L’origine è la meta. Il mito del ritorno in Pier Paolo Pasolini
Aldo Riccadonna, 2 giugno 2013
Io, Es e Super-io: questa era la visione freudiana fino al 1920, anno di nascita di Al di là del principio di piacere, e già dal titolo si scopre un ripensamento della precedente teoria. La novità è che contro il principio di piacere non esiste solo il principio di realtà. Ma è una novità che Freud, in mancanza di riscontri empirici, assegna al campo della speculazione e dell’ipotesi.
In alcune nevrosi Freud dice di aver scoperto una “coazione a ripetere”, cioè una tendenza a ripetere esperienze dolorose del passato. E questa tendenza è operante anche nei soggetti cosiddetti sani. Questa coazione si afferma contro il principio di piacere, infatti vi si riportano alla luce esperienze dolorose. Eppure “pare che la coazione a ripetere e un soddisfacimento pulsionale direttamente piacevole vi si intreccino nel modo più stretto”[1]. Questa coazione a ripetere sarebbe, secondo Freud, più originaria e più pulsionale del principio di piacere di cui non tiene alcun conto: appunto “al di là del principio di piacere”. La coazione a ripetere sembra quindi un ambito che è al di là del principio di piacere, un ambito che inerisce a qualche epoca precedente alla comparsa di tale principio. Ma anche le pulsioni di piacere mirano a riaffermare uno stato precedente di stabilità, mentre il dispiacere sarebbe il perturbamento prodotto dall’esterno e che mina la costanza dell’organismo.
Tutte le pulsioni tendono a ripristinare uno stato di cose precedente. Freud pensa di essere sulle tracce di una proprietà universale delle pulsioni: “Una pulsione sarebbe dunque una spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente al quale l’organismo ha dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno”[2]. Cambiamento e sviluppo sono illusioni; gli esseri viventi hanno una natura conservatrice.
L’organismo elementare non avrebbe mai inteso cambiare il suo stato iniziale; se le circostanze esterne fossero rimaste le stesse non avrebbe fatto niente di più che ripetere costantemente lo stesso corso di vita. […] Sarebbe in contraddizione con la natura conservatrice delle pulsioni se il fine dell’esistenza fosse il raggiungimento di uno stato mai attinto prima. Al contrario, si deve trattare di una situazione antica, di partenza, che l’essere vivente abbandonò e a cui cerca di ritornare, al termine di tutte le tortuose vie del suo sviluppo. Se possiamo considerare come un fatto sperimentale assolutamente certo e senza eccezioni che ogni essere vivente muore (ritorna allo stato inorganico) per motivi interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte, e, considerando le cose a ritroso, che gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi [3].
Freud parte dalla “coazione a ripetere” scoperta in alcune nevrosi e la prende come esempio guida della tendenza in tutte le pulsioni a riaffermare uno stato primigenio, distrutto da eventi esterni. Anche le pulsioni di piacere intendono ristabilire un’armonia perduta. Il progresso è per Freud illusione. Rimangono sul campo le due pulsioni di vita e di morte: la vita è sorta misteriosamente e da allora continua a ricrearsi, cioè a ripristinare se stessa; la morte è quello stato primigenio che intende catturare la vita e riportarla al suo stato naturale, come se la vita fosse un incidente malaugurato ed incomprensibile. La più universale aspirazione di tutti gli esseri viventi è quella di ritornare alla quiete del mondo inorganico.
Pasolini ha molto a che vedere con una simile posizione. Nell’epilogo del film Edipo Re Pasolini fa tornare il cieco Edipo, dopo i suoi viaggi raminghi, al prato antico dell’infanzia:
E qui si ferma. Era tutto qui, quello che egli cercava, nella sua tenebra?
È il sublime angolo folto dei salici, argentei, rustici e selvaggi, che lasciano cadere i loro rami sull’acqua che se ne va lenta. Il luogo dove per la prima volta, gli occhi di Edipo distinsero e riconobbero la madre.
Su quest’immagine, animata da un lieve, antico e inenarrabile vento, scoppia la musica del motivo da cui essa trae, subito, un senso sconvolgente – una ripetizione, un ritorno – un’immobilità originale nel muoversi vano del tempo – la misteriosa musica del tempo infantile – il canto d’amore profetico – che è prima e dopo il destino – la fonte di ogni cosa [4].
Nel film (non nella sceneggiatura) Edipo dice: “O luce, che non vedo più, che prima eri stata in qualche modo mia, ora mi illumini per l’ultima volta. Sono tornato. La vita finisce dove comincia.” Siamo immersi nella ciclicità della cultura contadina, col ritorno al grembo materno (simboleggiato dal prato dell’infanzia). La ciclicità contadina viene affiancata alla ciclicità della vita, al desiderio del ritorno al grembo materno, del ritorno all’inorganico, alla morte. C’è la nostalgia di una totalità perduta, quella dell’unità con il corpo della madre, un desiderio regressivo del ritorno all’infanzia sua e dell’umanità. Ripetizione, ritorno, immobilità: l’infanzia è l’ultimo stadio della felicità panica dell’immobilità. Qui Edipo (Pasolini) torna dopo aver cercato la verità, prima in se stesso e poi nella storia, ma tutto ciò era inganno, tutto ciò si svolgeva nel tempo, sia il destino di Edipo che la storia, ma il tempo ha un movimento vano. Il canto d’amore è prima e dopo il destino e la storia; il canto d’amore è la verità che cercava Edipo.
Pasolini vuole esaltare l’innocenza contadina non contaminata dalla storia e dal pensiero borghese rivolto sempre al futuro; invece è il presente ad essere vissuto dalle classi astoriche, perché esse vivono in un eterno presente. Esse non conoscono la storia, ma vivono ciclicamente. Edipo è simbolo della vita inconsapevole che si scontra con la realtà angosciosa del principio di realtà. È l’innocenza di chi non ha avuto ancora l’obbligo di conoscere, di chi vive nella preistoria. Ma tale innocenza non esclude la colpevolezza inconscia freudiana. L’Edipo di Pasolini (che si stacca da quello intellettuale di Sofocle), nella tensione del “non voler sapere”, assembla l’istanza freudiana della rimozione inconscia con il mito della cultura contadina che vive fuori della storia nell’incoscienza del tempo.
Pasolini visse molti periodi dell’infanzia, adolescenza e giovinezza in Friuli, che era per lui un paese ideale, quasi fuori dello spazio e del tempo, “una specie di sentimentale e poetica Provenza” [5]. Le corse in bicicletta, le feste paesane, i balli, gli incontri coi fanciulli contadini, le ubriacature, i bagni nel fiume, le osterie, le chiacchierate allegre nelle stalle prima di andare a dormire: tutte immagini amalgamate a un tempo che si è fermato a una fase arcaica; “Nei monti carnici disboscati dalla fame, nei torrentacci scheletrici, nei paesi immoti in un commovente odore di letame, la vita popolare tiene racchiuso in sé come il senso di uno stato umano assoluto”[6]. Il Friuli contadino appare col suo alone mitico e magico della statica perfezione, e qui si situa la vicenda dell’infante Pier Paolo, altrettanto mitica e magica. Le due astoricità, quella contadina e quella dell’infanzia, sono indissolubilmente compenetrate.
Mitica immobilità, che scaturisce dalle immagini agresti come la polenta, i buoi, la campana: ad esempio in Tornant al paìs (Tornando al paese) scritta tra il 1941 e 43, il poeta dice che il suo viaggio è finito là dove “si vif quiès e muàrs \ coma n’aga ch’a passa \ scunussuda enfra i bars (si vive quieti e morti \ come un’acqua che passa \ sconosciuta tra le siepi)” [7].
Come i contadini vivono sconosciuti e incoscienti, in quanto elementi della natura, così essi non conoscono un passato ed il loro tempo è senza giorni. Nei figli si ricompone identico il già accaduto, “coma s’al fos nòuf il timp antic \ dai vecius (come se fosse nuovo il tempo antico \ dei vecchi)” [8]: tema sempre ricorrente in Pasolini, base di tutta la sua Weltanschauung.
La perdita dell’infanzia, insidiata e distrutta dall’età adulta, è vissuta dal poeta in modo drammatico. La morte è sempre morbosamente presente in Pasolini, ed anche la morte della giovinezza viene celebrata con un mesto canto di addio rivolto dall’adulto verso se stesso fanciullo, ormai dileguato, che ora conosce “l’orrendo momento \ l’ultimo respiro” [9]. Questo spirito tremante vorrebbe ancora donare all’adulto un sorriso e non vuole rassegnarsi al silenzio che lo reclama e diventare una larva o un sogno sbiadito.
Quando Pasolini lascia per sempre il Friuli fuggendo verso Roma, è ormai prigioniero della nostalgia di un giorno morto ed assoluto, tramontato assieme alla giovinezza tutta immedesimata con una terra arcaica, dunque sempre giovane. Le due giovinezze potevano fiorire solo accomunate. Ora ronzano ancora le sagre nelle orecchie, ma come fossero le orecchie di un altro. I giorni del Friuli non sono andati perduti, ma sono divenuti di un altro, di un altro se stesso. Il Friuli ora vive sconosciuto, serrato dentro la gioventù, un tempo mitico e atemporale, “di là dal timp (al di là del tempo)” [10]: è qui racchiuso, tesoro nella luce per sempre viva, ma ormai inaccessibile. Ancora gli giungono gli odori nell’aria mattutina, “odori di campagne d’altri anni”, nei quali “la vita famigliare \ è immersa nel suo senso inconsapevole, \ e assoluto” [11]. È il passato che bussa sommesso e forse indifferente nella sua perfezione, lacerato tra un grido di disperazione proveniente dalla sua tomba e l’anelito verso l’ambito della meta-vita: la perfezione è solo un punto lontano, al quale non si tende, perché non è sulla nostra strada; è un punto lontano, ma dall’altra parte, alle nostre spalle, a cui volgiamo lo sguardo pieno solo di nostalgia. Forse nell’infanzia lo abbiamo toccato per l’ultima volta, ma senza accorgercene, perché non avevamo un altro punto di confronto: la perfezione l’abbiamo perduta per sempre nell’atto della nascita? È questo il significato recondito (ma forse non troppo recondito) che Pasolini vuole esprimerci? Quel tempo è morto, eppure “quel tempo è sempre” [12], l’unico vero nostro tempo, nostro alter ego, nostro doppio che ci scorre parallelo senza poterlo mai più accarezzare, e che si specchia nella sua\nostra ombra.
Non mi sento del tutto staccato dalle acque primordiali del ventre materno, ma pur sempre escluso da un’esistenza in cui regnava la plenitudine di un paradiso definitivamente perduto[13].
Spesse volte sogno di essere dentro il mare, nelle profondità che si dicono «abissali»: il mio nuotare, lì dentro, è un lento e capriccioso volare senza ali, proprio come quello dei pesci: e il paesaggio, per così dire, che mi vedo intorno, cioè le distese fluttuanti di acqua, ora filtrate da luci saettanti, ora riempite da luminosità diffuse e continue, mi dà un profondo senso di felicità. Quanto a respirare, poi, lì in fondo al mare, respiro magnificamente: anzi, la leggerezza del mio respirare è uno degli elementi del grande piacere che provo a stare lì dentro. Non c’è sogno più chiaro e assoluto di questo: si tratta di un regresso all’utero e alle sue acque, alla meravigliosa condizione prenatale «marina» [14].
Edipo nel film pasolininano dice: “la vita finisce dove comincia” e il film si chiude sul prato verde, lo stesso prato dell’inizio quando il bambino era con la madre. Il prato simboleggia la madre, lo stato prenatale.
Il giovane Pasolini sperimenta con dolore il tempo che passa. Il dolore è così pressante che il dileguamento del presente viene anticipato già con l’occhio del futuro, come già morto. “Oh nostalgia \ del tempo presente! Amici, con voi cammino, \ e già tremate, larve, in fondo alla memoria” [15]: questi versi si riferiscono al tempo precedente alla fuga verso Roma, in cui Pasolini, finite le vacanze estive, deve lasciare Casarsa per tornare a Bologna. L’autunno fa cadere le foglie, i campi sono ormai grigi, il paese nella neve e nel freddo non potrà essere assaporato dal poeta. Ma il senso è più profondo: è la giovinezza che, a poco a poco, se ne va, assieme a un’altra estate vissuta nell’Arcadia friulana, lasciando in eredità al poeta l’angosciosa coscienza di essere sul punto terminale di un’età dell’oro. Poi ci sarà solo il rimpianto.
In tutta l’epopea sottoproletaria (ma anche nelle poesie friulane) aleggia la presenza incombente della morte. Muore Marcello all’ospedale ed anche Genesio alla fine di Ragazzi di vita, muoiono Accattone e Tommaso, ed anche in Mamma Roma e ne Il sogno di una cosa ci sono giovani che muoiono. La crescita, l’inserimento nel mondo degli adulti corrompe gli ideali giovanili, danneggia l’innocenza originaria dell’uomo: sembra dire Pasolini che se il destino dell’adulto è la perdita della vitalità e della libertà, è meglio la morte giovane.
In Adorno natura arcaica, infanzia ed arte sono accomunati in quanto disvelatori dell’utopia. Oggi siamo di fronte all’ “umiliante alternativa […] alla quale il tardo capitalismo mette segretamente tutti i suoi sudditi: diventare un adulto come tutti gli altri o restare un bambino” [16].
«Rien faire comme une bête», giacere sull’acqua e guardare tranquillamente il cielo, «essere e nient’altro, senz’altra determinazione e realizzazione», potrebbero sostituire processo, azione e compimento, e adempiere così sul serio alla promessa della logica dialettica, di sfociare nella propria origine. Tra i concetti astratti, nessuno si avvicina all’utopia realizzata più di quello della pace perpetua” [17].
Riguardo alla promessa della dialettica di sfociare nella propria origine, Adorno, in quanto marxista, fa sua la visione di Marx (o meglio di Engels) sulle tre grandi fasi della storia. Ci fu un tempo il comunismo primitivo, la fase originaria della storia umana, in cui la scarsa popolazione poteva usufruire, senza lavorare e per soddisfare pochi bisogni, dell’abbondanza di prodotti che la natura elargiva. A questa fase segue la storia delle lotte di classe, la nascita del potere e dello sfruttamento. Infine il comunismo, questa volta scientifico, avrebbe ripristinato quel comunismo primitivo, ma in una forma superiore (è chiaro l’influsso hegeliano in tutto questo). La forma superiore è basata sull’acquisizione delle conquiste che l’umanità ha ottenuto tramite la storia, ad esempio la grande industria capace di soddisfare i bisogni molto più avanzati di quelli primitivi, o le scoperte scientifiche capaci di abolire le malattie, le inondazioni, la siccità ecc., a cui erano invece soggetti i primitivi. Tali conquiste, secondo Marx ed Engels, furono possibili solo tramite la storia delle lotte di classe, perché, ad esempio, solo allo scopo dell’arricchimento alcuni escogitarono l’industrializzazione, che in assenza di quell’incentivo non sarebbe esistita. Ovviamente nel futuro comunismo si sarebbe operata la comunanza dei mezzi di produzione, che invece durante la storia erano proprietà di alcuni.
Secondo Adorno quindi nostalgia, afflizione per il passato e utopia del futuro sono legati. La natura è ciò che noi fummo e ciò che torneremo ad essere. Tra i due poli, tra l’innocenza arcaica e naturale e quella futura, si estende la desolazione dell’Aufklärung, l’odissea civilizzatrice e illuministica. I due poli si rispecchiano e si richiamano. L’infanzia accende dentro noi la nostalgia della natura arcaica; così la storia umana non deve dimenticare questa innocenza. Ciò che appare ingenuo e naturale ci rende coscienti delle nostre mutilazioni, e ci fa presagire la conciliazione futura: è una sua promessa. Nella natura arcaica non esisteva opposizione tra individuo, società e natura; la storia opera la rottura di questa originaria unità ed armonia. Nella consapevolezza della schiavitù, l’attrazione verso ciò che non esiste più coincide con lo slancio verso ciò che non esiste ancora, di cui non possiamo però averne una definizione positiva, non possiamo prefigurarlo. Per Adorno, tramite il disincantamento scientifico della natura, è impossibile un rapporto diretto con la vita e la tradizione. La natura viene spogliata del mistero e ridotta a oggetto di utilità e calcolo. Comunque Adorno non pensa a un “ritorno” alla natura arcaica, bensì auspica che l’Aufklärung concluda il suo corso civilizzatore e quindi si eclissi, lasciandoci in eredità le sue vittorie sulla miseria (pagate con secoli di schiavitù e orrori). La natura redentrice si colloca alla fine della storia, e non all’inizio. Là si raggiungerà la “pace perpetua”.
Pasolini vede in ogni mutamento un allontanamento dalla perfetta staticità dell’infanzia e del passato. Nella poesia Il pianto della scavatrice il poeta assiste sconvolto allo sventramento di vecchi quartieri per fare posto alle nuove e moderne costruzioni: siamo negli anni ’50, l’epoca del boom economico. Mentre la scavatrice sgretola e distrugge senza meta, “un urlo improvviso, umano, / nasce”, “urlo che solo chi è morente, / nell’ultimo istante, può gettare”. A gridare è la scavatrice, “ma, insieme, il fresco / sterro sconvolto”, “tutto il quartiere… È la città,” “è il mondo. Piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, / chiuso in un decoro ch’è rancore”. Piange ciò che muta, anche / per farsi migliore. La luce / del futuro non cessa un solo istante / di ferirci: è qui, che brucia / in ogni nostro atto quotidiano, / angoscia anche nella fiducia / che ci dà vita” [18].
L’urlo pazzo di dolore è umano, pur provenendo dal fresco sterro sconvolto, dalla scavatrice, dal quartiere, dalla città, da tutto il mondo. Sono i luoghi che l’uomo aveva voluto così, che ricalcavano la sua vita e la sua cultura, facevano parte del mondo umano nei loro lineamenti quasi umani. C’era questa simbiosi in cui tutto l’esistente viveva in una solidarietà e comunione, che sembravano eterne. Per questo il loro urlo è umano, è una cultura umana che viene sradicata. L’area erbosa, l’aperto spiazzo, libero per tutti, zona franca e selvaggia, retaggio dell’antica cultura contadina, diventa un cortile bianco, amorfo e anonimo, chiuso in un decoro borghese. Non più l’antica comunanza che si esprimeva anche negli spazi aperti, dove i bambini giocavano e gli adulti parlavano; ora, invece, al loro posto, ci saranno steccati ben squadrati, ove annida il rancore, il sospetto, la solitudine, con affissa e ben visibile l’insegna di proprietà privata e di divieto di passaggio. Le case costruite con muri storti (intonachi sghembi) erano come una vecchia fiera caotica, anarchica e piena di vita. Ora, ci sarà qui l’ordine del nuovo isolato coi suoi rapporti umani freddi ad instaurarvi uno spento dolore. Questo mutamento è dolore anche quando si va verso il meglio. Il futuro ci ferisce continuamente, la speranza e la fiducia sono indissolubilmente avvinghiate all’angoscia della perdita. Anche la fiducia che ci dà vita, la lotta degli operai col loro rosso straccio di speranza, non mitiga la disperazione e la nostalgia.
Il passato, ormai, non parlerà più ai nuovi abitanti del mondo che potranno fare a meno di interpretarlo, perché partiranno da zero. Per essi il passato sarà solo una curiosità da chiudere nel museo o da riattivare falsamente a scopi turistici. Al contrario di Adorno, in Pasolini c’è il desiderio del ritorno all’arcaico.
Si è visto sopra come Pasolini abbia una visione storica su cui basa tutte le sue analisi. È una storia intesa in senso marxista. Eppure si è visto anche come la cultura contadina, in Pasolini, sia estranea alla storia. Come conciliare queste due posizioni conflittuali? Tra filosofia della storia e astoricità contadina, Pasolini vive come scisso in due sfere incomunicanti e questo “scandalo del contraddirmi” lo espone esplicitamente nel 1954 e lo vivrà per tutta la vita. Là, nel cimitero dove riposano le ceneri di Gramsci, Pasolini dice che si accinge ad accogliere i suoi insegnamenti “tra speranza \ e vecchia sfiducia” [19]: Gramsci gli ha insegnato a scindere il mondo in borghesia e proletariato ed alla prima Pasolini riserva rancore e disprezzo. Eppure il poeta non sceglie, amando il mondo che odia.
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra d’azione –
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta [20].
Gramsci (il marxismo) ha insegnato a Pasolini come la società sia divisa in classi, eppure egli non sceglie! Non sceglie la coscienza storica che vorrebbe eliminare quel mondo creato dalla borghesia, perché ama questo mondo nella sua povertà, dove fiorisce la cultura contadina e sottoproletaria. Il mondo della povertà è il frutto del dominio borghese e delle altre classi dominanti precedenti. Il comunismo vuole eliminare questa miseria, ma per Pasolini il popolo è vero e puro solo se rimane nell’incoscienza astorica e nella povertà, là dove si è più vicini al mistero della vita non incrostata dai bisogni della civiltà. Quindi Pasolini ama questo mondo creato dalla borghesia. La fine della miseria porterebbe il popolo a divenire borghese, a perdere cioè la sua cultura fatta di austerità, di pochi bisogni, di vita animalesca, sensuale, vergine. Gramsci ha certo ragione a voler abolire sfruttamento e miseria – eppure ha torto perché ciò sarebbe l’eclissi della cultura popolare. Sia ben chiaro che Pasolini non ama la borghesia (anzi, la odia), ma ama il mondo che essa e tutti i potenti antecedenti per motivi di interesse hanno creato: solo in questo mondo il popolo primitivo ha potuto mantenersi incontaminato, a causa (per merito!) del dominio a cui è stato soggetto.
Pasolini si sente un traditore del paterno stato (la borghesia: il padre era un piccolo borghese) nel pensiero e nell’azione, eppure vi è attaccato nella sua estetica passione, una eredità borghese. Con te nel cuore, in luce: con Gramsci, con la storia, nella luce della ragione. Contro te nelle buie viscere: nelle radici borghesi. Attratto da una vita proletaria a te anteriore: anteriore alla storia ed alla coscienza, delle quali è manifestazione la lotta di emancipazione verso il comunismo. È alla sua natura ed allegria che Pasolini si rivolge, cioè alla sua ontologia astorica. Il mito del popolo vergine non intaccato dalla civiltà è un mito che gli deriva dal suo essere un intellettuale borghese, che vede nel popolo animale un alter ego nostalgico ed irraggiungibile, o meglio che si può raggiungere solo tramite l’estetica passione borghese.
Quindi, da un lato Pasolini sente che il mondo contadino è salvo solo se al potere c’è la borghesia o le classi dominati precedenti – da un altro lato ammette di fare parte della borghesia e di volere intatto il mondo contadino perché l’intellettuale borghese ha l’estetica passione. Questi versi si possono interpretare in ambedue tali maniere.
L’eredità borghese è simboleggiata da un altro morto, la cui tomba è nello stesso cimitero di Roma: il poeta inglese Shelley, che elude la vita immergendosi nella “carnale \ gioia dell’avventura, estetica \ e puerile”[21]. In questo cimitero vi sono accomunate le due istanze di Pasolini stesso, la coscienza e la passione estetica, due anime non dialettiche. Pasolini le ha proiettate nei due illustri ospiti. Ma dietro l’estetica passione borghese, oppure più in profondità, c’è in Pasolini la nostalgia di uno stato perfetto, qui simboleggiato dal popolo animale ed altrove dal grembo materno.
Eredità borghese è anche la coscienza storica, di cui l’intellettuale si sente investito. “Ma come io possiedo la storia, / essa mi possiede; ne sono illuminato: / ma a che serve la luce?” [22] In quanto intellettuale borghese, anche se diseredato, Pasolini possiede, ma non denaro, come i borghesi ortodossi, bensì la storia, cioè la coscienza storica, che infatti non può essere fatta propria dalle classi subalterne, in quanto esse sono appunto estranee alla storia. Ma ritorna subito la contraddizione: questo esaltante possesso milita contro la staticità del mondo astorico. E nel vuoto della storia il popolo irrompe:
Non vita, ma sopravvivenza
– forse più lieta della vita – come
d’un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione
che per l’operare quotidiano [23].
Se è giunta la luce (la coscienza storica), sembra gravida solo di sogni, mentre la realtà sta nella vita: “ecco che tu ti accorgi che sogni” [24], se ti immergi nella storia, ed invece rimani ancora attaccato al mistero sensuale della vita, e scompare ogni vergogna “di non essere – nel sentimento – / al punto in cui il mondo si rinnova” [25]. La storia vuole uccidere l’atemporalità della sensualità, che viene associata a quella del mondo astorico, ma è proprio là che il poeta cerca se stesso. “È necessità il capire / e il fare: il credersi volti / al meglio”, “Eppure qualche cosa è più / forte del nostro ardore empio”, “E ci trascina indietro, al fresco, / all’arso tempo, al tempo vano, / assordato dalle vane feste / dell’umile gente, al tempo umano, / al tempo allegramente terrestre” [26]. Al rinnovarsi del tempo in cui un ardore empio ci spinge al meglio, a scordare i morti, e non ci concede respiro, viene contrapposto il tempo umano, vano, terrestre: quasi che il primo non fosse il tempo della vita, appunto il meta-tempo della storia, una corsa sfrenata che ci affascina e ci attira e insieme ci violenta in un’ambivalenza irrisolvibile. È l’umile gente che vive il tempo umano, nelle sue vane feste, nella sua allegria, nella sua incoscienza [27].
Parmenide affermò l’identità del punto d’inizio col punto di arrivo, e dunque negò il divenire e il tempo: “Per me è uguale da qualunque punto cominci: poiché là tornerò di nuovo” [28].
Come in Freud, la vita (la maturazione, l’evoluzione ecc.) sembra un incidente che impedisce all’organismo di rimanere nella pace inorganica, così in Pasolini la storia (la maturazione, l’evoluzione ecc.) ha distrutto la mitica pace atemporale della preistoria umana. Non è un caso che sia in Freud che in Pasolini il progresso sia un’idea illusoria. In Pasolini il tempo astorico (eterno, immobile) legato alla ciclicità contadina è metafora del tempo prenatale: la storia è la nascita, la fuoriuscita dal ventre della natura-madre. E Pasolini sogna il ritorno all’immobilità.
Come con l’arcaicità contadina, così Pasolini intende rimanere “Pari, sempre pari con l’inespresso, \ all’origine di quello che io sono”. L’evoluzione è solo decadimento e ansiosa nostalgia. Ciò che “si esprime” (che si tramuta, che avanza) esce dalla mitica assolutezza. Solo l’origine può essere la meta.
Adulto? Mai – mai, come l’esistenza
che non matura – resta sempre acerba,
di splendido giorno in splendido giorno –
io non posso che restare fedele
alla stupenda monotonia del mistero.
[…]
Pari, sempre pari con l’inespresso,
all’origine di quello che io sono[29].
—
[1] Sigmund Freud, Jenseits des Lustprinzips, 1920 (tr. it. di Anna Maria Marietti, Al di là del principio di piacere, Torino, Boringhieri, 1975, p. 40).
[2] Ivi, pp. 60-61.
[3] Ivi, pp. 62-63.
[4] P.P.P., Edipo Re, Milano, Garzanti, 1967 (ora in Il Vangelo secondo Matteo, Edipo Re, Medea, Milano, Garzanti, 1991, pp. 448-449).
[5] P.P.P., Le belle bandiere, cit., p. 136.
[6] P. P.P., Un paese di temporali e di primule, Parma, Guanda, 1993, p. 193.
[7] P.P.P., La meglio gioventù, Firenze, Sansoni, 1954 (ora in La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Torino, Einaudi, 1975, p. 18). La traduzione di tutte le poesie friulane è dello stesso Pasolini.
[8] Ivi, p. 132.
[9] P.P.P., L’usignolo della Chiesa Cattolica, Torino, Einaudi, 1976, pp. 13.
[10] P.P.P., La meglio gioventù, cit., p. 94.
[11] P.P.P., Roma 1950, diario, Milano, Scheiwiller, 1960, p. 21.
[12] Ibidem.
[13] P.P.P. cit. in Jean Duflot (a cura di), Les dernières paroles d’un impie, Belfond, 1981 (tr. it. di Martine Schruoffeneger, Il sogno del centauro, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 165).
[14] P.P.P., Descrizioni di descrizioni, cit., p. 446.
[15] P.P.P., Lettere 1940-1954, Torino, Einaudi, 1986, p. 85.
[16] T.W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1951 (tr. it. di Renato Solmi, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, 1979, p. 155).
[17] Ivi, p. 185.
[18] P.P.P., Le ceneri di Gramsci, cit., pp. 111-112.
[19] Ivi, p. 69.
[20] Ivi, p. 71.
[21] Ivi, pp. 73-74.
[22] Ivi, p. 72.
[23] Ivi, p. 76. “La loro «cultura», tanto profondamente diversa da creare addirittura una «razza», forniva ai sottoproletari romani una morale e una filosofia da classe «dominata», che la classe «dominante» si accontentava di «dominare» poliziescamente, senza curarsi di evangelizzarla, cioè di costringerla ad assorbire la propria ideologia (nella fattispecie un ripugnante cattolicesimo puramente formale). Lasciata per secoli a se stessa, cioè alla propria immobilità, quella cultura aveva elaborato valori e modelli di comportamento assoluti. Niente poteva metterli in discussione. Come in tutte le culture popolari, i «figli» ricreavano i «padri»: prendevano il loro posto, ripetendoli (cosa che costituisce il senso delle «caste», che noi razzisticamente, e con tanto sprezzante razionalismo «eurocentrico» ci gratifichiamo di condannare). Mai nessuna rivoluzione interna a quella cultura, dunque. La tradizione era la vita stessa. Valori e modelli passavano immutabili dai padri ai figli”. P.P.P., Lettere luterane, cit., pp. 152-153.
[24] P.P.P., Le ceneri di Gramsci, cit., p. 108.
[25] Ivi, pp. 108-109.
[26] Ivi, p. 49.
[27] Ma la storia, come si è visto sopra, dopo il boom economico degli anni ’60, non è più storia di classe come era stata delineata dal marxismo.
[28] Parmenide, in Umberto Curi (a cura di), Testimonianze e frammenti dei presocratici, Padova, R.A.D.A.R., 1971, p. 140.
[29] P.P.P., Roma 1950, cit., p. 7.