Non solo per i patiti del pallone, pubblichiamo un bell’articolo di Danilo Budite, romano e studente di lingue alla “Sapienza di Roma, con il sogno nel cassetto di diventare un giornalista sportivo. Il motivo dell’interesse del suo scritto è legato al fatto di risalire al lontano 1970, anno in cui si incrociarono tanti fatti: la riflessione di Pasolini sul valore rituale e sacro del calcio, il viaggio che lo scrittore compì allora per la prima volta in Brasile, la vittoria ai mondiali della squadra brasiliana del mitico Pelè che nella finale sconfisse l’Italia con un sonoro 4-1.
Episodi apparentemente diversi, che però il giovane analista sa collegare tra loro in un discorso organico, in cui il calcio “sacro” teorizzato da Pasolini trova la sua cornice reale nella drammatica storia politica del Brasile e lì si esalta davvero a qualcosa di più di un gioco e di un’evasione. (af)
Il calcio sacro, tra Pasolini e le contraddizioni del 1970 brasiliano
di Danilo Budite
www.numero-diez.com – 20 aprile 2017
Pier Paolo Pasolini, in un’intervista del 1970, definì il calcio come «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, è rito, anche se è evasione». Il fatto che uno degli intellettuali più influenti del ventesimo secolo esprima tali considerazioni su questo sport mostra come il calcio sia ben radicato e presente nelle coscienze delle persone. Pasolini attribuisce al gioco del pallone un valore che va al di là della semplice prestazione sportiva, un significato che lo rende centrale e influente nella vita quotidiana delle persone comuni. Il calcio è il linguaggio sacro del nostro tempo, è arte popolare e rito pagano. Questo sport ha ormai un’incidenza pressoché mondiale, ma assume un valore particolarmente importante in una zona del globo, una delle più povere, ma al contempo delle più calorose, che ha fatto del calcio una vera e propria ragione di vita.
Pasolini in Brasile
Sempre nel 1970 Pasolini intraprende uno dei suoi innumerevoli viaggi: la meta stavolta è Rio de Janeiro. Ad accompagnarlo c’è Maria Callas, attrice strettamente legata all’intellettuale italiano e protagonista del suo ultimo film: Medea. Tra i vari interessi di Pasolini in questo viaggio, un posto di rilievo è occupato certamente dall’osservazione della cultura calcistica brasiliana. Pier Paolo era infatti un grande patito di calcio. Egli stesso giocava, era un’ala velocissima, ed era un grande tifoso del Bologna. Lo scrittore ammirava tantissimo il futebol e considerava lo stile di gioco brasiliano diverso e per certi versi migliore rispetto a quello europeo.
Pasolini distingue due tipologie differenti di calcio: quello in prosa e quello in poesia. Il primo è tipico degli europei, basato su un gioco collettivo e organizzato, il sistema. Il secondo è tipico dei sudamericani, basato sul dribbling e sulla ricerca del gol. Il momento più poetico di tutti è quello del gol, in cui si crea una stretta empatica tra il calciatore e i suoi tifosi adoranti. Un rito, il tifo, che culmina nel momento catartico della segnatura. Il gol è il punto di arrivo dell’intero rito calcistico. Il dribbling anche per Pasolini è poesia e «i migliori dribblatori e facitori di gol al mondo» sono sicuramente i brasiliani. I più poetici insomma. Pier Paolo dunque arriva nel paese del calcio, della passione sfrenata per esso, della sua espressione più estetica, ma lo fa in uno dei momenti più bui della storia brasiliana, in cui l’unica luce è rappresentata proprio da un pallone che rotola.
Luce e buio
Nel 1964 il Brasile è campione del mondo in carica. Appena due anni prima infatti la Selecao aveva vinto il suo secondo titolo mondiale, battendo per 3-1 la Cecoslovacchia a Santiago del Cile. I verdeoro potevano vantare la squadra più forte del mondo e annoveravano tra le proprie fila il giocatore più forte del tempo e, forse, di sempre: Pelé. Così, mentre il Brasile si imponeva agli occhi del mondo esportando il proprio stile di gioco unico, quella ginga tanto derisa dai santoni europei, il paese stava per conoscere il più grande trauma della sua storia. Se infatti sul versante calcistico la situazione era ottimale, lo stesso non poteva dirsi del versante politico. Di lì a poco la situazione sarebbe precipitata tragicamente.
Il 1 aprile del 1964 un colpo di stato rovescia il governo dell’allora presidente Goulart, instaurando nel paese una ferrea dittatura militare. Il Brasile cade in uno stato deplorevole e gli anni che seguono sono i più bui della sua storia. Sono gli anni dei desaparecidos, della paura e della fame. Il mondiale del 1966 rappresenta una delusione enorme per la selezione verdeoro, che non riesce nemmeno a passare il girone, chiudendo terza alle spalle di Portogallo e Ungheria. Il mito del Brasile invincibile e della ginga inizia a sgretolarsi, mentre il popolo viene ogni giorno stremato dalla repressione.
1970: Contraddizioni
Torniamo ora al fatidico 1970. Nell’anno in cui Pasolini approda per la prima volta della sua vita nel continente sudamericano, il Brasile si gioca tutto nella coppa del mondo. Questa competizione per i brasiliani va decisamente oltre il semplice valore sportivo. Per il popolo è l’unica occasione di libertà, di provare gioia, di rallegrarsi. Per il governo è un’occasione irripetibile di trasmettere al mondo un’immagine vincente e idealizzata del paese. Per molti sembrerà inconcepibile dare un peso così enorme a una competizione sportiva, ma questi molti devono capire che il calcio in Brasile non è solo un gioco. Il calcio lì è vita, è principio e fine, è Dio. Chi non ci crede provi a tornare indietro al 16 luglio 1950, giorno del Maracanazo. A Rio il Brasile perde clamorosamente la finale del mondiale casalingo con l’Uruguay, e nel paese viene istituito il lutto nazionale. Il calcio è davvero vita.
Il Brasile arriva al mondiale del 1970 col dovere di riscattare la prestazione incolore di 4 anni prima in Inghilterra. Nonostante la delusione dell’edizione precedente, la selezione verdeoro era una delle squadre più temute e forti. A differenza del Brasile che vinse i mondiali nel 1958 e nel 1962, questa squadra era più organizzata e completa. Davanti al portiere Felix, la linea difensiva annoverava Carlos Alberto, uno dei più grandi terzini della storia brasiliana, Everaldo, Brito e il leader difensivo Piazza. Clodovaldo e Gerson erano i centrali di centrocampo, mentre sulle ali agivano devastanti Rivelino e Jairzinho. Davanti il bomber Tostao e la leggenda vivente Pelè. Il Brasile vince tutte le partite del suo girone, supera Uruguay e Perù e strapazza in finale l’Italia. 4-1 e festa nazionale, nonostante in patria ci fosse davvero poco da festeggiare.
Rito, religione ed evasione
Nel momento storico peggiore del paese, sotto la guida dallo spietato dittatore Medici, il Brasile vince il suo terzo titolo mondiale. Il risultato ottenuto in Messico fu un’occasione imperdibile per il governo brasiliano. Appena salito al potere Medici diede inizio ad una fase che doveva prevedere un aumento economico e una crescita industriale. Il governo puntava sull’entusiasmo del popolo, essenziale per il piano di sviluppo previsto, e sulla visibilità internazionale. Il mondiale vinto aiutò il governo brasiliano in questo senso, dando al popolo qualcosa per non pensare e mostrando al mondo l’immagine di un paese entusiasta e ottimista.
L’importanza assunta dal calcio in questo momento non è solo una questione culturale, ma è anche conseguenza di ciò che avviene nel paese. Il colpo di stato militare del 1964 è stato giustificato come reazione a una presunta minaccia comunista. Lo spettro rosso arriva anche in Brasile in questi anni e, come in Europa, una delle componenti per osteggiare il comunismo è la religione. Essa diventa così in Brasile un’imposizione, una pratica legata al regime e priva di libertà. Il rito religioso è da sempre una componente fondamentale per l’uomo, in ogni cultura. È un’esperienza talmente soggettiva che spesso rappresenta l’unico possedimento reale di un individuo. Tolta questa libertà, il popolo brasiliano ha dovuto cercare il rito e l’evasione da qualche altra parte, trovandola naturalmente nel calcio.
Un pallone che rotola in Brasile non ha lo stesso significato di un pallone che rotola a Londra. Capire perché un paese intero, in un momento storico drammatico, riesce ad andare avanti grazie ad 11 eroi che corrono avanti e indietro con un pallone tra le gambe non è facile. Il divario culturale tra europei e brasiliani è ampio e rispecchia la distanza tattica che Pasolini individuò tra calcio europeo e brasiliano. Il 1970 esemplifica questa differenza e dà un’immagine, anche se minima, di ciò che significa il calcio per i brasiliani. Rito, evasione, religione, vita, tutto quanto in una giocata, un dribbling, un gol. D’altronde, se uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo s’interessò così tanto al calcio, un motivo ci sarà.