Con Fellini, Elsa Morante, Manganelli, Flaiano e tanti altri, c’è anche Pier Paolo Pasolini, ovviamente, tra le ombre letterarie e i ricordi di una vita militante che accompagnano il critico letterario Filippo La Porta nella passeggiata lungo le strade e le piazze di Roma: odiosamata città natale delle contraddizioni; città terminale e cimiteriale che però non muore mai; città bugiarda, illusoria, barocca, strafottente, ma di una bellezza inafferrabile che stordisce. Il risultato è un piccolo libro prezioso e disincantato, Roma è una bugia (Laterza, 2014), in cui La Porta conduce a spasso la sua malinconia di vagabondo raffinato, reduce da anni gloriosi ma ancora capace di stupirsi al suono di ogni residuale “Anvedi!”. E il lettore, anche non romano, con lui per 114 pagine che si leggono con emozione e si rileggono a ragion veduta, per riflettere su quella strana saggezza riconquistata che è l’arte del vivere.
Qui di seguito alcune recensioni.
www.sololibri.net / 12 giugno 2014
di Elisabetta Bolodo
Ho letto il titolo di alcuni dei capitoli che Filippo La Porta ha messo al suo libro Roma è una bugia (Laterza, 2014) e da romana non ho potuto che comprarlo e leggerlo subito. Mi sono piaciute molto alcune pagine, tutte le citazioni, la scansione del testo, le mappe personali dell’autore, anche se non mi sono riconosciuta in alcune delle parti che riguardano anche la mia vita.
Molto ben ricostruito il carattere dei romani, la psicologia di massa di chi ha già visto molto, quasi tutto, e il massimo di stupore si concentra nel trisillabo “Anvedi!”, difficile da spiegare ai non indigeni.
Roma non è razzista: “L’identità romana, come quella americana, era una costruzione artificiale, un’identità che si forma per consenso e non è legata al sangue, alle radici. Di qui anche la assimilazione di altre culture (…) Roma assomiglia a un lungo crepuscolo artico che si tinge di infiammati colori barocchi”. E via a citare infiniti nomi di scrittori che hanno raccontato la città anche se venivano da altrove: ecco Cristina Campo, Raffaele La Capria, Giorgio Manganelli, Ennio Flaiano, Pier Paolo Pasolini, Cesare Pavese, Tommaso Landolfi, Vitaliano Brancati e anche Gabriel Garcìa Màrquez, che soggiornò a Roma nel 1955.
Di questi, il più romano dei provinciali, Federico Fellini, che tra le varie espressioni locali predilige “Ma chi sei? Non sei nessuno”, unita all’espressione più vernacolare, nella quale è possibile davvero riconoscersi tutti: “sti cazzi“, che, afferma La Porta, denota indifferenza coniugata con stoicismo.
Nei capitoli centrali del libro l’autore parla dei quartieri nei quali ha abitato, cominciando dai Parioli, il luogo dell’infanzia e dell’adolescenza. La scuola media di via Boccioni, traversa di viale Parioli, oggi nota soprattutto per le baby prostitute, è stata anche la mia scuola. I Parioli sono “sempre stati assai più un luogo dell’immaginario piuttosto che un luogo reale e tangibile” e le critiche che vengono mosse all’intero quartiere oggi sono del tutto condivisibili; ma negli anni Sessanta, quando si andava al liceo, la vita di quartiere intorno al liceo Mameli è stata qualitativamente aggregante, mentre La Porta non cita la parrocchia dei Gesuiti in piazza Ungheria, dove si è svolta una ricca vita culturale impensabile ai giorni nostri. Molto del Sessantotto con la sua carica di rinnovamento del costume e dei rapporti con le istituzioni, scuola e famiglia soprattutto, ha avuto origine anche in quel quartiere.
Molto ricca di spunti la parte dedicata all’Aventino, con le sue stazioni e i suoi cimiteri, come se la città detta eterna vivesse molto anche del rapporto con i suoi defunti: a Roma, spiega l’autore, ci sono un numero grande di cimiteri, oltre al Verano, Prima Porta, Ostia Antica, Laurentino, il cimitero acattolico, i cimiteri militari. Sembra così lasciare intendere che una certa dimestichezza con la morte rende i romani più saggi di quanto non li avesse giudicati Leopardi nel suo infelice soggiorno in città: ”tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggiore dose di buon senso che il più savio e più grave Romano.”
Nelle pagine di Filippo La Porta sfilano le cosiddette borgate, San Basilio, Tor Pignattara, dove il giovane militante del gruppo del Manifesto andava a fare lavoro politico, come si chiamava allora il volontariato dei giovani borghesi che dai Parioli si spostavano in Fiat 500 per sensibilizzare un sottoproletariato senza coscienza politica che in realtà aspirava solo ad impossessarsi dei consumi, dai quali era fatalmente escluso, come deplorava Pasolini in quegli stessi anni.
Il libro si conclude con un’interessante disamina dei danni di un piano regolatore sbagliato, di quartieri costruiti da architetti incapaci di comprendere i reali desideri dei cittadini, mentre la città, afferma giustamente La Porta, non ha bisogno di grandi opere e di grandi architetti che lascino il loro personale “segno”, ma piuttosto di ordinaria manutenzione, perché la periferia romana è sterminata, “racchiude una miriade di microcosmi e costituisce la vera ossatura della città, ripiena di narrazioni, reali o potenziali“. Storie che ci ha raccontato in passato Pasolini, che ci raccontano ora Walter Siti o la fiction di Romanzo criminale.
Nel libro denso di citazioni e di protagonisti della vita culturale c’è molto di più: ci sono Moravia e Gadda, il Ghetto e il Raccordo Anulare, Mastroianni e Jepp Gambardella, Morante e Anna Maria Ortese, Jimi Hendrix, protagonista di un concerto al teatro Brancaccio nel 1968 davvero sovversivo, e i grandi artisti della seconda scuola romana, Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa, Mimmo Rotella, i caffè di Piazza del Popolo e quelli di Piazza Navona, troppo per essere racchiuso tutto in una narrazione, che lascia la voglia a me, lettrice romana, di ripensare con maggiore obiettività la città in cui vivo, quella che, afferma La Porta, “specchiandosi nella solennità della Storia, appare l’anticamera del “giudizio Universale”, con buona pace di Fellini e Sorrentino.
www.ilmanifesto.info / 18 giugno 2014
di Enzo Scadurra
Si può riuscire a rappresentare compiutamente Roma in tutta la sua complessità? Oppure essa è unica, un enigma, una illusione dei sensi, non clonabile, umorale, incurabile, irrappresentabile, non emendabile, non riformabile in nessun modo (proprio come la natura umana)? Filippo La Porta si aggiunge con questo suo libro (Roma è una bugia, Laterza) a quegli autori che provano a cogliere l’anima di questa indescrivibile città. Lo fa in una maniera insolita, originale, non rinunciando al suo ampio bagaglio di critico letterario e ben consapevole che seppure in molti – e famosi – si sono cimentati in questa prova, solo pochissimi di loro sono riusciti a svelare alcune delle sue maschere. Così, poco a poco, l’autore ci convince attraverso citazioni, descrizioni e immagini che alla fine Roma è come una bugia, un caleidoscopio illusionistico che produce una infinità di strutture attraverso un gioco di frammenti di vetro e specchi e nel quale ognuno trova ciò che vuole (tranne la verità, sembra affermare La Porta). «Tutto ciò che arriva qui – scrive nelle prime pagine — idee, fedi, ideologie, finisce, diventa rovine e archeologia, si devitalizza poco a poco … e però non smette di finire».
Nella prima parte del libro, la malìa di Roma ci viene raccontata attraverso le citazioni di scrittori famosi come Manganelli, Levi, Flaviano, Pasolini, Fellini, Brancati e perfino del piemontese Pavese e del colombiano Garcìa Marquez. Ognuno di loro ne svela una parte, illumina una delle sue facce e, al tempo stesso, ne nasconde altre come se questo racconto non dovesse e non potesse mai concludersi. Il carattere «contraddittorio» e trasformistico di Roma è il vero soggetto del libro. Impossibile fissarne un aspetto una volta per tutte. Roma è «Città di Dio», benché profondamente irreligiosa,e quanto al suo paesaggio, anche i colori producono continue illusioni ottiche: «il rosa laggiù, oltre il gasometro, andava cambiandosi in un arancione carico prima di venire inghiottito dall’avanzare di un violetto tramezzato di bluastro». Perfino i suoi abitanti non sono immuni da questo ossimoro: concretamente barocchi, come in quella messinscena così teatralmente romanesca del «Teneteme se no l’ammazzo».
Nella seconda parte, La Porta ci racconta a modo suo («la vita che abbiamo vissuto, così come il sogno che raccontiamo, non è quello che abbiamo sognato … la verità si inventa») i luoghi della sua formazione e della sua educazione sentimentale; attraversa biografie e destini individuali; si rivolge ad amici e persone care: «non basta esserci stati, occorre che almeno uno ti ascolti e ti riconosca» (non a caso il libro dell’autore di poco precedente a questo aveva il significativo titolo di Poesia dell’esperienza). Si parte dal quartiere natale: Piramide e Aventino per attraversare poi Piazza del Popolo e le sue memorie di incontri letterari nei caffè Rosati e Canova, soprattutto Elsa Morante che qui visse e Sandro Penna. E già nel nome della Piazza si scorge una bugia, esso non è infatti riferito a un «popolo», sembra invece derivante dalla presenza di un pioppo («populus»), così come le sue scenografie barocche ingannano spesso i sensi, nascondendo le parti più taroccate. Trastevere è l’occasione per stigmatizzare il carattere (anch’esso un po’ inventato) dello storico abitante romano descritto, con le parole di Levi, come «crudele senza cattiveria», «indifferente a gerarchie», «dispettoso senza odio». Al teatro Brancaccio di via Merulana il sessantottino La Porta «incontra» Jimi Hendrix scoprendo il carattere rivoluzionario della sua musica a ben soli due mesi di distanza dalla battaglia di Valle Giulia. In Campo de’ Fiori ricorda la morte annunciata di un suo carissimo amico avvenuta nel 2007. L’autore confessa di aver rivolto all’amico ancora in vita alcune parole di Kafka di cui, a quel tempo, non aveva compreso appieno il senso: «Nella lotta tra te e il mondo asseconda il mondo». Seguono tanti altri incontri di pezzi della memoria: i Parioli, il Liceo Nazareno, Monteverde Vecchio, San Basilio, Testaccio, Pietralata. Roma, conclude l’autore, è maestra nell’arte dell’addio, del congedo che si affina nelle pause, nei rinvii, nei suoi ritmi rallentati e indolenti. Ed è anche come una bugia perché simula una apocalisse sempre rinviata, perché offre un palcoscenico per qualsiasi parte, tranne che per essere se stessi.
Al termine di letture evocative e suggestive come questa, sollecitato anche dalla biografia dell’autore, mi chiedo sempre (forse per via di un antico vizio di militante comunista) che rapporto ci sia tra il fare politica e lo scrivere bei libri come questo. Perché avverto che un legame c’è anche se indiretto, nascosto. Forse parlare della natura umana, descrivere la sofferenza delle persone, cercare ascolto in qualcuno che ti legga e comprenda le tue ragioni, è un gesto politico e, in momenti come questo, magari quasi l’unico che ti è consentito. O forse la mia è una domanda sbagliata, un antico vizio di un vecchio militante, appunto.
www.cultura.studionews24.com / 7 luglio 2014
di Antonello Sacchetti
Terrazza Caffarelli, uno dei tetti più suggestivi di Roma, sera di fine giugno. Una festa privata ha per sfondo un tramonto lunghissimo, talmente bello da sembrare finto. La maggior parte degli invitati si sporge fuori, guarda la città che sembra quasi non emettere più suoni. Immobile, su un cornicione del palazzo, si staglia un gabbiano enorme. Sembra assolutamente indifferente alla voci e ai suoni che provengono dalla terrazza. In tanti lo osservano, qualcuno lo fotografa, ma lui rimane impassibile per un tempo imprecisato, quasi a rimarcare che quello è il suo territorio e gli intrusi siamo noi. Alla fine spicca il volo con aria scocciata, facendomi sentire un po’ cafone e piuttosto stupido.
Ecco, ci volevano quella serata e quel gabbiano per aiutarmi a “distillare” uno dei libri più belli che abbia letto negli ultimi anni, Roma è una bugia, di Filippo La Porta (Editori Laterza). La postura imperiale di quel gabbiano sintetizzava in modo incredibile uno dei passaggi più affascinanti del libro: «La bellezza metafisica di Roma è concepita per durare oltre il ciclo umano».
Più semplice da leggere che da raccontare, come libro. È un racconto personalissimo – e per questo universale – della città più narrata, descritta, evocata e analizzata della Storia. È dunque un libro ambizioso, per diretta ammissione dell’autore, ed è anche un libro molto originale. Perché il rischio del luogo comune, quando si parla di un tema così grande, lo corrono tutti.
Ed è tanto più rischioso proprio perché «Roma insegna che la vita è inevitabilmente fallimento», ma è anche vero che «mentre si fallisce possono succedere tante cose». E se per Flaiano vivere a Roma significa perdere la vita, La Porta ci ricorda che «vivere è soprattutto perdersi».
Città scuorante (Tommaso Landolfi), cioè scoraggiante, sconfortante; paludosa eppure vitale. Una «indifferenza calda» difficile da decifrare. La Porta ricorda la naturale attitudine del romano allo stupore, al meravigliarsi di fronte alla bellezza del mondo: «Anvedi…». Così come pure la propensione alla catastrofe: Carlo Levi che – appena arrivato a Roma – si stupisce di fronte all’idraulico che gli annuncia compiaciuto «Dottò, qua tocca rompe tutto…».
Tutto ciò che a Roma giunge (il cristianesimo, il risorgimento, la resistenza) in un certo senso finisce, perde la “spinta propulsiva”, “sbraca”, per dirla alla romana. Sì, tutto finisce, però non smette di finire. È un’apocalisse sempre rinviata.
Forse è per questo che io, che a Roma sono nato e ho sempre vissuto, provo per questa città una profonda, struggente malinconia. Ma non quando sono lontano da Roma, ma quando la attraverso in certe giornate terse, quando allungo volutamente la strada per godermi un minuto in più quella luce tra le sei e le sette del pomeriggio che nessun filtro di Instagram riuscirebbe mai a riprodurre. È mia quella luce, ma la sento sfuggire, sento che è una felicità passeggera, effimera. Ecco, a Roma «è eterno l’effimero»; come ricorda La Porta, nel XVII secolo lo spagnolo Francisco De Quevedo ha fotografato l’anima di questa città:
«Lo fugitivo permanece y dura»…
Il libro è anche un viaggio attraverso i quartieri della sua vita: Parioli, Monteverde, Piramide. Parioli, dove La Porta è cresciuto oggi è davvero un quartiere inospitale, sporco, scomodo. In cui i “padroni” delegano tutto ai filippini, forse «li mandano addirittura in chiesa a pregare al posto loro».
A Monteverde Vecchio, quartiere nel quale sono nato, sono ambientati alcuni dei passaggi più struggenti del libro. Perché questo è anche un omaggio a persone che non ci sono più e, in fondo, «tutta la scrittura è un’immensa Spoon River».
Roma è una bugia «perché mimetizza l’eternità dentro l’attimo» e «recita l’indifferenza nascondendo lo stupore» e perché «ha inventato (con enfasi sospetta) la Bocca della Verità». Eppure, dietro questa riflessione, La Porta coltiva una speranza tutt’altro che peregrina: quella di vedere nascere o rinascere uno spirito civico vero, autentico. E in questo la Roma delle borgate, delle scuole calcio di periferia, è la parte più vera, e in fondo più sana, di una società in cui a mancare in modo clamoroso è stata sempre la borghesia, «statua senza testa», incapace, ieri come oggi, di essere guida e modello.
La città può forse essere «scuorante», ma questo libro non lo è affatto. L’apocalisse può attendere, come sempre.
www.cronacadiunavitaintima.wordpress.com / 22 settembre
di Ornella Spagnulo
Roma è una bugia è un libro dedicato a luoghi, sentimenti e citazioni letterarie. Filippo La Porta ci porta a spasso per una città che fondamentalmente sente sua. Forse i tre traslochi, sempre interni alla capitale, gli hanno permesso di abbracciare la totalità di Roma – e non solo una parte. Il critico racconta infatti di avere abitato sia ai Parioli che a Monteverde vecchio, e in zona Piramide-Aventino.
Per chi non è romano, molte caratteristiche di questo enorme agglomerato possono spaventare. La grandezza, appunto, si può tradurre in dispersione; il menefreghismo dei romani, il loro modo di deridere tutti, la strafottenza e una certa superbia intrinseca scoraggiano gli ‘immigrati’, italiani o stranieri che siano: per fare pace con questo tipo di atteggiamenti la lettura di Roma è una bugia è vivamente consigliata. Il critico letterario spiega pazientemente ogni comportamento “spigoloso” e mette in luce gli aspetti positivi del romanaccio, come quel “rapporto di stupore verso il mondo”, che si traduce con l’espressione “Anvedi”.
Ma non è certo solo una guida attraverso i caratteri, questa di La Porta, anche se le psicologie ne prendono una parte. Come ogni buon libro su una città dovrebbe fare, Roma è una bugia è un tour guidato attraverso monumenti, centri d’interesse, quartieri e palazzi, non solo l’insieme dei punti nevralgici della città, quelli spiattellati un po’ dappertutto, che anche gli spagnoli o gli americani conoscono benissimo già prima di partire per Roma caput mundi. E insieme alla geografia, la letteratura va volentieri a braccetto in questi capitoli. Piazza del popolo, per esempio, la piazza dei pioppi, è descritta come la zona più frequentata dall’indimenticabile scrittrice Elsa Morante. Via Merulana non è solo la strada su Colle Oppio, ma l’indirizzo di un capolavoro di Carlo Emilio Gadda.
La cosa più bella, in tutto questo, è che l’autore non si nasconde. Quindi i romani, i luoghi mitici o meno conosciuti, gli scrittori che passarono o passano dalla capitale non servono a Filippo La Porta per mascherarsi, alzare muri, descrivere senza donare qualcosa di sé. Per questo Roma è una bugia non è una bugia, in fin dei conti. Anche il narratore compare in prima linea, e racconta le vicende della sua adolescenza, tra lotte sessantottine e momenti indimenticabili, come quando ha assistito al concerto di Jimi Hendrix.
E se “dalla finestrella rotonda del Pantheon piove una luce metafisica”, da Roma è una bugia piove la stessa luce. Una luce pronta a illuminare i tratti migliori e peggiori di un popolo orgoglioso, i particolari e la storia di certi posti meravigliosi, le frasi e le esperienze di autori che fanno parte della storia della letteratura e aneddoti e pensieri autentici di un critico che riesce ad analizzare una città come se fosse un romanzo. Allora sì, Roma è una bugia è una bugia come tutti i libri sono bugie, bugie parziali e quasi inesistenti che non riescono a nascondere le loro verità.