Pubblichiamo la seconda parte dell’intervento del poeta Roberto Roversi, inserito la prima volta sul periodico militante friulano “Macchie” nel 1981 con il titolo L’ultimo Pasolini, preceduto dalla lettera inviata a Ermes Dorigo, all’epoca redattore della rivista.
Si ringraziano Ermes Dorigo e Elia Mioni per aver messo a disposizione questo testo.
Caro Dorigo,
chiedo scusa se il testo è un po’ “tempestato”, ma proprio prima di spedirlo l’ho riguardato ancora, con questi risultati. Propongo insieme, e rivisti, due scritti pubblicati in ‘sede locale’ e di ‘nessuna circolazione’ – perché rispondono a quanto ancora credo e perché vorrei che qualche altro – oltre i primi pochi lettori – li leggesse. Tutto il testo è troppo lungo? Si può togliere la parte seconda, aggiornando però le righe d’avvio.
Non tengo copia del testo.
Un cordiale saluto e auguri di buon lavoro
Roversi
L’ultimo Pasolini
Roberto Roversi
Che cos’è che rende così stimolanti, cosi irritanti, spesso anche così deludenti ma comunque per lo più importanti (alcune volte molto importanti) e soprattutto diversi nella tensione che li muove, gli interventi di Pasolini pubblicati sul settimanale II Mondo e sul quotidiano II Corriere della Sera?
Rispondo: la qualità diversa, il genere, l’impasto della disperazione; che è unica, cosi in pubblico e non moralistica, nella sua funzione di stimolo e di frusta. Ma non una disperazione esistenziale (che coinvolge di solito l’individuo e lo trascina via come un relitto sfumato); invece la disperazione della ragione.
Questa disperazione non è per cose, fatti, persone, avvenimenti, strutture perdute (anche se può sembrare); non ci sento questo struggimento fisico e malanno di cuore. A mio giudizio la disperazione della ragione è per la difficoltà caparbia e la volontà tutta tesa di capire le “enormi” novità che sconquassavano la nostra società; novità che stanno per venire, che ormai ci pesano addosso.
La proiezione di Pasolini, il suo ingorgo tragico e immondo che comunque lo pone al centro dell’attuale dibattito “sulle” idee, è appunto questa travolgente disposizione “in avanti”. È naturale: incespica, cade in continuazione ma sale; si irrita, contraddice, impreca, ma parla,- mentre gli altri si muovono e ascoltano, o soltanto ripetono. La novità balbettante e turbata ma forsennata e dinamica di Pasolini si contrappone alla ripetitività senza rischio dei suoi aulici o troppo grezzi contraddittori. Inoltre la sua fantasia ideologica, frenetica nella precipitazione di riuscire ad annunciare i fili dei nuovi ideogrammi, scarica in continuazione rifiuti, macerie, ma insieme offre lo stimolo unico di “rivisitazioni” culturali, approfondimenti, diversificazioni e identificazioni di novità. Spezza un sistema di segni che si riteneva codificato; ripropone – sia pure come un uomo straziato non dagli incubi ma dalla volontà di intendere – altre domande che non devono lasciarci più tranquilli a riposare.
Ritengo un errore (e una occasione mancata) che la cultura italiana, quella che conta, non accetti la provocazione di Pasolini e resti invece legata al beneplacito di un dubbio ragionevole, al sorriso condiscendente o all’argomentazione professorale che è ormai scontata. Pasolini ha riproposto con una concitazione che è anche furore un dibattito sulle cose “a venire” e non un “lamento” sulle cose che si disfanno e scompaiono. Ritengo che non volesse trattenere nulla, anzi. Sbaglia (secondo me) chi si riferisce, anche con intelligenza, a un preraffaellismo; sbaglia chi propone l’identificazione con un reazionario avvolto in una disperazione calcolata, o un conservatore che si bagna nel mare della memoria storica. Per capire l’ultimo Pasolini basterebbe rileggere quel libro grande e giusto che è “Le ceneri di Gramsci”. Nessun neorealismo, nessun misticismo grondante sperma, nessun canovismo frigido; ma già allora, profondo, l’istinto di precedere — magari di un passo soltanto — la realtà che si forma; di essere un attimo avanti per giocarsi tutto (anche la vita) in quell’attimo in cui si intravvede il cuore delle nuove idee e in cui tutto può ancora accadere. Un istante frenetico, in cui il gelo si mescola al calore e in cui la disperazione vera è vita vera.
Nei suoi ultimi tempi Pasolini ha concorso, a suo modo, a ridefinire il fascismo come ideologia; a ridefinire la DC come nuovo fascismo di questa ideologia; è passato dall’ossessione di un consumismo da commiserare al discorso, tutto nuovo nella esemplificazione, del “nuovo modo di produzione”, certo: attraverso errori anche banali o errori irritanti o taluni sconsiderati fraintendimenti; ma con questa disposizione totale e questa integrità intellettuale di cui è giusto dargli atto.
Infatti su “Il Mondo” del 30 ottobre 75 riprendeva con concitazione la richiesta, formulata sempre più ansiosamente nei mesi passati e nelle ultime settimane, di essere aiutato a capire; d’essere comunque discusso e contraddetto; ma di non essere lasciato solo, relegato al margine da una sentenza di indifferenza o di tolleranza snobistica, sempre con ironia, come si fa con uno dichiarato fuori misura.
Scriveva “Io sono più di due anni che cerco di spiegarli e volgarizzarli questi perché. E sono fortemente indignato per il silenzio che mi ha sempre circondato. Si è fatto solo il processo a un mio indimostrabile refoulement cattolico. Nessuno è intervenuto ad aiutarmi ad andare avanti e ad approfondire i miei tentativi di spiegazione. Ora, è il silenzio che è cattolico “.
Poi la vita di Pasolini si è conclusa, con una esecuzione: e la fotografia di quel corpo massacrato e straziato, lì per terra, adesso gira il mondo. Un odio teleologico ha fatto tacere una bocca che parlava.
Nel suo ultimo anno Pasolini aveva riacquistato quella formidabile tenera aspra lucidità onnicomprensiva che gli era un tempo caratteristica; una tensione culturale così stimolante nella direzione dell’invenzione ideologica e dell’aggressione con strumenti diversi dalla realtà (da lui recuperata con ricognizioni sempre nuove, a cerchi sempre più concentrici e stretti, stimolanti soprattutto nel senso dei reperti e delle indicazioni) da appaiare — come ho detto — questo suo momento all’altro, ormai definito e sembrava ineguagliabile, che l’aveva condotto a comporre e concludere “Le Ceneri di Gramsci”.
Così, a confermare un destino straordinario i suoi ultimi pensieri, scavano nel vivo di questa realtà, si riannodano agli inizi di un lavoro culturale di straordinario vigore.
A pagina 157 del volume che raccoglie i suoi ultimi “Scritti Corsari” si legge, ripetuta con evidenza, una conclusione alla quale di continuo ogni intervento stimolava: “per inerzia, per pigrizia, per inconsapevolezza – per il fatale dovere di adempiersi coerentemente — molti intellettuali come me e Calvino rischiano di essere superati da una sorta di reale che li ingiallisce di colpo, trasformandoli nelle statue di cera di se stessi… il potere non è più difatti clerico-fascista, non è più repressivo. Non possiamo più usare contro di esso gli argomenti a cui ci eravamo quasi affezionati e tanto abituati — che tanto abbiamo adoperato contro il potere clericofascista, contro il potere repressivo. …Il nuovo potere… si è valso delle nostre sconsacrazioni per liberarsi di un passato che, con tutte le sue atroci e idiote sconsacrazioni, non gli serviva più”. Questa citazione esemplifica la densità degli interventi di Pasolini corsivista, cioè di Pasolini politico, confermando il suo trapasso di campo, il salto di qualità interpretativa da lui compiuto, e di cui era, con l’angoscia dell’isolamento, consapevole.
Il discorso sul potere diverso, che è il potere nuovo; il discorso non più sul ruolo “nuovo “ma sul “nessun “ruolo affidato all’intellettuale che si ponga fuori della politica e che, quindi, mantenga innaffiata la vecchia diaspora, che tanto serve e tanto rincuora, di politica e letteratura, di politica e cultura, ecc. – insomma tutto riducibile agli orizzonti stremati di una cultura in disuso; l’urgenza ribadita, come stimolo non rimandabile per dar respiro e vigore nonché rigore al dibattito, per renderlo più utile e più giusto nel senso della correzione di errori e distorsioni; e l’urgenza di chiamare in causa tutti gli altri, di invitarli a parlare, a discutere; per concludere: “quanto alla mia opinione non aspetto altro che mi si convinca che è sbagliata” (142).
Ma al suo pensare “fondo”, al suo procedere e cercare, al suo rivolgersi e chiamare nella direzione di problemi affrontati e discussi con una novità e aggressività argomentativa sconosciuta da noi, come si rispondeva? Così, su “Paese Sera” di giovedì 23 ottobre: “con i suoi patetici rimpianti, i suoi crudeli paradossi, Pasolini finisce per fare soltanto della cattiva letteratura “. Dunque non politica, ma letteratura: non sondaggi a viso aperto e a mano nuda nel reale ma ancora e sempre espressività, fantasia, umori, estri. Cioè un qualche puro divertimento, una qualche pura mistificazione. E proprio mentre fra le sollecitazioni stimolanti dell’ultimo Pasolini c’era quella di ricominciare a pensare (e a pensare sulla realtà, cioè politicamente) prima di scrivere.
Tutti dunque l’abbiamo lasciato morire solo, in un modo che è politico. E adesso lo rimpiangiamo in un modo che è letterario. O privato.
[Rievocazione di Pier Paolo Pasolini scritta a pochi giorni dalla sua morte da Roberto Roversi e pubblicata dal periodico friulano «Macchie», Udine, marzo 1981, II parte]