamenti. 1950 – Veneto – mf. 324 – pp. 1987/2095, sf. pp. 1988-2062, Rapporti Mazzetti su Veneto e Venezia Giulia (problemi del titismo, ecc.).
67. Ibidem.
68.Loris Fortuna, presente alla riunione, mostra tutta la sua insofferenza per le intromissioni dell’URSS: «Prima ci hanno detto che Tito è un bandito, ora il contrario: senza una maggiore documentazione da vagliare e discutere, non possiamo esprimere dei giudizi». Sottofascicolo 31/7, pp. 2270-2274. 1924-1985 Loris Fortuna, partigiano e parlamentare di origine udinese, uscì dal PCI nel 1956 dopo i fatti di Ungheria aderendo al PSI. Il suo nome è legato alla legge sul divorzio.
69. Pasolini, Da Ventimiglia a Trieste, in Id., Romanzi e racconti 1946-1961, Mondadori, Milano, 1998.
70. 1950 – Veneto – mf. 324 – pp. 1987/2095, sf. pp. 1988-2062, Rapporti Mazzetti su Veneto e Venezia Giulia (problemi del titismo, ecc.).
71.Prevedello M., Dopo la luce rossa ed altre raccolte, Rebellato, Padova, 1961.
72.Mario Prevedello (Mestre 1897- Treviso 1976), partigiano, fu insegnante, poeta e scrittore.
73. La nota esatta recita: Prevedello Mario, di Treviso. – Professore delle scuole medie. Membro del Comitato Federale. – Ex comandante partigiano di primo piano nella zona. – Dopo la Liberazione è stato accusato da partigiani che lavoravano con lui di essere pederasta. Circola anche la voce che le sue lezioni private si siano ridotte a quasi nulla per la stessa ragione. – Animato da forte astio nei confronti del C.R.V. – Si è appropriato di denaro spettante ai partigiani. – Ambizioso. Ha fatto di tutto per essere candidato. – Intorno a lui si polarizzano parecchi partigiani malcontenti. – Ideologicamente sfasato. Si autodefinisce l’esponente della “tendenza di centro” della Federazione e sostiene la necessità di lottare contro la “destra”, la quale sarebbe capeggiata da Ghidetti. 1950 – Veneto – mf. 324 – pp. 1987/2095, sf. pp. 1988-2062, Rapporti Mazzetti su Veneto e Venezia Giulia (problemi del titismo, ecc.). Da notare che sul sito dell’ANPI, nella sua biografia ripulita di ogni nota negativa, si dice che «nelle elezioni del 1948 rifiutò la candidatura al Senato che gli era stata proposta dal PCI». Cfr. www.anpi.it.
74. Si tratta di Francesco Pesce “Milo” comandante della Divisione Garibaldi “Nannetti”, medaglia d’Argento della Resistenza e “Bronze star” del comando alleato, cosa quest’ultima che potrebbe dare ragione a Prevedello.
75. Moss K., “Male homosexuality in the Soviet Union”, in «NSFW Not Suitable for Work», Sternberg Press, 2015. Il catalogo della mostra fa anche un quadro della storia dell’omosessualità prima e dopo la rivoluzione del 1917. Contiene anche gli interrogatori, le perizie, i risultati delle visite mediche, gli articoli dei giornali e la condanna di The Chairman.
76.Cfr. il caso dei rumors sulla omosessualità del pianista Sviatoslav Richter che suonò ai funerali di Stalin. Ibidem.
77. Si riporta una conversazione del giugno 2015.
78. Sulla presenza di Pasolini ai comizi e alle feste dell’Unità nel biennio 1948-1949, cfr. Tonelli, A., cit., p. 31 e seguenti. In particolare Tonelli ricorda che l’ultimo intervento come oratore di Pasolini prima dello scandalo di Ramuscello sarà ad Ajello il 16 ottobre 1949.
79. Si riporta una conversazione del luglio 2015.
80. Cfr. l’affascinante tesi del pittore Giuseppe Zigaina che pensa la morte dell’amico Pasolini come una “messa in scena” consapevole organizzata ritualmente da lui stesso. A questa tesi si ispira Nicola Verlato nel suo grande affresco sui muri di un palazzo di Tor Pignattara a Roma e che si inscrive in un più vasto lavoro intitolato Hostia.
81.. La tesi del complotto politico sulla morte di Pasolini, perché troppo scomodo, riemerge periodicamente. Singolare, a proposito, ciò che Pasolini dice a proposito del pensiero paranoico sul complotto nell’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo: «Il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. È facile, è semplice, è la resistenza».
82. Cfr. anche Mariuz G., Per presentare gli antichi allievi, in Il maestro delle primule, atti del Convegno di Studi, Provincia di Pordenone, 1997.
83. Toffolo D., Intervista a Pasolini, Edizioni Biblioteca dell’immagine, Pordenone, 2002.
84. Queer, “bizzarro” “strambo”, è il termine inglese dispregiativo usato per indicare le persone omosessuali (un po’ come “frocio” in Italia). Come per altri termini dispregiativi la comunità di riferimento se ne riappropria cambiandolo di segno. Ora è un termine politico/culturale usato da chi rifiuta le tradizionali identità di genere e le rigide limitazioni della tradizionale interpretazione binaria dell’orientamento sessuale (omo/etero/bi-sessuale) e dell’identità di genere (maschio/femmina)
85. Pasolini, Sono contro l’aborto, «Corriere della Sera», 19 gennaio 1975, ora in Id., Scritti corsari.
86. Carla Lonzi (1931-1982), esponente di “Rivolta femminista”, intrattiene con il pensiero di Pasolini un confronto documentato in Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Et/al edizioni, 2010. In particolare scrisse a Pasolini una lunga lettera sull’aborto che venne ignorata e mai pubblicata sui giornali in cui avveniva il dibattito con gli interlocutori di Pasolini sull’aborto. In particolare la Lonzi risponde così a Pasolini che si lamentava del fatto che gli abortisti non avessero riflettuto su quel che lui andava scrivendo: «Io e le donne del gruppo femminista cui appartengo l’abbiamo fatto e abbiamo pubblicato gli scritti in proposito, che però sono passati completamente sotto silenzio. Gli abortisti, come li chiami, non hanno mostrato di prenderci in considerazione». E aggiunge di essere – pur favorevole all’aborto – d’accordo con Pasolini che lo vedeva come una tappa obbligata del patriarcato che si rinnova per sopravvivere.
87. Lo dice Pasolini stesso nella nota intervista del 1971 a Enzo Biagi, quando dichiara di prendere a prestito da Franco Fortini la figura della sineciosi (contraddizione) come caratteristica fondamentale della propria opera.