Il giovane Michele Castelnovo (è nato a Lecco il 26 gennaio 1992), laurea in Filosofia all’Università degli Studi di Milano, tra tanti impegni e iniziative culturali, musicali e sportive legate al paese di Civate in cui risiede, ha creato nel 2011 una pagina su Facebook, “Il fascino degli intellettuali”, con l’obiettivo di fare e diffondere cultura tramite gli strumenti offerti dai social. Data la crescita del progetto, nel 2013 ha creato un omonimo blog, del quale è direttore, per poter approfondire varie tematiche anche con la collaborazione di altri venti ragazzi, provenienti da tutta Italia. «La cultura – dice- costituisce l’unica arma in nostro possesso per resistere a un sistema che ha mercificato ogni più alta aspirazione dell’uomo. Per questo credo fortemente nel suo valore, sociale prima ancora che individuale».
Inevitabile che uno dei suoi autori di riferimento sia Pasolini, di cui, nel 2013, ha commentato le lungimiranti riflessioni sulla “mutazione antropologica” degli italiani in un acuto articolo che qui riproduciamo.
Pasolini, la società dei consumi e la mutazione antropologica
di Michele Castelnovo
http://fascinointellettuali.larionews.com -14 giugno 2013
Ci sono certi autori che non hai bisogno di leggere per poter dire di conoscerli: in fondo sono sempre stati dentro di te. Questo è il rapporto che ho avuto con Pier Paolo Pasolini: ho sempre saputo che la pensavamo allo stesso modo. Non senza un po’ di vergogna devo però ammettere che io in realtà non ho mai letto un romanzo né visto un film del PPP. Eppure qualche tempo fa, nelle pause tra un esame e l’altro, decisi di comprare i suoi scritti più genuinamente filosofici, mosso da un malcelato desiderio di leggere qualcuno che dicesse quel ch’io non ero in grado di esprimere – è stato così che sono entrato in possesso degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, in cui viene affrontato quel grande fenomeno della “mutazione antropologica” dell’Italia di quegli anni. In realtà questi non sono testi filosofici: entrambi i volumi sono raccolte di articoli scritti per i più grandi quotidiani nazionali da Pasolini nei suoi ultimi anni di vita, quei magici 70s che forse tanto magici non erano. Nonostante ciò, a mio avviso, questi articoli riescono a raggiungere un significato universale, filosofico. Purtroppo le pause tra un esame e l’altro si riducono sempre ad un paio di giorni, così al momento ho avuto modo di affrontare solo la lettura delle Lettere luterane.
Qualche tempo fa ho avuto modo di leggere un’intervista de “la Repubblica” a Carlo Sini, che, prima di andare in pensione, era docente di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Milano. Un passo a mio avviso particolarmente significativo ha fatto scattare in me una molla, quella molla che qualche mese dopo mi ha portato al confronto con Pasolini:
L’evidente crisi del modello capitalistico va in parallelo con la crisi di ciò che un tempo si chiamava alta cultura. Il liberalismo politico e il liberalismo economico sono falliti nei loro propositi esattamente come la scuola pubblica e l’universale alfabetizzazione. Non possiamo rinunciarvi perché non conosciamo modelli più efficienti o più realistici, ma non ne deriviamo affatto quel benessere per tutti e quella diffusa formazione critica e liberatrice che erano attesi.
Se volessimo seguire Karl Marx, non sarebbe difficile affermare che l’apparato culturale di una società sia strettamente dipendente dalle condizioni materiali di esistenza di quella società stessa, dal suo modello economico, anche se in realtà non sarebbe necessario scomodare Marx per convincersi di ciò. Questo significa semplicemente: siamo Italiani del 2013, dunque l’insieme delle nostre idee, percezioni e rappresentazioni del mondo dipendono dal modello capitalistico su cui si fonda la nostra epoca. Quello che ha scritto Sini è molto importante: il modello capitalistico mostra ovunque falle e la nostra sovrastruttura teoretica non può che rispecchiare ciò: falliscono il liberalismo economico e politico, falliscono contemporaneamente i propositi della scuola pubblica e dell’alfabetizzazione universale, il che vale a dire: c’è stato fallimento poiché a un aumento dell’alfabetizzazione non è corrisposto un aumento del livello di diffusione della cultura.
Discutendo di ciò con un mio caro compagno di studi, tutto si è fatto chiaro: sono giunto a ritenere appunto che la causa di buona parte dei problemi del nostro Paese sia il fatto che in passato a un aumento del tasso di alfabetizzazione non sia corrisposto un aumento dell’acculturazione della popolazione: volendo banalizzare, un tempo c’era la massa dei contadini analfabeti; ora una massa indifferenziata sì alfabetizzata, ma assolutamente ignorante. Inoltre credo che paradossalmente questa seconda situazione sia più deleteria della prima: la “massa dei contadini analfabeti” non era ignorante, aveva pur sempre una sua cultura. Una cultura “bassa”, certo, che non ha nulla a che vedere con la cultura “alta” del mondo accademico; una cultura fatta di detti e usanze – un sapere concreto sulla vita – tramandata principalmente oralmente e che ora sta inesorabilmente scomparendo, travolta dalla “medietà” di una società che non ha né una cultura “bassa” né una cultura “alta”. Siamo giunti così al mio incontro ante litteram con Pasolini.
Tra le Lettere luterane – libro che consiglio vivamente di leggere – ho trovato un articolo che mi ha particolarmente colpito: La droga: una vera tragedia italiana. Prenderò in considerazione questo testo per due ragioni: innanzitutto è emblematico dello stile argomentativo pasoliniano, che, traendo spunto da fatti di cronaca contingenti, giunge a cogliere i meccanismi sociologici necessari ed ineludibili che governano un’epoca, allora ancora in culla e forse solo oggi definitivamente compiuti; in secondo luogo è forse lo scritto in cui Pasolini descrive con maggiore lucidità e disincanto la sua visione critica della società e del suo tragico sviluppo.
L’articolo si apre con una domanda: perché i drogati si drogano? L’autore inizia quindi una “fenomenologia della droga”, in cui sostiene la tesi secondo la quale la droga è un surrogato della cultura: la droga occupa quello spazio che un tempo era occupato dalla cultura. Eppure questo fatto individuale è diventato nel corso degli anni un fenomeno collettivo: dapprima la droga era una questione prettamente borghese, col passare degli anni è diventato un fenomeno di massa. Perché? Perché la società dei consumi ha distrutto quella cultura italiana che nemmeno il fascismo era riuscito a scalfire. In un’interessantissima intervista televisiva, Pasolini afferma che il “regime democratico” è riuscito laddove ha fallito il regime fascista: mentre il fascismo non è riuscito ad intaccare la tradizione, gli usi e i costumi degli italiani, il nuovo regime ha distrutto, smantellato la cultura italiana, omologando tutti nella ricerca impossibile di uno sfrenato e assurdo edonismo consumistico, che, appena pare essere raggiunto, subito sfugge. Attenzione: ciò non fa di Pasolini un fascista! Come la Luna intorno alla Terra, così Pasolini ha sempre gravitato nell’orbita del PCI, tenendosi però alla debita distanza, quella distanza che permette anche la critica. Egli è sempre stato antifascista, è sempre stato avverso ad ogni regime; proprio per questo non può che essere ostile al nuovo regime, ancor più totalitario e distruttivo del precedente.
La società italiana posteriore al grande boom economico degli anni ’60 è una società drasticamente diversa da quella di dieci, venti o trent’anni prima. Nel frattempo ha fatto la sua comparsa la televisione, che si è rivelata essere fondamentale nel processo di distruzione della precedente tradizione italiana. Il punto però non è tanto la distruzione di un insieme valoriale, quanto il fatto che al vecchio sistema crollato non ne è subentrato uno nuovo, a meno che non si assuma il consumismo come cultura, cosa che, triste da ammettere, è effettiva. È proprio questo nuovo sistema valoriale – che, diciamocelo, in fondo non differisce molto da un vuoto valoriale – la causa che, a detta di Pasolini, ha fatto diventare la droga un fenomeno di massa: l’assenza di cultura – vale a dire: la borghesizzazione della cultura – ha infettato tramite l’omologazione consumistica anche chi una cultura ce l’aveva, quella massa informe di contadini ed operai analfabeti ma colti di cui parlavo prima. Pasolini, con la sua sensibilità di scrittore, poeta e regista, coglie e denuncia questo meccanismo, che denomina la “mutazione antropologica” dell’Italia: negli anni in cui scriveva (l’articolo in questione è del 24 luglio 1975) si era agli inizi di un processo di cui oggi vediamo i frutti più maturi. In fondo la riflessione che vi ho proposto poco fa sull’Italia del 2013 non differisce granché da quella pasoliniana del 1975, se non per il fatto che al suo tempo il processo era solo germinale. Dopo i quasi quarant’anni che ci separano dalla sua intuizione, ora possiamo effettivamente dire che aveva ragione: il processo si è compiuto, la cultura tradizionale italiana è scomparsa.
Voglio ora citare un altro passo di Pasolini del 1968. Se chiamiamo borghesia quella medietà totalizzante derivante dal livellamento consumistico, allora
la borghesia sta trionfando, sta rendendo borghesi gli operai, da una parte, e i contadini ex coloniali, dall’altra. Insomma, attraverso il neocapitalismo, la borghesia sta diventando la condizione umana. Chi è nato in questa entropia, non può in nessun modo, metafisicamente, esserne fuori. Per questo provoco i giovani: essi sono presumibilmente l’ultima generazione che veda degli operai e dei contadini: la prossima generazione non vedrà intorno a sé che l’entropia borghese.
«La prossima generazione non vedrà intorno a sé che l’entropia borghese». Quella di cui parla è la nostra generazione e, a mio modo di vedere, le cose stanno effettivamente così. Tutte le peculiarità, anche se folkloristiche e buffe, stanno inesorabilmente scomparendo, ormai custodite solo da chi le ha vissute ed estranee alla nostra generazione di giovani del XXI secolo. Non so se possa essere corretto esprimere un giudizio morale e almeno in questa sede non è mia intenzione farlo, eppure non si può negare il fatto oggettivo che una cultura è morta per lasciare il passo a un’altra: parlando la lingua di Michel Foucault, potremmo dire che siamo passati da un “a priori storico” ad un altro.
Le Lettere luterane contengono inoltre un’accurata analisi della situazione politica del tempo, in cui tratta di quel famoso Processo al Palazzo che è entrato ormai, completamente decontestualizzato, nel linguaggio comune. Tuttavia non voglio addentrarmi qui ed ora nell’analisi politica pasoliniana e questo per una serie di ragioni, sulle quali spicca senz’altro la mia scarsa competenza storica in materia.
In questi due piccoli ma densi libri i temi trattati sono pressoché infiniti e tutti egualmente interessanti, tanto da meritare analisi più approfondite di quelle che posso fornire al momento. In ogni caso lo sfondo complessivo di tutte le riflessioni pasoliniane del periodo è costituito proprio dall’individuazione di questa trasformazione sociale. Mi limito quindi a ribadire quanto affermato precedentemente: Pier Paolo Pasolini, traendo spunto da una situazione contingente, ha saputo cogliere con straordinario anticipo quello che sarebbe stato l’effetto di un meccanismo sociologico dallo sviluppo necessario, che ha comportato una vera e propria mutazione antropologica (a questo punto le virgolette possiamo anche toglierle) nell’Italia e negli Italiani.
Voce fuori dal coro, intellettuale poliedrico e mai allineato, Pasolini ha saputo allungare l’occhio fino ai giorni nostri, dei quali può ancora parlare con estrema attualità e lucidità. «Ma devo farlo solo io, in mezzo a un bosco di querce?».