Lingua e cinema di Pasolini:
idea di cinema e piano-sequenza. La libertà stilistica
di Franco Cocco
http://www.interromania.com/ – “InterRomania”
La libertà stilistica
Poiché, nell’incosciente erede di istituti sociali, filosofici o stilistici, il mondo si era ridotto a oggetto di poesia, e quindi di un’apparentemente sconfinata libertà linguistica, è chiaro che in seguito alla crisi e alla rinuncia di quel mondo pieno e concluso – avanzante, all’infinito, solo sul fronte interiore – la lingua che era stata portata tutta al livello della poesia tende ad essere abbassata tutta al livello della prosa, ossia del razionale, del logico, dello storico, con l’implicazione di una ricerca stilistica esattamente opposta a quella precedente .
Così argomenta Pasolini nel saggio La libertà stilistica, lo scritto compreso nel libro Passione e ideologia in cui sono raccolte le analisi critiche di un decennio (1948-1958).
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere.
E’ l’ormai famosa terzina de Le ceneri di Gramsci, versi chiaramente emblematici che mettono in evidenza la lingua ‘regressiva’ lavorata con puntiglioso spirito di ambizioso neòfita che ambisce ad essere poeta pre e antinovecentesco: è il Pasolini degli Anni Sessanta che irrobustisce – sfidando i persistenti lasciti del linguaggio ermetico e/o ermetizzante – presso le lontane e fertili tematiche trecentesche, la sua lingua “a livello di prosa” operando l’innesto sul secolare tronco di Dante, per salire poi più su per gli antichi rami, intricati, ora foscoliani, ora carducciani; innesto operato con sottili tecniche stilistiche raffinate alla scuola del Contini. Lingua pasoliniana questa, però, che lascia trapelare un indistinto tremolio di foglie pascoliane alternato da un segreto brivido dell’analogismo ermetico. Lingua complessa, dunque, che attraverso una assidua lettura della scrittura del Gramsci che propende nei suoi scritti al ‘parlato’, mira alla definizione di una teoria linguistica ‘inclusiva’, una lingua, in sostanza, che gioca per ‘accumulazione’, una volta che sconfina nel terreno della prosa. Appare particolarmente chiara, qui, la forza polemica, dirompente del poeta friulano che nel libro La religione del mio tempo mette in versi – e dunque in atto – la sua quasi eversiva “reazione stilistica”,
La lingua è oscuranon limpida – e la Ragione è limpida,non oscura! Il vostro Stato, la Vostra Chiesa, vogliono il contrario, con la vostra intesa – Sono infiniti i dialetti, i gerghi, le pronuncie, perché è infinitala forma della vita:non bisogna tacerli, bisogna possederli: ma voi non li volete perché non volete la storia
Pasolini vuole l’infinita forma della vita. Fra gli “infiniti dialetti” sceglierà quello del cuore: la lingua materna della friulana Casarsa, e con quella lingua antica scriverà La meglio gioventù. Nascerà allora in lui il desiderio di scavare la parola verginale del parlato, la pura oralità che lo porterà all’ardita analisi di laboratorio in cui la genesi della lingua orale (che colloca come ipotesi di terzo possibile termine desaussuriano tra langue e parole) lo convince a stigmatizzare che, visto che ogni lingua è un insieme di tante lingue che hanno in comune delle astrazioni (quali il lessico e la grammatica), ne consegue che le distinzioni sono – a voler essere forzatamente schematici, in questi termini:
a) per il marxismo c’è lingua della struttura e lingua della sovrastruttura
b) per lo strutturalismo e la linguistica sociologica c’è langue e parole
c) per Pasolini c’è lingua orale e lingua orale-grafica
Pertanto egli propone:
Ai linguisti che si sono interessati a questo problema una suggestione, un’ipotesi poetica: il terzo termine tra langue e parole (la cui radicale dicotomia sembra insostenibile) potrebbe essere il momento puramente orale della lingua. Ossia: la lingua nel momento in cui essendo formata da segni individuali di tipo interiettivo e misteriosamente analogico con sentimenti reali suscitati da cose e da fatti – riflessi condizionati – non era e non è un’astrazione arbitraria, ma un insieme solidale, fisico di segni necessari”.
Alla ricerca della “lingua del cinema”
Ti jos, Dili, ta li cassisa plòuf. I cians si scunìssinpal plàn verdùt.
Ti jos, nini, tai nustris cuàrps, la fres-cia rosada dal timp pierdùt.
(Vedi, Dilio, sulle acacie / piove. I cani si sfiatano / per il piano verdino. Vedi, fanciullo, sui nostri corpi / la fresca rugiada / del tempo perduto.)
E’ la poesia, in lingua friulana Dili, in cui viene stampata la parola rosada (che – come del resto per le altre di teta veleta e del davoliano “Hè-eh, heeeeeh” – è stata sempre, secondo Pasolini, parola solo parlata e mai scritta). Rosada: rugiada. In mezzo a tanta passione per la lingua materna, è possibile rintracciare le lontane radici di una nuova passione pasoliniana: risalgono, infatti, al tempo degli anni friuliani i primi vagheggiamenti cinematografici. Confesserà: “Ho sempre pensato di fare del cinema. Prima della guerra pensavo che sarei venuto a Roma a fare il Centro Sperimentale, se avessi potuto. Questa idea di fare del cinema, vecchissima, si è arenata, si è sperduta”.
Invece noi sappiamo che ci fu la grande amicizia con Federico Fellini al tempo di Le notti di Cabiria e de La dolce vita. Pasolini ottenne la collaborazione per Le notti di Cabiria. Il critico letterario Cesare Garboli, del resto, recensendo Le ceneri di Gramsci profetizzò, facilmente, dicendo: “Non mi meraviglierei se egli dovesse, a un tratto, cambiare assolutamente strada, e nel modo più impensato”.
Come è noto, Pasolini cambiò strada girando film, imponendosi come originale regista. Siamo negli Anni Sessanta. Intanto, proprio in quegli anni, Pasolini ha pronta una nuova sceneggiatura, quella di Accattone, ed ha pronto anche un soggetto nuovo, La commare secca.
Comunque, dopo la rottura con Federico Fellini, inventore di una casa cinematografica denominata Federiz, il Poeta delle Ceneri è il suggeritore de Il bell’Antonio di Mauro Bolognini di cui sarà un prezioso collaboratore. In seguito, per Pasolini sarà importantissimo l’incontro e la reciproca stima con il produttore Alfredo Bini che sarà colui che finanzierà tutti i film fino ad Edipo re (e cioè fino al 1967).
Ma proprio nel 1966 il poeta si chiede, da curioso e ambizioso intellettuale-regista le ragioni della “diacronia” tra lingua scritta e lingua parlata convinto che essa (diacronia) può servire a mascherare la lingua scritta, mistificandola, magari, anche, presentandola per quello che non è (ed a riprova di quanto detto egli ricorda la “recita”di Umberto Saba nel momento della lettura delle sue poesie; ricorda persino la “notevole” lingua orale di Mussolini, nel quale, a suo dire, c’è l’evidente presenza di due lingue in diacronia).
In virtù di queste convinzioni, Pasolini è davvero persuaso che anche Antonio Gramsci, “parlando, usava contemporaneamente due lingue o due tradizioni linguistiche in diacronia”; e dunque ecco una sorta di enunciato suo teorema: “In Italia viviamo radicalmente questo dramma – che tra lingua orale e lingua grafica ci sia l’urto che c’è tra due strutture diverse e in opposizione. Certi fenomeni non solo linguistici si attuano e si comprendono solo considerando la lingua orale come una lingua a sé, che solo casualmente e episodicamente diviene ‘anche’ scritta”.
Per sottolineare l’importanza di questi concetti circa lingua orale/scritta, ritengo sia opportuno rifarsi al Pasolini poeta in lingua materna, specificatamente, in “lenga furlana”, ossia ripensare a quella lingua che – come tutte le lingue materne – ha la sua misteriosa genesi nella oralità.
(Quando nella raccolta La meglio gioventù apparirà la poesia Dili, il cantore di una splendida epopea di Casarsa darà la dimostrazione della originalità, non solo e non tanto della lingua materna friulana, ma proprio, di quella specifica sua originalità: ne mostrerà la innegabile verginità, riproponendo una parola – rosada – che, egli dice, “certamente, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono”.)
Ecco: la splendida lirica Dili (appena citata in questo scritto, che voi tutti certamente ricorderete). Riprendendo, intanto, il discorso circa la questione ‘orale/scrittto’ è indispensabile puntualizzare il pensiero pasoliniano a proposito della caratteristica forse più importante della lingua orale; caratteristica che per il Pasolini saggista è quella della “conservazione” di una sua capacità unificante, metastorica, conservata anche attraverso le numerose (possibili) continue stratificazioni e scampoli (sopravvissuti) di altre-lingue.
Ma, attenzione, Pasolini avverte che mentre “la stratificazione dei substrati orali delle società”, nel corso della storia, è inevitabilmente assicurato dal ritmo della continuità, la stratificazione dei substrati orali-grafici non può non lasciare impronte durevoli quali, appunto, rivoluzioni e/o restaurazioni, avanzate e/o regressi e/o fermate.
Ovviamente, si dà per scontato che la lingua ‘istituzionale’o ‘langue’ sia capace di operare un rapporto così certo da risultare, nei molteplici e vari momenti storici, “una lingua sola”. A questo punto credo sia importante riportare l’opinione di Pasolini in merito ad una specifica lingua orale della Francia che, secondo lui, è
una, parlata dai francesi viventi, e che è un ‘continuo’ storico formato dal ‘continuare’ in essa, senza soluzione di continuità, a) di strutture precedenti (il protofrancese, il latino, il franco-appena romanizzato, il franco preromano ecc. ecc, in giù verso la preistoria dei Franchi); b) di sovrastrutture orali-grafiche depositate e discese di livello (la civiltà della borghesia comunale, la civiltà carolingia, la civiltà medioevale, la civiltà romama, la civiltà franca preromana ecc, ecc. ). Questo ‘continuo’ di lingua vocale o ‘contenente le necessità’, puramente strumentale, è inanalizzabile come tutto ciò di cui non si può stabilire un principio, una fine o un momento di immobilità.
Per ‘restare’ in Francia (pensando contemporaneamente ad altre società o nazioni capitalistiche coinvolte dalla ‘rivoluzione interna’), Pasolini si chiede quale può essere, sotto specie linguistica, il dato più interessante, ovvio e insieme clamoroso se non “la sostituzione, come modello linguistico, delle lingue delle infrastrutture alle lingue delle sovrastrutture”?
In sostanza, secondo Pasolini, negli Anni Sessanta era possibile rilevare una ‘evoluzione’ socio-linguistica nel contesto del mondo neocapitalistico, evoluzione vista come contrapposizione o, più realisticamente, come alternativa ad una innegabile ‘rivoluzione’ socio-linguistica in fermento nel mondo marxista degli Anni Sessanta, e post marxista ai giorni nostri.
Questo argomentare è indispensabile quando si tratta di impostare il discorso sulla “vocalità” pasoliniana vista, questa, come terzo termine tra ‘langue’ e ‘parole’.
La non arbitrarietà del ‘segno’ del cinema
Il fatto che ancora non si sia scritta una organica ‘grammatica’ del cinema e che, pertanto, è evidente che nessuno, allo stato attuale, è in grado di stabilire, con certezza linguisticamente scientifica, quale sarebbe, o quale è il “segno” dell’ancora ipotetica “langue” cinematografica, risalta in modo evidente la natura ed essenza “verginale” del segno cinematografico.
Ora, considerato che più di una volta il poeta-regista-saggista Pasolini ha dichiarato di “non essere uno stutturalista” (ricordo la ormai famosa sua affermazione: “il fatto di essere italiano mi ‘costringe’ a non essere strutturalista, a non avere la ‘testa’ dello strutturalismo”), in quanto egli è convinto della ‘instabilità’ sia delle strutture foniche, sia di quelle grammaticali della sua lingua. Egli, inoltre, ritiene che ‘parlando’ – nel puro, semplice, quotidiano parlare – è consapevole di ‘vivere’ “una struttura che si sta strutturando”.
Ancora: la non arbitrarietà del “segno” cinematografico è che esso si propone alla nostra esperienza come ‘segno stilistico’ di una originale ‘parole’ che pur essendo espressione di una “ipotetica ‘langue’ potenziale’ non può non essere recepita come espressione diretta del ‘significato’. E dunque: tra ‘segno’ o figura-immagine ‘cinematografica significante’, e ‘significato’ esiste un organico legame di necessità.
Scenografia e concetto di ‘cinèma’
Date queste premesse, a Pasolini appare opportuno stabilire un confronto tra cinema e letteratura individuando il dato concreto del rapporto nella sceneggiatura, che, a suo dire, è inevitabilmente concepita “come struttura che vuole diventare ‘altra’ struttura”.
E qui, ovviamente, il regista-teorico va alla ricerca di una ‘tecnica’ nuova quanto libera ed autonoma impegnata nella confezione del linguaggio della sceneggiatura la quale deve risultare – a fine lavoro e chiavi in mano – opera d’arte compiuta, nonostante (qui gioca un’apparente contraddizione in termini) l’autore, pur consapevole di dover accettare, durante il lavoro l’allusione, o pura ipotesi formale, alla confezione di un’opera ‘da farsi’ studiata sul modello della tradizionale scrittura letteraria-ipotesi di lavoro, questa, che comporta un grande rischio – egli non sarà in grado di compiere quell’originale e ardito salto di qualità che, chiaramente, consiste solo nell’elaborazione di una creazione di “opera in forma di sceneggiatura” di struttura cinematografica-visualizzatrice secondo il canone “da farsi” ; mediante una nuova (anzi ‘altra’ tecnica).
Ora può risultare più chiaro il significato che informa la fondamentale e principale caratteristica del “segno”, della tecnica della sceneggiatura che è:
a) allusione al significato attraverso due itinerari diversi, ora coincidenti, ora aderenti appena e/o riconfluenti;b) allusione della figura segnica della sceneggiatura mediante i percorsi espressivi tipici di tutte le lingue scritte e, anche, dei gerghi della scrittura letteraria; al significato;c) allusione a quello stesso significato (di cui alle lettere a) e b) appena indicate) rimandando e invogliando criticamente il destinatario (lettore-spettatore) ad un altro ‘segno’, ovvero, a quello del film ‘da farsi’;d) invito implicito, da parte dell’autore della sceneggiatura, al suo destinatario-spettatore perché si impegni in una particolare partecipazione – una sorta di rinnovata “corrispondenza d’amorosi sensi” di memoria foscoliana – quella di voler prestare al suo testo una compiutezza di valenza “visiva” a cui l’autore allude.
Non potrà, dunque stupire se il regista invoca la complicità del lettore impegnandosi nella decifrazione della “scrittura” cinematografica che stimolando l’immaginazione lo inoltra in una impervia quanto suggestiva strada che, per Pasolini, è più impegnativa di quella che conduce alla decodificazione del romanzo.
A questo punto credo sia utile, al fine di chiarire meglio il tema della “scrittura” cinematografica, allargare l’indagine sul significato di sceneggiatura proponendo l’analisi di un geniale semiologo qual è Umberto Eco, il quale, nel saggio noto Apocalittici e integrati, a proposito della presa diretta che influenza fortemente il film, ricordando il debito che, a suo dire, il nuovo cinema deve alla TV, afferma che: “Il cinema, almeno nelle sue forme tradizionali, aveva abituato lo spettatore a una sorta di racconto concatenato e costruito secondo passaggi necessari, secondo la poetica aristotelica: serie di avvenimenti terribili e pietosi che accadono a un personaggio capace di determinare una identificazione simpatetica da parte dello spettatore (…). In altri termini, come il romanzo ottocentesco e come la tragedia classica, il film si strutturava secondo un inizio, uno svolgimento e una fine (…). Ora con la ripresa diretta televisiva si è andato invece affermando un modo di “raccontare” gli eventi del tutto diverso: la ripresa diretta manda in onda le immagini di un avvenimento nello stesso momento in cui esso avviene, e il regista si trova da un lato a dover organizzare un “racconto” il cui ritmo, il cui dosaggio tra essenziale e inessenziale sia profondamente diverso da quanto avviene nel cinema, abituando così il pubblico, a un nuovo “tipo di tessuto narrativo (…), per cui non sarebbe accidentale che solo dopo alcuni anni di abitudine al racconto televisivo anche il cinema abbia preso le mosse per un diverso tipo di racconto, di cui un esempio insigne potrebbero essere le opere di Antonioni: dove l’azione principale, se pure esiste, appare continuamente diluita nello sfondo degli eventi apparentemente insignificanti”.
Il saggio di Umberto Eco (che, per la precisione, e del 1965) concorda con le ricerche di Pasolini regista (che risalgono agli anni 1965-1966) su una questione fondamentale: e cioè sul fatto che non si debba parlare, circa la ‘scrittura’ cinematografica, di “letterarietà” del cinema, dato che, avendo il cinema trovato con ‘mezzi propri’ certe strade percorse dalla letteratura, dimostrerebbe, in sostanza, l’esistenza di forti e profonde esigenze che si agitano nel contesto della cultura contemporanea, dove il cinema s’impone come nuova arte. Dunque: per chiarire meglio certi punti di concordanza tra le teorie di Eco e quelle di Pasolini, basti ribadire il pensiero di quest’ultimo, secondo il quale il “dato concreto del rapporto tra cinema e letteratura è la sceneggiatura”, naturalmente insistendo sul concetto che il teorema sulla “unicità” e autonomia del sistema della ” letteratura ” è “altro” da quello della “letteratura del cinema”.
Affrontando ora la caratteristica essenziale del “segno” della tecnica della sceneggiatura è indispensabile connotare lo specifico del “segno”, che esemplificando al massimo, per Pasolini si presenta sotto diversi aspetti, esso è una sorta di trinitario dogma linguistico in quanto si manifesta in un insieme triadico e inscindibile in questi termini: il “segno” è :
a) orale (fonema)
b) scritto (grafema)
c) visivo (cinèma)
Per lui i “cinemi” sono un’altra lingua: essi sono delle “immagini primordiali, delle monadi visive inesistenti, o quasi, in realtà”. E, occorre ribadirlo ancora, la coordinazione ed elaborazione dei “cinemi” non rimandano ad una analoga tecnica letteraria: essi sono i fenomeni di un’altra lingua che ha il fondamento su un (nuovo) sistema di, appunto, “cinemi” o, magari, “im-segni” su cui cresce l’edificio del metalinguaggio cinematografico.
Ma, quasi con ossessiva premura, Pasolini si chiede che cosa mai può essere ‘fisicamente’ questo “im-segno”?
“Proprio perché mancano i dati precisi indispensabili per scrivere una grammatica del cinema, egli non è in grado di stabilire se nello “sceno-testo” il da lui definito “im-segno” sia un fotogramma, o una sequenza di fotogrammi; oppure un insieme pluricellulare di fotogrammi; o magari una complessa sequenza di fotogrammi dotati di durata.
Ed ecco che Pasolini, nel poemetto Una disperata vitalità, in quella nota Stesura, in ‘cursus’ di linguaggio ‘gergale’ corrente, dell’antefatto: Fiumicino, il vecchio castello e una prima idea vera della morte, nel libro di versi Poesia in forma di rosa, azzarda (negli anni 1961-1964) una scrittura poetica con intenti di scrittura cinematografica:
Come in un film di Godard: soloin una macchina che corre per le autostrade del Neo-capitalismo latino – di ritorno dall’areoporto – (là è rimasto Moravia, puro fra le sue valigie) solo, ‘pilotando la sua Alfa Romeo’ in un sole irriferibile in rime non elegiache, perché celestiale – il più bel sole dell’anno – come in un film di Godard: sotto quel sole che si svenava immobile unico (…)
Qui è chiaramente implicita quella nota ansia, .o rabbia pasoliniana che aspira a convertirsi in stile di scrittura cinematografica: ancora è la sempre accarezzata carrellata “contro natura” che consiglia a Tonino Delli Colli (il direttore della fotografia di Accattone e di quasi tutti i suoi film);
Metta, metta, Tonino il cinquanta, non abbia paura che la luce sfondi – facciamo questo carrello contro natura!
Ma la sua è anche spesso angoscia che sfocia in forma originale di pittura. Ascoltiamo quanto dice in Mamma Roma (1962):
Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto – che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (per esempio il Pontormo). E non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, trecentesca, che ha l’uomo come centro di ogni prospettiva Quindi, quando le mie immagini sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obiettivo si muovesse su loro sopra un quadro; concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e, per questo, lo aggredisco sempre frontalmente.
Ecco perché mi viene voglia di definire la sua scrittura cinematografica come risultato raggiunto mediante l’uso di una lingua quasi al limite del gestuale, e che appare, più che bloccata o fermata, direi eternata in quella irnmobilità di stampa pittorica.
Del resto, nella poesia La ricchezza, egli insiste ancora nel dichiarare la sua passione per la scrittura in forma di colore-immagine-contorno-pittura, quando in versi ci dice come desidererebbe la sua
camera da letto (un semplice lettuccio, con coperte infiorate tessute da donne calabresi o sarde) appenderei la mia collezione di quadri che amo ancora accanto al mio Zigaina, vorrei un bel Morandi, un Mafai, del quaranta, un De Pisis, un piccolo Rosai, un gran Guttuso.
Ancora, nella parte II de La ricchezza ribadisce:
…c’eradentro la mia anima nata alle passioni già, intero, San Francesco, in lucenti riproduzioni, e l’affresco di San Sepolcro, e quello di Monterchi: tutto Piero, quasi simbolo dell’ideale possesso, se oggetto dell’amore di maestri, Longhi o Contini, privilegio d’uno scolaro ingenuo, e, quindi squisito…
E’ proprio negli Anni Sessanta che il poeta sente così prepotente il ‘cambio’ del circolo vitale del suo linguaggio: egli, pur rimanendo inevitabilmente legato all’idea di una linguistica e di una morfologia letterarie – alla quale per un’intera, essenziale educazione d’artista della parola scritta (in senso, ovviamente, tradizionale) si era dedicato, sente il bisogno irrefrenabile di dare forma estetica, e, quindi, vita, all’immediatezza dell’esistere che, intuisce finalmente, solo attraverso il cinema è possibile rappresentare, rendendola arte.
Sia Alberto Moravia, sia Elsa Morante – due scrittori illuminati e ossessionati spesso dal senso quasi monastico e teologico della sacralità della letteratura – con una certa dolorosa consapevolezza intuiranno per primi della imminente abiura pasoliniana In particolare, Moravia, recensendo il film Accattone acutamente quanto profeticamente, scriverà che:
Trasferendo sullo schermo il mondo dei suoi romanzi (…) detto trasferimento è riuscito alla perfezione; tanto da ingenerare che i romanzi di Pasolini fossero un’inconsapevole preparazione al cinema; cioè che l’accanita ricerca del corposo e dell’autentico per mezzo del dialetto dovesse per forza sfociare nell’abbandono della parola, sempre metaforica, per l’immagine la quale non può non essere diretta e immediata.
In sostanza, per dirlo con più rapido passaggio logico, Moravia era convinto che Pasolini, ormai, mirasse con il cinema, ad abbattere, più che eludere il sottile ma sempre palpabile diaframma fra natura e linguaggio: che è, esattemente, ciò che, dal film Teorema in poi, tenterà di realizzare Pasolini con la sua idea di “cinema di poesia”, di cui assumerà, fino all’ultimo lavoro da regista, anche il ruolo di operatore: volendo essere, così, più fedele interprete dell’idea di “cinema d’autore”.
In una vibrante lettera al produttore Alfredo Bini, il regista, a proposito del suo film Il Vangelo secondo Matteo, mette in tavola le carte segrete del suo irrazionalismo in seguito alla crisi palpabile già nella raccolta di versi di Poesia in forma di rosa, crisi, però, che coincide con l’urgenza di testimoniare con un’opera cinematografica la sua poetica di originale autore di cinema di poesia.
Ecco un passo signifìcativo di quella lettera:
Quanto al mio rapporto col Vangelo, esso è abbastanza curioso: tu forse sai che, come scrittore nato idealmente dalla Resistenza, come marxista ecc., per tutti gli Anni Cinquanta il mio lavoro ideologico è stato verso la razionalità, in polemica coll’irrazionalismo della letteratura decadente (su cui mi ero formato e che tanto amavo). L’idea di fare un film sul Vangelo, e la sua intuizione tecnica, è invece, devo confessarlo, frutto di una furiosa ondata irrazionalistica. Voglio fare pura opera di poesia, rischiando magari i pericoli dell’esteticità (Bach e in parte Mozart, come commento musicale; Piero della Francesca e in parte Duccio per l’ispirazione figurativa; la realtà, in fondo preistorica ed esotica del mondo arabo, come fondo e ambiente). Tutto questo mette pericolosamente in ballo tutta la mia carriera di scrittore, lo so. Ma sarebbe bella che, amando così svisceratamente il Cristo di Matteo, temessi poi di rimettere in ballo qualcosa.
Poetica, questa, chiaramente di “cinema di poesia”, lavorato con una lingua cinematografica dentro l’impasto della corposità figurativa della manualità di Piero della Francesca e di Duccio legato tutto dall’universale musicalità di Bach e di Mozart, dentro il suggestivo sfondo di un’esotica preistoria retrocessa ai lontani confini del misterioso mondo arabo: Vangelo secondo Pasolini, dunque, assecondato dalla poetica di Bibbia dei poveri, sempre secondo quel ‘blasfemo’ apostolo che lo firma.
Il Piano-sequenza pasoliniano: il cinema come un infinito piano-sequenza
Su un qualsiasi fenomeno – poniamo, seguendo l’esempio di Pasolini – su un fatto realmente accaduto come il (possibile, anzi, riscontrato) filmino in sedici millimetri girato su detto fatto, che per la precisione sarebbe quello relativo alla tragica morte di Kennedy, è possibile parlare di “soggettiva” di piano-sequenza elementare, come può essere, appunto, una ripresa da parte dell’ipotizzato spettatore-operatore improvvisato che, di fronte a quel drammatico e insperato avvenimento dell’attentato al Presidente degli Stati Uniti d’America, ha ripreso senza aver scelto un particolare angolo visuale, la tragica scena. Ma, seguendo sempre il ragionamento del teorico-regista-semiologo del cinema di poesia, supponendo l’esistenza di diversi piccoli film girati da diversi angoli visuali sui quali si intenderebbe fare una sorta di operazione di “cucitura”, noi siamo certi – sentenzia Pasolini – di trovarci di fronte ad una “moltiplicazione di presenti”: ovvero noi assisteremmo allo svolgimento dell’azione tragica più volte davanti ai nostri occhi, anziché vederla scorrere una sola volta. Questo perché l’operazione di cucitura o elementare montaggio metterebbe la realtà (dell’attentato, appunto) in grado di esprimersi con tutte le sue molteplici facce. Essa realtà, infatti, si è espressa, ha comunicato un suo codice a chi era presente al suo manifestarsi. E lo ha comunicato col suo segreto linguaggio che è quello dell’azione: “un colpo di fucile, diversi colpi di fucile, un corpo che si accascia, una macchina che si ferma, una donna che si china sul corpo agonizzante, la folla spaventata, ecc. ecc. Dunque, in termini scopertamente apodittici, Pasolini ritiene che la realtà, non solo ha un suo linguaggio, ma essa è un linguaggio il quale (linguaggio segreto) per essere descritto necessita di una “Semiologia Generale”; semiologia che, a suo dire ora manca, anche come nozione (i semiologi osservano sempre oggetti ben distinti e definiti, cioè i vari linguaggi, segnici o no, esistenti; non hanno ancora scoperto che la semiologia è la scienza descrittiva della realtà”).
Pertanto, è solo attraverso un geniale montaggio che deve consistere quella scelta e selezione dei momenti più significativi dei diversi piani-sequenza soggettivi: solo così i vari angoli visuali si raccoglierebbero in una creativa sintesi di oggettività perché esisterebbe la personalità del narratore, il quale solo può infondere l’alito vitale dell’opera d’arte compiuta. Questo piano-sequenza articolato, per il regista friulano non è, in sostanza, altro che la “riproduzione del linguaggio dell’azione: in altre parole è la riproduzione del presente”.
Ma a questo punto, proprio nel tempo in cui opera il volano del montaggio, ovvero:quando si verifica il passaggio-cambiamento dal cinema al film (che per Pasolini “sono due cose molto diverse, come la langue è diversa dalla parole), succede che il presente si trasforma in passato, una sorta di ‘passato’, però, che ha “sempre i modi del presente”: e cioè un presente storico.
Questo avviene, secondo Pasolini, proprio perché il narratore-regista è capace, egli solo, di convertire, attraverso la sua tecnica scritturale del cinema di poesia, il presente in passato. Da quanto detto si deduce che il cinema non può che essere un infinito piano-sequenza, che, imitando la realtà, mima la vita. Queste intuizioni del semiologo del cinema portano, inevitabilmente a pensare il messaggio del film come un linguaggio sorretto da “parola senza lingua”, in quanto , per la fruizione e, soprattutto, comprensione del film, questo non rimanda al cinema, a alla realtà stessa (visto che, appunto, Pasolini sostiene la tesi impostandola sul teorema che pretende dimostrare, non solo l’identificazione del cinema con la realtà, ma postula la validità della “semiologia del cinema”come fondamentale e indispensabile capitolo della “semiologia generale della realtà”.
A questo punto, ovviamente, l’economia del mio discorso mi obbliga a ridurre e semplificare in forma espositiva schematica il più possibile quel pasoliniano “Codice della Realtà”, codice con il quale ci è possibile decifrare la realtà e, quindi, anche il film.
Dunque, chiedendo venia della ventilata esposizione schematica, il detto ‘codice della realtà’ deve tener conto che (dato che un soggetto o personaggio cinematografico, al cinema, come, ovviamente, in ogni momento della realtà, parla e vive e si identifica con se stesso attraverso i ‘segni’ o “sintagmi viventi” presenti della sua azione) sarà bene suddividere questi sintagmi in provvisori e personali capitoli della immaginata “Semiologia Generale della Realtà”:
I – il linguaggio della presenza fisica
II – il linguaggio del comportamento
III – il linguaggio della lingua scritto-parlata
Ma data la complessità della materia, per Pasolini, ad ogni capitolo principale dovrebbe seguire un non precisato numero di paragrafi, di note e di esemplificazioni. Ad esempio: il “linguaggio del comportamento”, per lui il più interessante e complesso, andrebbe diviso in sottoparagrafi, quali: “il linguaggio del comportamento generale”, e “il linguaggio del comportamento specifico”.
Questi pensieri pasoliniani, rintracciabili in vari saggi con pretesa, però, di provvisori appunti utili per la realizzazione di quel suo disegno di “Semiologia Generale”, lo portarono a immaginare seriamente come detta “Semiologia Generale” sarebbe “insieme, la Semiologia del Linguaggio della Realtà, e la semiologia del Linguaggio del Cinema”.
Questo grande disegno Pasolini lo ha tracciato (spesso ricalcandolo) sotto la grande lente del Naturalismo che ha, come è a tutti noto, condizionato diversi autori del romanzo del dopoguerra. Nel regista friulano era radicata la convinzione di poter instaurare un dialogo con la realtà: una sorta di presa diretta confortata da un dialogo ” attorno al Massimo sistema del Reale”, che, inevitabilmente, desidera entrare “a tu per tu” con esso al fine di carpirne il segreto da esibire poi in forma d’opera d’arte.
Consapevolmente appagato, il Pasolini regista dei film Uccellacci e uccellini, Edipo Re, Teorema, Porcile, Medea, Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, Salò o le 120 giornate di Sodoma – come degli altri ricordati in questo scritto – ha realizzato la sua lingua di cinema memore del realismo oggettivo caro all’estetica dell’ortodosso Lukács, e dell’irrigidimento marxiano che suggeriva agli artisti un ferreo prospettivismo ideologico. In più, di suo, il regista friulano lavora alla riuscita dell’opera cinematografica con febbrile impeto tipico di ogni meditato sperimentalismo rafforzato da solida cultura letteraria e linguistica: per questo la sua ricerca affronta a viso aperto il consapevole rischio della novità e particolarità della lingua del cinema, che – secondo lui – non può non essere “rozza”, priva di dizionario, grammatica e sintassi (forme collaudate e certe della lingua tradizionalmente intesa in senso letterario), ma è, ancora: “lingua irrazionalista, onirica, elementare, barbarica”. Ma è, pur sempre, “la realtà”. In una pagina illuminante di Empirismo eretico, dirà che se è vero che la letteratura cresce su fondamenta lessicali ben stabilizzate, il cinema no, deve rischiare: e infatti egli si sente autorizzato a sentenziare che: “mentre l’operazione dello scrittore è un’invenzione estetica, quella dell’autore cinematografico è prima linguistica poi estetica”.
Come è noto, questa appassionata e, spesso teoricamente azzardata voglia innovativa affilò l’ira epigrammatica del poeta di Satura, Eugenio Montale che di “Malvolio” – Pasolini dirà nella famosa Lettera a Malvolio:
Fu la tua ora e non è finita. Con quale agilità rimescolavi materialismo storico e pauperismo evangelico pornografia e riscatto, nausea per l’odore di trifola, il denaro che ti giungeva
Versi furenti, feroci.
A questi versi Pasolini rispose con altri epigrammi a Montale : e sono versi venati di solitudine, più che di rabbia o rancore.
Nella poesia L’impuro al puro, un Pasolini attraversato dalla solitudine di uomo più che di poeta-regista, dirà a Montale:
Non ho banda, Montale, sono solo. Non ti rimprovero di aver avuto paura, ti rimprovero di averla giustificata. Male forse ne voglio; ma il mio. Ti ha ottenebrato la tua un po’ troppo italiana Musa Oscura. Astuto poi non non lo sono: di solito è astuto chi ha paura.
Questa polemica in versi Montale/Pasolini (aldilà del livore epigrammatico dell’autore degli Ossi di seppia, e a parte la cupa malinconia che cerchia la solitudine del poeta de Le ceneri di Gramsci non è soltanto l’inevitabile, quasi, reazione scaturita da una recensione pasoliniana al libro di versi montaliano (Satura nel 1971), raccolta che veniva giudicata dal regista-saggista-ideologo molto drasticamente come l’espressione di un mondo borghese che “compie una specie di identificazione tra potere e natura”, visto che l’autore, in “quanto poeta satirico non si libera del potere”; anche perché, versi alla mano, Pasolini accusa che “Tutta Satura è in fondo un pamphlet antimarxista”. Non è solo polemica fine a se stessa. E per dirla fino in fondo, questa polemica non mette in luce soltanto “materialismo storico e pauperismo evangelico,/pornografia e riscatto”, che Montale giudica come “un’ultima impostura” pasoliniana “che si abbatte su noi” quasi fosse un’inesorabile profezia di vate tanto demoniaco quanto innocente. No: “questa violenta raffica di carità” viene negata da Montale a Pasolini perché la ‘carità’ – come la verità, ogni verità (e dunque, Montale pare voglia insinuare: anche la ‘realtà’ pasoliniana) non è feudo esclusivo di nessuno in assoluto, tanto che, Montale sentenzia “non appartiene a nessuno la carità”. Ma per dirla, finalmente chiudendo questo discorso, detta polemica ha, anche, l’innegabile merito di fare affiorare-seppure larvatamente- tutto il discredito, non solo montaliano, sorto nei confronti di ogni realismo e naturalismo; che comporta inevitabilmente anche fare irrompere l’affermazione del soggetto umano svincolato dall’oggetto: criterio, questo, che favorisce la messa in gioco di una dialettica della “visione del mondo”, la quale sarà in grado di esercitare una libera facoltà di intervento agendo su ogni campo senza essere impastoiata dai procedimenti che si rifanno a ‘esiti’ tecnico-strutturali di un solo ambito. Proprio negli Anni Sessanta, il critico letterario (ma anche critico d’arte, oltre che esperto nel campo dell’estetica), nel suo saggio La barriera del naturalismo.
[info_box title=”Franco Cocco” image=”” animate=””]è poeta di lingua taliana e sarda, oltrechè professore in Ozieri (Sardegna). Ha approfondito l’opera è l’estetica di Pasolini attraverso numerosi studi.[/info_box]