140 anni fa, il 5 marzo 1876, nasceva il quotidiano “Il Corriere della Sera”, fondato da Eugenio Torelli Viollier e Riccardo Pavesi. Da questo anniversario nasce il racconto della scrittrice Silvia Avallone che un giorno si imbatté in uno scritto corsaro di Pasolini, pubblicato da un giornale ritenuto fino ad allora moderato e austero, e da lì ritrovò la sua storia e anche l’occasione per riflettere sul valore decisivo della lettura.
Pasolini e le due Torri: con il “Corriere” il regno di mio nonno ha nuova vita
di Silvia Avallone
http://www.corriere.it – 5 marzo 2016
Ricordo quel silenzio particolare, che era come una città straniera. Denso, abitato e quasi minaccioso: il silenzio della lettura. La cucina era assolata e in ordine. Le pulizie concluse, la pentola con l’acqua per la pasta già sul fuoco. A tavola sedevano i miei nonni: lei assorta in un libro preso in prestito in biblioteca; lui, la testa china sul “Corriere della Sera”. Non si invertivano mai i ruoli. Ogni mattina prima di pranzo mia nonna si assentava dietro copertine dalle figure accattivanti, mio nonno corrugava la fronte su quei fogli enormi. Io, dalla mia postazione, osservavo e sceglievo: il romanzo, senza dubbio. Credo provenga da qui un pregiudizio che mi sono portata dietro per anni: che il giornale fosse un’occupazione per vecchi. Una cosa polverosa e pesante. Soprattutto, da maschi.
Frammenti di politica e di cronaca però mi raggiungevano ugualmente, sedimentandosi a mia insaputa le domeniche a pranzo. Detestavo quegli argomenti, perché infervoravano zii e nonni. Li vedevo sempre sventolare quei paginoni neri, ormai il mio nemico. Eppure. Avevo otto anni quando mi regalarono una macchina da scrivere. Istintivamente su quei tasti, forse per rivalsa, fondai un giornale: il mio. E il primo articolo che scrissi lo ricordo ancora: riguardava Bush, Gorbaciov e le sorti di un gabbiano senz’ala. Mi appostavo, registravo il via vai sul pianerottolo, facevo comparire Occhetto sulla scena. La realtà aveva cominciato a interessarmi, fare la giornalista era un modo di giocarci. Ma non si studiava giornalismo alle elementari. Mi presentarono Pascoli e cambiai subito amore. Nel 1994 accadde qualcosa. In gita scolastica verso Milano l’intera classe cantava Sei un mito degli 883. All’ingresso del capoluogo, alla vista dei primi casermoni con su affisse le insegne pubblicitarie – Manhattan per noi provinciali – un mio compagno di classe si alzò e disse: «Questa è la città di Berlusconi!».
Sapevamo tutti chi era, senza saperlo. Mi venne il sospetto che il mio tempo fosse contenuto in uno più vasto. Ma la Storia continuava a essere quella del sussidiario, del Risorgimento e di Camillo Benso; una cosa sepolta. Così ci rimasi immersa senza accorgermene per l’intera durata delle medie e buona parte delle superiori. La subivo convinta di vivere in purezza, nelle mie cittadine verghiane dove sembrava non succedesse mai niente. Fino a che, a diciassette anni, venne giù il mondo. Potrei scrivere la cronaca di quel giorno, perché fu quello in cui la realtà cominciò a esistere. Per me, e credo per tutta la mia generazione. Ricordo dove mi trovavo alle tre del pomeriggio: in un bar di Venturina. Era un settembre estivo, l’ultima settimana prima della riapertura delle scuole. Tornavo dal mare con una gran voglia di gelato. Così entrai in questo bar che era pieno dei soliti discorsi. La televisione accesa sul canale di sempre. Solo l’immagine nello schermo era diversa. Partite di carte e sigarette appoggiate al posacenere, che si consumavano da sole. Bambini scalmanati al calcio balilla. Niente di straordinario. Però c’erano quei due grattacieli immobili sullo sfondo. E nessuno capiva. Un’inquadratura fissa, una monotonia accecante. Solo il fumo si muoveva. Cosa succede? Boh. Sarà un incendio… Giulio Borrelli si affacciò dall’altra parte dell’oceano ed esordì, mentre qui svuotavano la lavastoviglie: «Be’, è la più grande catastrofe…».
Ricordo perfino che sapore aveva, quel gelato. Nel 2001 in provincia Internet era merce rara. Non si potevano commentare gli eventi in Rete, né condividerli. C’era solo la televisione, le dirette estenuanti che ancora oggi conosciamo. Quando tornai a casa l’accesi, vidi la Torre Nord precipitare al grado zero e mi sentii terribilmente sola. Di stare lì, con le mani in mano, non ne volevo sapere. Dovevo fare qualcosa. La mattina dopo, per la prima volta, andai in edicola a comprare il giornale. Utilizzo anch’io la Rete per informarmi, ne benedico la velocità. A volte scorro i titoli sul cellulare, salto da un paragrafo di politica a uno di cultura. Ma capire è un’altra cosa. È una fatica che richiede tutti e cinque i sensi, e un tempo largo di lettura che in fondo è rimasto quello della cucina in cui sono cresciuta. L’ho capito tardi, che mia nonna e mio nonno la mattina facevano la stessa cosa. Se Truman Capote non avesse aperto il “New York Times” un giorno preciso di novembre del 1959, A sangue freddo non sarebbe mai nato. L’eternità ha bisogno della presa diretta. E per mentire nei romanzi occorre aver frequentato parecchia verità, che è sempre scomoda, minoritaria, ostica. Ed è qui che sento più forte il legame con il quotidiano per cui sto scrivendo. Un anonimo pomeriggio universitario, a Bologna, in una stanza con vista sul gasometro di via Stalingrado, presi in mano per caso gli Scritti corsari. Lessi queste parole: «Io so. / Io so i nomi dei responsabili…». Lessi: «Io so. Ma non ho le prove». E sotto: “Corriere della Sera”, 14 novembre 1974. Un quotidiano austero, borghese, moderato: così era sempre sembrato a me che ero in cerca di ribellione. Quel giorno la ribellione me la trovai sotto gli occhi, impopolare e disperata come il mio poeta preferito. E paradossalmente: proveniva dal giornale di mio nonno.
Spesso ho la fortuna di tornare alle superiori, e mi piace fare con gli studenti un’indagine: «Chi di voi si ritiene un lettore? Di libri, di giornali, fa lo stesso». Una volta, su centocinquanta, contai sette mani alzate. Chiesi: «Perché non vi piace leggere?». Un ragazzo candidamente mi rispose: «Perché preferisco la vita». Di fronte a una risposta così, dovremmo darci da fare. La sfida è far scoprire agli adolescenti affamati il peso della Storia, la sua consistenza. Ho ascoltato diverse canzoni di giovani rapper italiani in cui si grida il desiderio di spegnere il computer, di alzarsi dalla sedia e uscire di casa. Mi chiedo se gli attentati di Parigi siano stati per gli adolescenti di oggi quello che per me fu il crollo delle Torri Gemelle. La sera del 13 novembre dell’anno scorso ciondolavo per casa insonne con la tv accesa. Aspettavo di correre all’ospedale da un momento all’altro per partorire, e da qualche tempo evitavo d’informarmi. Non si ha voglia di brutte notizie, quando si sta per mettere al mondo una persona. In questo clima d’ansia s’interruppero le trasmissioni, esplosero le sigle dei Tg straordinari e vidi le stragi in diretta. C’è una differenza abissale tra parole e immagini. Una differenza che ha a che fare con il grado di libertà e con il rispetto. Ci ero già passata, e questa volta ho spento presto la tv. Ho aspettato il giorno dopo. Ho aspettato il giornale. Da quasi madre, ho sperato che lo facessero anche gli studenti delle superiori. Per comprendere più che subire. È questo che deve fare un giornale, soprattutto dopo 140 anni di vita: piccole, quotidiane, mobilitazioni.
[info_box title=”Silvia Avallone” image=”” animate=””]nata a Biella nel 1984, vive a Bologna, dove si è laureata in Filosofia e specializzata in Lettere. Nel 2007 ha pubblicato la raccolta di poesia Il libro dei vent’anni (Edizioni della Meridiana), vincitrice del premio Alfonso Gatto sezione giovani. Sue poesie e racconti sono apparsi su “Granta Italia” e “Nuovi Argomenti”. Ha scritto per il “Corriere della Sera” e per “Vanity Fair”. Con il suo romanzo d’esordio Acciaio (Rizzoli, 2010) ha vinto il premio Campiello Opera Prima, il premio Flaiano, il premio Fregene e si è classificata seconda al premio Strega 2010. Il romanzo è stato tradotto in 23 lingue e in Francia, con “D’Acier”, ha vinto il Prix des lecteurs de L’Express 2011. Da Acciaio è tratto il film omonimo, per la regia di Stefano Mordini, con Michele Riondino e Vittoria Puccini, prodotto da Palomar.
Nel 2013 ha pubblicato il nuovo romanzo Marina Bellezza (Rizzoli).[/info_box]