Lacan e PPP secondo Massimo Recalcati, di Rocco Ronchi

Secondo Massimo Recalcati, autore del corposo saggio Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione (vol. I, Cortina ed.),  il pensiero del grande psicoanalista francese presenta significativi punti di convergenza con l’ultimo Pasolini corsaro, implacabile critico della modernità lasciata in balia ad una monodirezionale pulsione di godimento solipsistico, entro un regime di falsa liberazione.   Un dibattito di alto spessore teorico di cui dà conto anche la recensione al libro firmata da Rocco Ronchi, già uscita il 9 dicembre 2012 e qui di nuovo proposta ai lettori interessati. 

di Rocco Ronchi
www.ilmanifesto.it / Alias – 9 dicembre 2012

Parte integrante di un progetto culturale e politico che, prendendo spunto da Lacan, vuole riflettere sul senso della post-modernità senza trascurare la specificità della situazione italiana, l’ultimo libro di Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione (vol. I, Raffaello Cortina Editore, pp. 643) non si limita a una presentazione esaustiva e appassionata del pensiero del grande psicoanalista francese: è molto di più. È l’operazione di un intellettuale che vuole restituire dignità a una funzione progressivamente scaduta, negli ultimi quarant’anni, a mero esercizio di opinionismo becero e narcisistico.
Il grande impatto che hanno avuto le recenti pubblicazioni di Recalcati, e soprattutto L’uomo senza inconscio, uscito nel 2010 e divenuto in breve tempo un punto di riferimento imprescindibile nella discussione politica della sinistra italiana, porta il segno di un bisogno reale di critica, di una richiesta di attività intellettuale forte da parte di una società civile sfinita da decenni di non-pensiero. Da questo punto di vista, la «funzione» svolta da Recalcati nel dibattito attuale in quanto intellettuale «impegnato», nel senso sartriano del termine, è avvicinabile alla vicenda dell’ultimo Pasolini. Mi riferisco al Pasolini «corsaro», lucido interprete della modernizzazione italiana, di cui a ragione si è soliti lamentare l’assenza, come se con la sua morte fosse venuta meno non solo una grande voce, ma addirittura la possibilità stessa della critica. Mi riferisco però anche al Pasolini che si congedava con il terrificante affresco cinematografico di un mondo lasciato in balia del godimento perverso: il mondo dei libertini sadiani trasformati in gerarchi fascisti del suo Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Del resto, non sono pochi gli spunti, che, anche sul piano teorico, il Recalcati esegeta di Jacques Lacan condivide con il poeta friulano. Che cosa, infatti, ha di mira Recalcati nella sua lettura di Lacan? Già il sottotitolo del suo libro contiene i termini del problema: desiderio, godimento e soggettivazione. La questione ultima è il processo di soggettivazione, l’acquisizione, cioè, dell’autonomia, della responsabilità e della capacità «generativa» (la possibilità di creare senso e di condividerlo nel rapporto intergenerazionale) che devono caratterizzare una vita veramente degna di essere vissuta. E, insieme, in questione è la minaccia che a tale processo viene portata da una modernità interamente segnata dalla follia di una dinamica, quella della auto-valorizzazione del capitale, che non ha altro scopo se non la propria insensata intensificazione.

Paolo Bonacelli in "Salò" (1975) di Pasolini
Paolo Bonacelli in “Salò” (1975) di Pasolini

Come Pasolini, anche Recalcati ha individuato questa minaccia alla soggettività in una falsa promessa di liberazione: quella offerta dal «cinismo narcisistico» e dalla «perversione ipermoderna».
Sul piano della «scuola» lacaniana, questo significa, per Recalcati, entrare in rotta di collisione con una interpretazione del pensiero di Lacan che ha trovato nella esegesi di Jacques-Alain Miller, il delfino francese del maestro, la sua più precisa formulazione. Privilegiando gli scritti del cosiddetto ultimo Lacan, Miller ha infatti insistito sul progressivo sganciarsi del tema lacaniano del godimento da quello del desiderio. Se il desiderio, in quanto segno di una mancanza strutturale, lega già sempre l’uomo al rapporto con il Grande Altro (con l’ordine simbolico, con la dimensione della Civiltà), agganciandolo alla Legge e facendolo dipendere, quasi ne fosse marchiato, dal rapporto con essa (marchiatura che tecnicamente prende il nome di «castrazione»), il godimento segnerebbe invece lo scioglimento di questo legame originario, la fine della castrazione e il passo al di là della Legge.
Da tale assolutizzazione del godimento deriverebbe però, secondo Recalcati, una totale deresponsabilizzazione del soggetto. Il suo posto sarebbe infatti preso da un acefalo irresponsabile, guidato dalla sola anarchica compulsione a godere. Lacan camminerebbe a braccetto del Bataille teorico di una prodigalità folle e inoperosa. In un certo senso, il soggetto risulterebbe come quel consumatore astratto e senza identità culturale, senza appartenenza di classe, senza anima, insomma, stigmatizzato da Pasolini, nonché ben raffigurato dai morti viventi che, nei film di George Romero, attraversano allucinati gli spazi inumani dei grandi supermercati.
Sul piano filosofico la critica di Recalcati ha di mira, perciò, quella emancipazione del desiderio dalla mancanza e quell’invito a una radicale desoggettivazione dell’esperienza che avevano animato il progetto rivoluzionario contenuto nell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari.
Come è noto, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, una intera generazione, la stessa di Recalcati, si era trovata rispecchiata in quelle tesi. Congedare l’Edipo aveva per quei giovani il senso nietzscheano di una liberazione dalla tirannia di ogni forma di trascendenza. Deleuze e Guattari erano certi che l’«ultimo» Lacan stesse proprio lavorando in quella direzione e, infatti, non lo includevano tra gli aborriti psicoanalisti-preti. Proprio come Pasolini, anche Recalcati individua invece una contro-finalità nelle pratiche di quella generazione. Liberando il desiderio da Edipo e dalla Legge, quei giovani che si dicevano rivoluzionari, testimoniavano in realtà un’avvenuta «mutazione antropologica», che assicurava al più selvaggio neoliberismo – in gestazione in quegli stessi anni– il più docile dei materiali umani. Proprio Lacan, del resto, subito dopo il Maggio, aveva avvertito i suoi giovani contestatori maoisti: «Voi volete un nuovo padrone, e l’avrete!».
Sul piano politico-sociale Recalcati ha ben chiaro come il «discorso del capitalista» s’innesti perfettamente, parassitandolo e pervertendolo, su queste false promesse di liberazione legate all’emancipazione del godimento. A differenza di quanto avveniva negli scritti corsari di Pasolini, che nella loro critica della modernità indulgevano al moralismo, la critica di Recalcati alle interpretazioni antiedipiche di Lacan vorrebbe esserne esente. Di più, nel libro inserisce passaggi autocritici nei quali prende le distanze dalle letture di ordine «morale» che L’uomo senza inconscio talvolta sembrava autorizzare.
Il cuore teorico del libro si trova infatti là dove Recalcati prova ad agganciare la trascendenza del desiderio all’immanenza del godimento, cercando di superarne la sterile contrapposizione. Lacan non opterebbe cinicamente per il godimento autistico dell’Uno contro il desiderio dell’Altro (ipotesi Deleuze, Miller) né moralisticamente riconfermerebbe il primato della Legge, di Edipo e la conseguente necessità universale del sacrificio della pulsione.
Lacan non disgiunge e nemmeno opera una sintesi dialettica, sebbene entrambe queste possibilità siano contemplate e agenti nel suo pensiero. Piuttosto, secondo Recalcati, Lacan individuerebbe una terza dimensione nella quale gli in compossibili,  – desiderio e godimento, costitutiva relazione all’Altro e non-rapporto all’Altro – restando tra loro disgiunti, tuttavia si incontrerebbero e verrebbero in presenza l’uno dell’altro senza annullarsi.
Sono le pagine più belle e più tormentate del libro. Questa terza dimensione è, secondo Recalcati, la dimensione dell’«amore»: «Lacan – scrive – chiama “amore” il movimento dell’incontro singolare con il non-rapporto, il movimento dell’Uno verso l’Altro, del godimento verso la sua convergenza col desiderio». Non si può non constatare il sapore profondamente cristiano di questa soluzione. Ancora una volta i cammini di Recalcati lettore di Lacan e quelli del Pasolini corsaro si ricongiungono in un punto essenziale: la creaturalità, la finitezza, il limite come fondamento dell’esistenza e come chiave di ogni bellezza e di ogni «salute» psichica. Una convergenza capace di mettere in luce temi ricorrenti nel dibattito che storicamente in Italia ha accompagnato l’emergenza della modernità.
Per quanto si risalga indietro nel tempo, c’è sempre stata un’opzione sconfitta, c’è sempre stato un modo di accedere al moderno che risultava alla fine interdetto, talvolta addirittura demonizzato. E quella opzione si è incarnata, per esempio, nella filosofia materialistica radicale del Leopardi filosofo di una immanenza assoluta a forte rischio anti-edipico.
Del pensiero materialistico di Leopardi si potrebbe dopotutto dire, con Lacan, che in esso agisce «una disperata affermazione della vita che è la forma più pura dell’istinto di morte». Le posizioni che erano state ieri quelle del Pasolini filosofeggiante, e che sono oggi quelle del Recalcati esegeta lacaniano, testimoniano di questa radicata diffidenza nei confronti della «disperata affermazione della vita», qualcosa con cui, peraltro, entrambi hanno a che fare, l’uno come poeta l’altro come clinico.
Certo, è singolare come il materialismo, nel dibattito culturale italiano, anche in quello laico e di sinistra, ritorni sempre come l’avversario da sconfiggere, quando invece potrebbe essere una chance, una ipotesi di lavoro a partire dalla quale ripensare il presente.