Qual è la differenza tra sviluppo e progresso? Quanto si perde in autenticità e purezza con il miglioramento delle condizioni materiali del vivere? Quale il rapporto tra ragione e sentimento, tra conoscenza scientifica e poesia? Quale infine il ruolo dell’intellettuale nei confronti del proprio tempo? Sono alcuni dei rovelli su cui si interrogò Pasolini, nel suo corpo a corpo con la modernità capitalistica, rea di un (irreversibile) processo di desacralizzazione della vita e dell’espansione di modelli sociali improntati al solo benessere materiale. Su questi temi si interroga anche lo scrittore e giornalista Antonio Pascale, autore nel 2015 di un brillante saggio che spezza una lancia a favore della conoscenza razionale, ma nel contempo riconosce agli scrittori, e a Pasolini in primis, il valore insostituibile dello sguardo poetico fertilmente “altro”.
Se tu sai, hai le prove? Il sacro, il progresso e Pier Paolo Pasolini
di Antonio Pascale
www.stradeonline.it – 20 novembre 2015
Qualche ricordo
Di solito la mattina, in famiglia, mentre ci preparavamo, ascoltavamo la radio: era sul comodino, nella stanza da letto dei miei. La mattina del 2 novembre, mio padre disse a mia madre: «Hanno ucciso a Pasolini». Poi silenzio. La stessa mattina, a scuola, in terza elementare, la maestra disse: «Oggi è morto Pasolini, voi forse non lo sapete – aggiunse – ma era malato, un omosessuale». Poi silenzio.
Il silenzio per me è continuato fino agli anni ’80, ma abitavo a Caserta, c’erano poche possibilità per approfondire, e del resto non mi interessavo di narrativa. All’epoca, solo di moto e motori truccati.
Poi in quarto liceo è cominciata la passione (prima) per la musica e (poi) per la letteratura. In quel periodo ho risentito parlare di Pasolini. C’era uno di sinistra – molto impegnato a scuola, un leader – che non lo sopportava, non gli piacevano le sue posizioni contro il PCI, mentre uno di destra – un intellettuale di destra – diceva che Pasolini aveva capito un sacco di cose. Quindi capii – vista la mia posizione politica di sinistra – che Pasolini era di destra, meglio non parlarne, ancora silenzio.
Poi Caserta era una città con un fondo borbonico e non su Pasolini si litigava, ma per la musica. Guardavamo Mister Fantasy e scoprivamo il rock, David Bowie e la musica berlinese, avevamo poi visto il Live Aid e sul palco di Wembley gli U2 e insomma tutta quella musica che veniva da fuori, girava intorno fino a raggiungerci, quel cosmopolitismo, come mi affascinava.
Mi affascinava perché lo andavo, appunto, comparando con quel fondo culturale casertano borbonico e reazionario. La questione, semplificata ma non semplicistica, era: a Caserta quelli di sinistra che frequentavo amavano il rock, l’Inghilterra, e certi scrittori americani come Bukowski; forse lo posso dire: quelli di sinistra, al tempo, erano interessati alla modernità, quelli di destra al passato – ai Borboni – e, cosa veramente grave, non sopportavano Garibaldi.
La destra non mi piaceva e se Pasolini era di destra non c’era ragione di leggerlo. Poi – ricordo – un amico di scuola, molto di sinistra, un fedele alla linea, mi fece leggere degli articoli di Pasolini. Uno di questi parlava male dei capelloni e, cosa strana, quel mio amico aveva capelli lunghi, e allora capii che le posizioni erano più complesse, e incuriosito cominciai con alcune poesie di PPP. Una mi piaceva tanto, diceva: «Oggi è domenica / domani si muore / oggi mi vesto / di seta e d’amore».
Poi Leo de Berardinis – a Napoli, Teatro Nuovo? non ricordo bene, ma sicuro eravamo dopo il 1985 – lesse le Ceneri di Gramsci, accompagnato da due musicisti, tromba e batteria. Una lettura bellissima: «Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore era ancora vita, in quel maggio italiano che alla vita aggiungeva, almeno ardore, quanto meno sventato e impuramente sano dei nostri padri – non padre, ma umile fratello – già con la tua magra mano delineavi l’ideale che illumina (ma non per noi: tu morto, e noi morti ugualmente, con te […]). È un brusio la vita».
Ora – e siamo negli anni Ottanta – se mi chiedevano di Pasolini, rispondevo «Sì lo conosco», ma in verità non avrei saputo sostenere una discussione critica né incasellarlo a destra o sinistra. Tuttavia, una cosa era sicura, il capitalismo non mi piaceva: affama la gente – così dicevamo – ma, fatto strano, questo argomento usciva fuori sempre a tavola, mentre mangiavamo. Oppure, il capitalismo produce borghesi grigi, e noi grigi non ci sentivamo: in effetti vestivamo con colori sgargianti, anni ’80 appunto, anche perché non avevamo sensibilità e gusto per l’abbinamento dei colori. Ma (ancora), fatto strano, l’argomento usciva fuori nelle aule universitarie. Altra contraddizione, grazie ai borghesi, cioè ai nostri genitori, studiavamo e alcuni di noi cominciavano pure a viaggiare: cosa che a quel contadino che era mio padre non era stata mai concessa.
Tuttavia in quegli anni quelli che amavano Pasolini erano contro il capitalismo e contro i borghesi, e siccome anche Pasolini lo era a noi andava bene. Dunque – ricordo – ci fu un cambio di passo; d’ora in poi avremmo cominciato a parlare di Pasolini e a difenderlo, in fondo lui – dicevano le cronache – era pieno di contraddizioni, ma anche noi; lui aveva una bella macchina, vestiva bene, con gusto, amava il progresso e anche noi, ma – e questa era la finezza – il progresso e non questo sviluppo, e anche noi.
Infatti dicevamo: paghiamo lo scotto della crescita sul piano culturale, e allora cosa rimane del variopinto mondo dei dialetti? Dei contadini che diventavano grigi borghesi? Di quel mondo millenario sacro? Il capitalismo spazzava via ogni cosa, e omologava tutto: se mi ricordo bene, quell’intellettuale di destra che conoscevo tempo prima esprimeva le stesse critiche.
Il nostro complesso sistema di riferimento
Ma in mezzo a tutte queste parole, la sinistra e la destra, il vecchio e il nuovo, se il capitalismo affama e produce borghesi grigi, ecc., viene da chiedersi, così per essere più precisi e capire il sistema di riferimento: in questi ultimi due secoli – dai tempi di Napoleone – quante persone nel mondo, in percentuale, vivevano in estrema povertà? E qui intendiamo come “in povertà estrema” quelle persone che faticavano per mangiare e avevano quindi poche possibilità di cambiare la propria vita.
Se consideriamo come data di partenza il 1800, allora la percentuale è 85%. Però poi c’è stata la rivoluzione industriale e tutti noi immaginiamo che la percentuale sia notevolmente scesa, e invece, a grandi numeri, siamo ancora nel 1860 all’80%. Nel 1900 – PPP nacque nel 1922 – qualcosa comincia a muoversi, e scendiamo attorno al 70%. Nel 1955 – PPP è a Roma da un bel po’ e nel 1951 conosce Sergio Citti che gli insegna lo slang romanesco – arriviamo al 55%. Nel 1970 – gli anni ‘60 e ‘70 sono per PPP intensi, scrive, gira film, rompe con tanti, vince premi e viene processato e assolto con svariati capi d’accusa, tra cui anche quella di vilipendio alla religione di Stato- si raggiunge il 50%: cioè, metà della popolazione mondiale esce dalla povertà estrema. Solo nel 1990 – se Pasolini fosse stato vivo avrebbe avuto 68 anni – si raggiunge il 35%. Nel 2015 le stime portano la percentuale al 12%.
Insomma, un buon trend, considerando anche che dal 1800 la popolazione è passata da uno a sette miliardi. Più precisamente, nel 1924 due miliardi, nel 1960 – io sarei nato sei anni dopo – tre miliardi, nel 1974 – prima vacanza a Rimini – 4 miliardi, nel 1987 – seconda mia vacanza a Cambridge – 5 miliardi, 1999 – non ho fatto niente – 6 miliardi, e a ottobre 2011 sette miliardi.
Considerando il tasso di povertà e quello della crescita della popolazione, possiamo dire che mai nella storia del pianeta ci sono state tante persone affamate come nel 1970, due miliardi di persone affamate e due miliardi di non affamati, poi invece il trend migliora. Non so se Pasolini avesse queste stime a portata di mano, ma il suo empirismo eretico gli portava certamente a dire che il passato era migliore del presente, meglio contadino che borghese, meglio appartenere a un tempo immobile ma sacro che a uno laico e desacralizzato. Anche per questo alcuni concetti cardine di PPP – come il genocidio culturale, la trasformazione antropologica – si sono allora imposti.
Se avesse avuto le stime a portata di mano? Se per esempio avesse esaminati e scomposti i dati per la mortalità infantile e quella femminile per parto, non solo in Italia – vero motivo del genocidio culturale -, avrebbe notato un miglioramento, mortalità infantile e mortalità delle donne per parto andavano giù con un ritmo mai – e davvero mai – registrato nella storia umana, mentre, di contro, l’aspettativa di vita stava salendo. Così, tanto per fornire cifre, all’Unità d’Italia l’aspettativa di vita dell’italiano medio era di 35 anni (morivano in tanti dagli 0 ai 15 anni e così si abbassava la media); ora siamo a 82 anni, un record che condividiamo con i giapponesi.
Dunque che dire di questo sviluppo vs progresso? Abbiamo cominciato con un miliardo di persone quasi tutte povere, nel 1800, e siamo finiti con un miliardo di persone in estrema povertà, ancora oggi. Dove sta questo progresso? Però, sei miliardi di persone sono fuori dalla povertà e soprattutto – grazie a poche innovazioni, chimica e miglioramento genetico, meccanizzazione – l’agricoltura ha cambiato faccia e per gran parte siamo fuggiti dalle carestie e dalle malattie.
Quindi? Considerando che il lavoro di Pasolini è complesso e spesso contraddittorio, anzi la tecnica della contraddizione PPP l’ha molto usata, ma insomma in fin dei conti ci aveva indovinato o no? Quando diciamo che molte delle sue profezie si sono avverate e così dicendo costruiamo l’immaginario di intellettuale vate e profetico (nel caso di Pasolini l’avvicinamento alla figura del Cristo non è difficile), ecco, queste profezie passano l’esame dei fatti?
Forse, e soprattutto per i narratori, la buona misura non fa intellettuale: l’accusa, la provocazione funzionano meglio e alcuni racconti mitologici – la scomparsa delle lucciole – si ricordano meglio dei dati. Forse detestare o amare il progresso dipende solo dallo stato d’animo, a volte capitano momenti di pessimismo.
O ancora: il pessimismo serve. Le lucciole per esempio. Negli anni ’70 siamo in piena rivoluzione verde, in tanti escono dalla fame, anche i miei parenti, che ristrutturano l’abitazione e tolgono finalmente gli animali dalla camera da letto, ma sono anche gli anni di chimica ad oltranza che impatta sull’ambiente. Evidenziare il problema e farlo con un racconto – e non fa niente se nella foga si parla della scomparsa delle lucciole ma non della fame delle campagne, della vita dura -, può servire ad altri a impegnarsi e trovare la soluzione.
Il problema c’è, ora troviamo la soluzione. Infatti, per restare in tema chimica vs lucciole, c’è un abisso tra i primi agrofarmaci e i nuovi, questi ultimi più precisi, sostenibili: ma la soluzione richiede studio, scienza, misure e dati, tecnica, non rimpianti. Del resto, meglio un rimorso che un rimpianto, no?
Ragione è civiltà o mostruosità? Qualche elemento storico
Nicolas de Condorcet (matematico, filosofo, economista e rivoluzionario, morto in carcere, in circostante poco chiare: suicidio?) pubblicò una biografia di Voltaire (1789). Del resto era il suo eroe. Passò in rassegna tutti i progressi avvenuti durante la vita di Voltaire (1694-1778) e in conseguenza del suo impegno: la salute era migliorata grazie a pratiche di inumazione più razionali e alle vaccinazioni; il clero dei paesi soggetti alla religione romana aveva perso il suo pericoloso potere e avrebbe perso anche (prevedeva Condorcet) la sua scandalosa ricchezza; la libertà di stampa era aumentata. In Polonia, in Scandinavia, in Prussia, nei territori della monarchia asburgica l’intolleranza religiosa era scomparsa e perfino in Francia e (udite udite) in Italia vi erano segni di miglioramento in tal senso; il servaggio sembrava in via di scomparsa nella maggior parte dei paesi europei; erano state introdotte varie e positive riforme; le guerre erano meno frequenti, i sovrani e i loro ordini privilegiati non riuscivano più a ingannare i sudditi, e (concludeva), in generale, per la prima volta la ragione aveva cominciato a diffondersi sui popoli europei. Steven Pinkers scrive un elenco simile (moltiplicato per venti) nell’introduzione al suo libro, Il declino della violenza (Mondadori, 2013).
Quindi, tutto bene? Potevamo già allora goderci la festa. E invece, il 25 agosto del 1749, Rousseau, alle due di pomeriggio, stremato dal caldo, cercando un inutile riparo sotto gli alberi diradati alla maniera francese (che non davano ombra, credo sia interessante capire il perché di quella tecnica di potatura), si stendeva per terra. Poi riprendeva il cammino, e per moderare il passo tirava fuori un libro: «Le Mercure de France». Una domanda (proposta dall’accademia di Digione: la migliore risposta avrebbe meritato un premio) l’aveva incuriosito: se il progresso delle scienze e delle arti avesse contribuito a migliorare i costumi o li avesse corrotti.
Entrò in trance (così ricorda in una lettera che scrisse a Malesherbes nel 1762): «Tutt’a un tratto mi sentii la mente abbagliata da mille luci, una folla di splendide idee mi si presentò con tal forza e in una tale confusione, che fui gettato in uno stato di indescrivibile sconcerto». Bene, quando dopo mezz’ora si rialzò, si accorse che la giacca era bagnata dalle lacrime e improvvisamente capì la verità: il sistema di valori dell’Illuminismo doveva essere capovolto. Era stata la civiltà e non l’ignoranza, tanto meno la superstizione o il pregiudizio, ad aver condotto gli uomini sulla cattiva strada.
E rispose eccome a quelli dell’accademia di Digione: tentare di controllare o sfruttare la natura per migliorare il benessere materiale dell’uomo era sbagliato in linea di principio e letale in pratica. Tutti i rami delle scienze naturali avevano come matrice dei pericolosi vizi. L’astronomia nasceva dalla superstizione, la matematica dall’avidità, la meccanica dall’ambizione, la fisica da una vana curiosità. Pure la stampa aveva le sue colpe, poiché aveva consentito alle empie opere di Hobbes e di Spinoza di raggiungere l’immortalità. Rousseau concludeva la sua arringa con una previsione: gli uomini sarebbero stati (un giorno) così disgustati dalla cultura moderna che avrebbero implorato Dio di restituire loro «l’ignoranza, l’innocenza e la povertà, i soli beni che possono fare la nostra felicità e che siano preziosi al Suo cospetto».
Così, quando ora leggiamo una poesia di PPP, sappiamo da dove deriva. All’incirca dice così: «Se vogliamo andare avanti, bisogna che piangiamo il tempo che non può tornare (…) non basta rifiutare lo sviluppo (…) grazie a Dio si può tornare indietro (…) allora si rivedranno calzoni coi rattoppi, tramonti rossi su borghi vuoti di motori – e pieni di giovani straccioni tornati da Torino e dalla Germania (…) di notte si sentiranno i grilli, forse qualche giovane tirerà fuori un mandolino». La suddetta poesia (è Significato del rimpianto, in La nuova gioventù) ha amplificato un particolare immaginario: il progresso è disumano, vuoi mettere i tramonti rossi su borghi vuoti?
La modernità, insomma, altro non è che fredda tecnica. Certamente, a questo proposito, non tutti si spingono nei territori di Heidegger, che dopo il nazismo non rinnegò il nazismo, ma disse che la modernità conduce al nazismo e il nazismo era il destino dell’umanità, perché Modernità, Illuminismo, Ragione significano Scienza, Tecnica, Industria, e dunque conducono all’industria della morte, alla scienza dello sterminio, alla tecnica dell’erogazione del gas – e lasciamo perdere quell’altra nefasta affermazione sugli ebrei che si sarebbero autoannientati.
Insomma, lasciamo pure perdere la legittimità delle tesi dei francofortesi, spesso contraddittorie – in quegli anni, come non mai, si voleva cambiare il mondo ma si demonizzava lo spirito dell’Illuminismo, poi dalle tesi dei francofortesi si sono generate altre filosofie ambigue e oscure che mettevano insieme Bio-Potere, Tecnica, Campi di concentramento e secolo dei Lumi – e insomma senza insistere troppo sulle suddette questioni, e rimanendo al solo sapere nostalgico, una poesia come quella di Pasolini – che trovate citata in cento corsi veloci di decrescita felice – non è così originale, nasce da Rousseau e dalla sua trance (quella del 25 agosto del 1749) e dalle idee del filosofo romantico. Le suddette idee attraversano la storia (italiana e non) trovando concordi molti intellettuali di sinistra e di destra.
Il compianto Paolo Rossi non la pensava così. Nel 1975 scrisse il saggio Tra Arcadia e Apocalisse: note sull’irrazionalismo italiano degli anni Settanta. Rossi mi confessò una sera, a Firenze, che era estremamente legato a questo piccolo saggio, che gli portò molte critiche e vari fastidi. Il saggio analizzava questa specie di sapere nostalgico, o pessimismo nostalgico che Pasolini e altri intellettuali provavano e provano: il passato è migliore del presente, il passato contiene valori che il presente distrugge.
C’è di più: siccome il sapere nostalgico è associato alla retorica dell’apocalisse, la scomparsa delle lucciole, il genocidio culturale eccetera, dal punto di vista narrativo una visione suddetta deve per forza appoggiarsi al narcisismo e dunque alla propria personale percezione. Spesso un atteggiamento siffatto rifugge dai dati, un intellettuale è “oltre”, e così, qualunque cosa un intellettuale di questo genere esamini, diventa punto di snodo, momento topico, ultima difesa, resistenza, diversità.
Ci sarebbe da parlare anche de L’Ape e l’Architetto (Feltrinelli, 1976) di Marcello Cini, del rapporto tra primitivismo e rozzo marxismo, ma credo che la diatriba e che riguarda Pasolini si riduca allo scontro di cui sopra: scienza, progresso e civiltà contro mistero, purezza e autenticità. Sì, ragione contro la sacra trance. Del resto cosa scrisse Alexander Pope per Newton come epigrafe: «La natura e le leggi della natura giacevano nascoste nella notte; Dio disse: “Che Newton sia!”, e luce fu». Cosa disse Voltaire al funerale di Newton? «È stato sepolto un re». E invece che disse Heinrich von Kleist di Newton? Che nel seno di una ragazza avrebbe visto solo una linea curva, e nel suo cuore non avrebbe trovato niente di interessante oltre alla sua capacità cubica. Simpatico, Kleist, ma non era vero: Newton era un alchimista, nel suo corpo trovarono un sacco di mercurio. E William Blake? L’arte è l’albero della vita, la scienza è l’albero della morte. Chi tocca il Sacro, insomma, non è perdonato, almeno all’inizio.
Ma il sacro comincia da lontano
Alla volte penso che il lavoro dell’intellettuale sia tutto contenuto in una domanda, quella che Socrate pone a Eutifrone, sulla natura di ciò che è santo e sancito come buono. Insomma, è buono perché piace agli dei o piace agli dei perché è buono?
Nel primo caso, niente da dire e da fare: l’autorità è fornita dagli dei, punto. C’è un testo sacro e a questo dobbiamo ubbidienza, venerazione e rispetto. I miei bisnonni, senza andare troppo lontano, se volevano sapere come dovevano comportarsi, come dovevano rispondere ai dilemmi che si presentavano, andavano dal prete e il prete cercava la risposta nella Bibbia. Sicuramente c’era. Però, se osservavi la natura ed eri desideroso di scoprire come funzionano le cose piccole e grandi, la tela del ragno o le orbite delle stelle, e nella Bibbia non trovavi nulla del genere, allora o la tua domanda non era importante, o, se lo era, alla fine contrastava con qualcosa di scritto, sacro. Se osservavi la natura e cercare da te risposta, con molta probabilità qualcosa desacralizzavi.
Nel secondo caso, che ci siano o meno gli dei, questi sono del tutto indifferenti alle nostre scelte e dunque le strutture normative che regolano la società sono del tutto indipendenti dalla volontà degli dei, sono dunque soggette alla nostra ragione.
Proprio in questo secondo caso, in assenza di sacro e di teocrazie, gli intellettuali sono importanti perché hanno lo stesso difficile compito socratico: domandare incessantemente: “ma quello che facciamo perché lo facciamo? Quello che diciamo perché lo diciamo? Qual è la convinzione assiologica che sorregge il nostro dire e il nostro fare? Se lo riteniamo vero, possiamo mostrare anche agli altri dove guardare affinché anche gli altri possano non solo guardare cosa vedo anche io, ma toccare, imparare a misurare, l’evidenza che sorregge tutto questo? Insomma, se tu sai, hai le prove? Ed è chiaro, senza fallacie logiche, il metodo che segui?”.
Bisogna farlo, e subito: «oggi è domenica, domani si muore». PPP aveva un forte senso di morte: come a dire, io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte che viene avanti, al tramonto della gioventù. Ma per colpa anche di questo nostro mondo così umano che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace.
E allora cosa resta da fare, per migliorare il mondo e ritrovare un po’ di luce? La risposta: combattere il sacro adeguatamente vestiti di ragione e sentimento.
[info_box title=”Alessandro Pascale” image=”” animate=””]scrittore, nato a Napoli, ha vissuto a Caserta e dal 1989 vive a Roma dove lavora al Ministero per le politiche agricole. Ha pubblicato vari libri -narrativa, saggi, reportage- ha vinto numerosi premi, è tradotto in tre lingue (francese, spagnolo, portoghese). Ha scritto per il teatro, ha lavorato per la televisione (l’intellettuale di servizio nell’edizione delle invasioni barbariche 2012/2013) e collabora con “Il Corriere della Sera”, “Il Messaggero”, “Il Mattino”, la rivista “Limes e Scienze”. Ha un blog sul “Il Post” e su salmone.org. Il suo ultimo libro è il romanzo Le attenuanti sentimentali (Einaudi, 2013).[/info_box]