Il 2018 sarà anche l’anno del ricordo del Sessantotto, mezzo secolo dopo. Naturale che si faranno fitte le rievocazioni apologetiche, come le abiure o i rigetti. Perché quell’anno fu un anno spartiacque, mirabile o terribile, esaltante o deprecabile. Il giudizio è aperto, accidentato, anche contraddittorio, come avviene per i fatti della storia ancora troppo vicini, ancora non troppo lontani. Altalene della memoria umana su cui si sofferma con acuta leggerezza Antonio Errico, scrittore salentino, dirigente scolastico, editorialista e collaboratore, tra gli altri, del «Quotidiano di Puglia».
Giornale in cui, il 3 febbraio 2015, così si scrive della sua prosa:- «Errico ha fatto della scrittura un laboratorio in fieri, giungendo a una cifra personalissima dove la parola, spesso detta in prima persona, incrocia il respiro, si fa suono sulla carta, tentativo di guadagnare la profondità e lo spessore della voce. Così nelle produzioni più recenti, L’ultima caccia di Federico Re, Viaggio a Finibus Terrae, Stralune, L’esiliato dei pazzi, fino a La pittura dei demoni, vera e propria partitura musicale in un sud che va da Napoli al Salento “nel tempo di un Seicento inquieto e torbido”».
I torti e le ragioni nei giudizi sulla Storia
di Antonio Errico
www.quotidianodipuglia.it – 14 gennaio 2018
A volte si ha l’impressione che sia stato appena ieri. Invece sono già passati cinquant’anni. Qualcuno attraversava i giorni dell’infanzia, qualcuno quelli dell’adolescenza. Qualcuno nasceva in quell’anno. Qualcuno ancora non c’era. Qualcuno aveva una giovinezza acerba. Qualcuno che c’era allora, adesso non c’è. Si dice che sia stato un tempo bello; si dice che sia stato un tempo brutto.
Un tempo di vizi; un tempo di virtù. Un tempo di verità e un tempo di menzogne. Un tempo di oscurità, un tempo di splendori. Come sia stato davvero quel tempo, forse lo ha detto Charles Dickens nell’ incipit de Le due città: era il peggiore dei tempi, era il migliore dei tempi, era l’ora della rovina, era l’età dell’abbondanza, era l’epoca dell’incredulità, era l’epoca della fede, era la stagione della luce, era la stagione del buio, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, avevamo tutto davanti a noi, non avevamo nulla davanti a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell’altra parte.
Quel tempo lo aveva definito perfettamente Dickens, dunque, più di un secolo prima: nel 1859. Il Sessantotto è stato un convergere e un divergere di situazioni, di condizioni, di storie, di sacrosante rivendicazioni, di pretese assurde, di cause giuste o pretestuose, di fantasie trasformate in realtà, di occasioni mancate. Di battaglie vinte quando sembravano ormai perdute; di battaglie perdute quando si era sicuri di averle già vinte. Forse una metafora: a Roma era di marzo, e non ancora primavera. Per due ore e mezzo fu battaglia, a Valle Giulia. Da una parte gli elmetti, i manganelli, le camionette corazzate, i lacrimogeni, gli idranti.
Dall’altra gli studenti. Feriti da una parte, feriti dall’altra. Il giorno dell’ira e del delirio. In una poesia dura, durissima, Pier Paolo Pasolini si schierò dalla parte dei celerini. Perché i poliziotti sono figli di poveri, scrisse. Perché vengono da subtopie urbane o contadine. Hanno una madre incallita come un facchino, o tenera per qualche malattia, come un uccellino. Vengono dai bassi sulle cloache o dagli appartamenti nei grandi caseggiati popolari. E poi, guardateli come li vestono, scrisse: come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio furerie e popolo.
Degli studenti disse: avete facce di figli di papà. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi.
Pasolini aveva torto e ragione, allo stesso tempo. Chiunque abbia parlato e ancora parli del Sessantotto ha torto e ragione, allo stesso tempo. Si ha sempre torto e ragione quando si danno giudizi sulla Storia. È inevitabile. La sola cosa certa è che il Sessantotto è stato un tempo di soglia, di confine e di sconfinamento, un limite e una violazione del limite, un’estremità, un varco, una linea d’ombra. Un tempo di ambiguità, di confusione. Di tolleranze e intolleranze così impastate fino a non distinguersi più. Dopo quel tempo, oltre quel confine, dopo quell’ambiguità, diradata quella confusione, oltrepassata quella soglia, niente è stato più com’era stato. Si è generato un altro pensiero, un altro comportamento. Sono diventate completamente diverse le parole. Nel bene e nel male. Ma senza riuscire a comprendere davvero da che parte fosse il bene e da che parte fosse il male.
C’è chi dice che il Sessantotto abbia mutato tanto la realtà quanto l’immaginario sociale. C’è chi dice che sia stato assolutamente inutile: dannosamente inutile. C’è chi dice che i progressi prodotti dalla contestazione sarebbero comunque maturati per una naturale evoluzione dei tempi. C’è chi dice che invece staremmo ancora pestando i piedi nella pozzanghera piccolo-medio borghese. C’è chi dice che poi, alla fine del conto e in realtà, non è cambiato proprio niente. Si è detto che furono anni terribili. Si è detto che furono anni formidabili. Chiunque dica quello che dice ha torto e ragione nello stesso tempo.
In fondo, la Storia è fatta di proprio di questo: di torto e di ragione, di coerenze e di contraddizioni, di affermazioni e di smentite, di contrasti, di contrari, di contrapposizioni, di incomprensioni. Sono passati cinquant’anni. Forse per comprendere una storia complessa, una mutazione di mentalità, cinquant’anni sono pochi. Si è ancora troppo implicati, troppo schierati. La memoria non è metodo adeguato.
La memoria a volte non basta. La memoria a volte sovrasta. La memoria a volte inganna. A volte si ricorda soltanto quello che si vuole. Ci si difende anche dai ricordi: forse soprattutto dai ricordi. Per chi aveva vent’anni allora e adesso ne ha settanta, o qualcuno di meno o qualcuno di più, il Sessantotto significa la sua giovinezza. Chi adesso ne ha sessanta o qualcuno di meno o qualcuno di più, ha immagini sfuocate del terremoto nella valle del Belice. Ricorda Nino Benvenuti che alle 4 del mattino riconquista il titolo mondiale contro Emile Griffith. Il Governo Moro, preoccupato dal pericolo di dilagante assenteismo al lavoro e nelle scuole, vietò la trasmissione dell’incontro in diretta televisiva. Allora gli italiani si aggrappano alle radioline. Ricorda l’assassinio di Luther King e quello di Robert Kennedy. Ricorda che a Sanremo vinsero Sergio Endrigo e Roberto Carlos, che Luigi Tenco si era suicidato l’anno prima. Ricorda i comizi pirotecnici nella piazza del paese. Il circo con gli elefanti e i pagliacci nei giorni di Natale. Non ricorda nessun boom economico ma le famiglie che andavano via per le città del Nord e le strade che si svuotavano e i giochi per le strade che finivano. Questo ricorda del Sessantotto.
Forse per capire meglio si dovrà aspettare cinquant’anni ancora. Quando nessuno di quelli che c’erano ci sarà più. Allora, fra cinquant’anni, chi vorrà capire studierà le carte, farà i confronti, analizzerà le cause, valuterà gli effetti, applicherà criteri e strumenti cosiddetti oggettivi.
Probabilmente fra cinquant’anni sarà tutto più facile. Poi, quando avrà indagato i fenomeni, quando avrà capito, potrà anche accadere che dica quello che stiamo dicendo noi adesso: aveva ragione Charles Dickens. Era il peggiore dei tempi, era il migliore dei tempi. Avevamo tutto davanti a noi. Non avevamo niente davanti a noi. Eravamo tutti diretti verso il cielo. Eravamo tutti diretti verso un’altra parte.